Home schooling, famiglie che istruiscono figli in casa. Piarulli: sintomo della crisi della scuola e dell’educazione

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Per Luisa Piarulli, pedagogista Anpe e membro dell’Osservatorio nazionale Infanzia e Adolescenza, il ritorno all’istruzione tra le mura domestiche è sintomo del profondo malessere che investe i contesti educativi tradizionali. Una risposta, insomma, comprensibile alla crisi della scuola, ma certo non priva di insidie.

Professoressa Piarulli, in Italia le famiglie che scelgono di istruire i figli in maniera autonoma dalla scuola sono all’incirca un migliaio, pensa che qui da noi questo modello potrebbe prendere piede? Quale giudizio esprime la pedagogia nei confronti dell’istruzione parentale?

“Come disse Albert Einstein “la crisi è una benedizione”. È evidente che attualmente siamo immersi in una crisi macroscopica che investe anche l’educazione. Edgar Morin scrive che “non dobbiamo né possiamo isolare questa crisi dell’educazione da una crisi di civiltà della quale essa è una componente”. Tuttavia, la mancanza di certezze, la liquidità dei valori, la mancanza di ideali necessariamente risvegliano le coscienze, mosse dall’esigenza di ricercare soluzioni possibili per affrontare problematicità e carenze e rispondere così ai bisogni del soggetto, a maggior ragione se si tratta di persone di minore età.

La crisi riaccende il pensiero divergente e la creatività nella ricerca di alternative capaci di soddisfare la legittima domanda di realizzazione individuale e sociale, di restituire alla comunità una forma più solidale. L’istruzione parentale si colloca in questo scenario: non è che una delle risposte individuate per affrontare la crisi della scuola e dell’educazione. Gli orientamenti ideologici a riguardo non sono univoci, come sempre accade e come è giusto che sia: c’è chi la sostiene e chi è più scettico.

Personalmente mi preoccupa il fatto che queste esperienze rischiano di creare divari sociali ancora più pericolosi di quanto già non lo siano. Penso alla stragrande maggioranza dei cittadini, impegnati a sbarcare il lunario fino a fine mese, o con un livello culturale meno robusto: probabilmente continuerà ad essere l’utenza della scuola pubblica, mentre l’homeschool un’alternativa alla scuola privata. Ecco, questo mi preoccupa. Sembra riemergere la funzione del pedagogo che un tempo si occupava dell’istruzione di un bambino solitamente appartenente a una famiglia benestante, che doveva seguire schemi e principi educativi che rispecchiassero lo status e il ruolo di una data appartenenza sociale.

La stragrande maggioranza della popolazione non può materialmente vivere con uno stipendio e sappiamo bene che le difficoltà economiche spesso incidono sulle relazioni intrafamiliari quando queste sono prive di serenità e di armonia. È pensabile che questi genitori possano autogestire la formazione dei propri figli? Che abbiano contesti di quotidianità tali da permettere il contatto con la natura, il verde, o le possibilità economiche per accedere ai musei, o per organizzarsi i viaggi? Nella scuola pubblica sta calando la partecipazione ai viaggi di istruzione anche per le difficoltà economiche delle famiglie. Ricordiamolo! Secondo il mio parere è la scuola, quella pubblica, che deve rivedere il proprio statuto epistemologico per garantire a tutti, proprio a tutti, le stesse opportunità formative”.

Che cosa può dirci della teoria dell’insegnamento libero? L’homeschooling trova i suoi presupposti teorici in essa?

“Esistono, e altre ne sono nate, diverse iniziative di “insegnamento libero”. In particolare l’homescooling ricorda la scuola di Summerhill ideata dal pedagogista Alexander Neill, ispirato al pensiero di J.J. Rousseau. Egli era fermamente convinto della natura buona del bambino, naturalmente propenso a fare bene, riteneva che il gioco e le attività creative fossero il veicolo privilegiato per apprendere. Egli era convinto che non fosse necessario istruire ed educare perché il bambino, attraverso l’esperienza diretta e a contatto con l’ambiente naturale, poteva imparare spinto esclusivamente dall’interesse e dalla forte motivazione. Secondo Neill il bambino acquisiva in questo modo autodisciplina, senza imposizioni, nell’ottica del principio della libertà e nel rispetto degli altri. Nella sua scuola non c’erano gerarchia, né competizione, né valutazione, né bambini “problema”. Semmai, sosteneva Neill, è il mondo adulto ad avere problemi. Era un orientamento metodologico non direttivo. Altri presupposti teorici simili possiamo individuarli nell’opera di C. Rogers, o di I. Illich o dello stesso L. Milani, seppure con differenziazioni sul piano del pensiero e delle metodologie.

Quindi le tendenze e le convinte sperimentazioni attuali non sono una novità assoluta, altre ne nasceranno di sicuro. A mio parere è necessario piuttosto tenere presente la contestualizzazione di queste sperimentazioni, gli scenari politici, culturali, antropologici, sociali nei quali queste scuole sono nate. Vale anche per oggi.

Le esperienze di insegnamento libero che nascono mettono piuttosto in risalto la consapevolezza acquisita dalle famiglie che la nostra scuola non sa rispondere adeguatamente ai bisogni dei propri figli. Sono genitori che non accettano più un contesto formativo improntato alla valutazione continua, alla competitività, all’arido nozionismo. Si cerca l’alternativa, anche se non è detto che sia la via più giusta”.

Qual è la differenza tra l’apprendere in una comunità, per quanto piccola, come la classe e l’apprendere in un contesto maggiormente ristretto e familiare?

“A mio parere l’apprendere in contesti protetti come quello della famiglia o di più famiglie, comunque scelte, non può produrre i risultati sperati. La formazione di un bambino abbraccia la sfera dell’istruzione e dell’educazione: un’opera immensa le cui trame s’intrecciano. Apprendere dalla frustrazione dell’insuccesso, affrontare le dinamiche complesse della relazione e della comunicazione, incontrare il diverso da me, consentono di inserirsi gradualmente in modo attrezzato nella vita stessa anche sperimentando emozioni negative se necessario. Le aule scolastiche, seppure con carenze a volte macroscopiche, permettono di acquisire la resilienza necessaria per vivere, per conoscere il proprio tessuto emotivo, per destreggiarsi, per conoscere le realtà più variegate, per imparare a stare nella vita con tutte le sue complessità e problematicità. L’autonomia e l’identità si raggiungono anche in questo modo. L’insegnamento libero può evidenziare dei limiti in questo senso”.

Per i ragazzi istruiti tra le mura domestiche voti, debiti e bocciature sono echi di un mondo barbaro e lontano. Per loro il processo di apprendimento non è più sereno e in qualche modo naturale?

“Certamente! Ma non rispecchiano la realtà. Ciò significa che le istituzioni dovrebbero condurre un attento studio di questi fenomeni, coglierne i bisogni impliciti, comprenderne la portata, ascoltare autenticamente. A una prima lettura è evidente la richiesta di riumanizzare la scuola, di creare un contesto formativo dominato dal piacere e dal protagonismo di giovani menti. Inoltre c’è un altro elemento da considerare: ogni adulto in relazione educativa con una persona di minore età, esplicita a livello più o meno conscio, un transfert. Così come i docenti anche questi genitori trasferiscono sui propri figli aspettative, desideri, prospettive future, forme di protezione o quant’altro. Quindi non è detto che il risultato sia la formazione di un soggetto pronto a misurarsi con quello che sta fuori dalla propria isola di relazioni”.

Tuttavia prima o poi dovranno entrare nel mondo delle valutazioni, della selezione, dell’interazione anche con persone e meccanismi non congeniali, saranno preparati?

“Potrebbero essere più preparati culturalmente, più pronti perché sorretti da una buona autostima e dalla fiducia in sé stessi. Sicuramente soggetti appetibili per le università magari più prestigiose, come sembra che sia. In ogni caso dovranno misurarsi con un universo dominato dalla competizione, dall’ambizione, dalle logiche divoranti del mercato. Non credo che possano essere del tutto equipaggiati essendosi formati in contesti in qualche modo protetti”.

Negli Stati Uniti gli homeschooler sono circa il 3 per cento della popolazione scolastica. Come giudica questo fenomeno?

“Ogni Paese è intessuto di storia, di personaggi, di teorici e di sperimentazioni. Neill per esempio operò molto in Inghilterra, la scuola di Summerhill prese il nome proprio dal quartiere in cui sperimentò la sua proposta pedagogica. Mentre Carl Rogers operò prevalentemente negli Stati Uniti, come Illich che propose il progetto di “descolarizzare la società”. Le scuole parentali qui hanno trovato un terreno fertile”.

C’è qualcosa che la scuola tradizionale potrebbe o dovrebbe mutuare da questo tipo di esperienza?

“La scuola tradizionale dovrebbe, ripeto, considerare con molta attenzione la nascita di queste sperimentazioni, studiare e ricercare i principi e le motivazioni che ne stanno alla base, cogliere la domanda. Le scuole parentali e similari stanno evidenziando i pericoli di una scuola pubblica che oggi ha una funzione prevalentemente diagnostica e direttiva, che evidenzia subdolamente il rischio di selettività, la ristrettezza e lo svilimento di una pratica valutativa incapace di riconoscere la creatività, che spesso trascura l’immenso valore di cui ogni persona di minore età è portatrice, che non apprezza adeguatamente i suoi docenti.

Quindi, se da una parte è giusto garantire il principio costituzionale della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie per i propri figli, dall’altra è un impegno istituzionale etico garantire a tutti i cittadini una formazione rispettosa della dignità e una formazione completa. La scuola pubblica va riumanizzata, va sostenuta con la ricerca pedagogica e metodologica, va considerata un valore, capace di tenere in considerazione fino all’ultimo dei suoi cittadini”.

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