La Buona Scuola. Max Bruschi: effetti positivi si apprezzeranno nel medio termine. Concorso: GM di durata rigorosamente triennale

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Si presenta oggi all’Università di Bergamo il nuovo libro di Max Bruschi a commento della legge 107/2015 (La Buona Scuola: legge 107/2015 e legislazione scolastica a confronto”, Edises 2015).

Si presenta oggi all’Università di Bergamo il nuovo libro di Max Bruschi a commento della legge 107/2015 (La Buona Scuola: legge 107/2015 e legislazione scolastica a confronto”, Edises 2015).

In concomitanza con l’evento, l’Ispettore del Miur racconta al pubblico di Orizzontescuola la genesi di questo esperimento così peculiare (l’analisi giuridica è condotta in forma di commentario) che, oltre ad evidenziare i punti critici nelle innovazioni introdotte dal nuovo quadro normativo (nemmeno Tiresia sarebbe in grado di calcolare il fabbisogno di docenti al prossimo concorso!), ha l’ambizione di offrire ipotesi di soluzione e di attuazione concreta. 

Partiamo dalla scelta di scrivere un commentario, un modo per sopperire a un qualche limite del testo? Ce ne vuole illustrare le ragioni e gli obiettivi? 

“Il commentario rappresenta, nel campo della normativa sulla scuola, una novità assoluta. Trattare una legge del genere come se si trattasse di un “codice” è scelta, condivisa con i miei collaboratori, per la maggior parte giovani giuristi, che ha più significati.

Innanzitutto, la formula rivendica la piena dignità del “diritto scolastico”, disciplina che meriterebbe, in ragione della sua complessità, uno statuto epistemologico a sé stante. Come direbbe Dante, “poca favilla gran fiamma seconda”. Il mio personale augurio è che, al di là dei pregi e dei difetti di questo esperimento, possa avere un seguito.

In secondo luogo, la preoccupazione è che il dibattito sulla fase attuativa (era una facile previsione) si sarebbe parcellizzato sui singoli “interessi”, senza una visione di insieme.

Il commentario cerca di offrire non solo i “paletti” previsti dalla normativa per l’attuazione delle singole previsioni, ma anche una visione d’insieme, che avvisi della “complessità”.

Nella Prefazione, ho usato non a caso la metafora della tela di ragno, peraltro vischiosa.

In terzo luogo, la formula dà modo di svolgere anche una, sia pure sobria, analisi storica, senza che quest’ultima predomini, come forse potrebbe avvenire in formule propriamente saggistiche. 

Infine, più che sopperire ai limiti del testo della 107/2015, i commenti provano a farne emergere le problematicità, in modo da prospettare delle soluzioni possibili, affidate come ovvio al legislatore o, per quanto di competenza, all’Amministrazione. Ho, peraltro, la consapevolezza che in questa prima attuazione il raggiungimento dei risultati “politici” rappresenti il dato predominante. 

Si veda, solo per fare un esempio, la gestione della fase C, mirata innanzitutto a garantire l’immissione in ruolo a tutti coloro che ne hanno fatto richiesta e, per quanto possibile, nella provincia di scelta. Ovvio, e sarebbe da ipocriti non dirlo, che quest’obiettivo ha in parte deluso le aspettative delle istituzioni scolastiche, che pure sono chiamate a “fare” con le risorse messe a disposizione.

Ora, il commentario indica che, comunque, la prima attuazione può essere slegata dall’attuazione a regime, con interventi correttivi da effettuarsi a partire dal turn over e in parte dalla mobilità in grado di adattare progressivamente l’organico alle esigenze dei PTOF.

In altri casi, e si veda la delega legislativa alla formazione iniziale, abbiamo messo in luce la necessità, ineludibile salvo prova contraria, di interventi correttivi, che facciano salva la volontà e le indicazioni politiche, ma le rendano realizzabili”.   

Si rivolge a una platea di professionisti ed esperti del settore, come dirigenti scolastici e amministrativi, insegnanti, ma anche docenti e studenti universitari, decisori politici esperti del settore. Questi ultimi hanno condiviso l’impianto del testo? Quali critiche, invece, le sono state rivolte? 

“Aspetto con ansia il dibattito di oggi a Bergamo, alla facoltà di Giurisprudenza, anche per questo. Almeno al momento, ho riscontrato un’ampia condivisione, soprattutto sulla metodologia adottata: ma si tratta prevalentemente di non giuristi. Proprio le critiche, nel senso etimologico del termine, degli operatori del diritto mi premono, per poter andare avanti nella mia ricerca. Che poi qualcuno, nei corridoi, mi possa accusare di “aver parlato male di Garibaldi”, è battuta che ci sta tutta. Sono anni che ho abdicato a qualsiasi impegno politico per servire, per quanto mi è possibile, l’Amministrazione. Tuttavia, ho un passato. Lascio all’intelligenza il considerare la validità di osservazioni condotte sulla base del pregiudizio “ad hominem”. Personalmente, non me ne curo”.

Nella prefazione puntualizza che gli effetti positivi della 107 sul sistema si apprezzeranno nel medio termine. Quali ritocchi andranno apportati affinché ciò possa avvenire?

“La condivisione, piena, è sulla “filosofia” generale della norma, che preme il pedale sull’autonomia delle istituzioni scolastiche e introduce (o reintroduce, o rende finalmente attuabili) una serie di istituti che sono ad essa necessari. L’organico dell’autonomia, gli ambiti territoriali e la ricerca di un incontro tra la domanda e l’offerta di personale docente, il “portale unico”, la stessa revisione del periodo di formazione e di prova, il “bonus di 500 euro” e la formazione obbligatoria sono tutti strumenti utilissimi e indirizzati allo scopo.

Certo, più o meno tutti scontano e sconteranno una prima attuazione resa complessa dalle fasi di immissione in ruolo e dai marchingegni escogitati per attutirne l’impatto… si poteva fare diversamente, e l’abbiamo scritto.

Ma, archiviata quella procedura e archiviata anche la “mobilità straordinaria” del prossimo anno, occorre tenere la barra dritta sullo “spirito” delle riforme.

L’esempio su cui insisto è quello dell’organico. Senza correttivi, torneremmo alle “dotazioni organiche aggiuntive”. Ovvio che, stante la procedura, le scuole non hanno (ancora) il personale che hanno richiesto. Ma guai al cielo se non dessimo loro la possibilità, nel tempo, di averlo. 

Quanto alla revisione delle norme, abbiamo puntualmente segnalato, nel commentario, le criticità: attenzione, siamo rimasti fuori dalle scelte politiche, per limitarci alle questioni tecniche. Ne segnalo una, particolarmente rilevante ai fini del prossimo concorso.

Neppure Tiresia sarebbe in grado di definire il fabbisogno, regione per regione e classe di concorso per classe di concorso, di docenti. Perché tanto la mobilità (territoriale e professionale) quanto l’aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento rendono impossibile qualsiasi previsione: a maggior ragione, nel bel mezzo di una procedura di mobilità straordinaria.

Un conto rivendicare la sacrosanta durata triennale delle graduatorie, che crea un sistema virtuoso (ricordo che in Francia i concorsi sono annuali) volto a premiare i migliori e ad evitare infinite code, altro conto sono i limiti alle graduatorie, che risultano vincolate ai posti previsti nel triennio più una quota del 10%. Che se possono avere senso in tutto il resto dell’amministrazione pubblica, basata su concorsi nazionali, non ce l’hanno per la scuola, nella quale l’immissione in ruolo avviene su base regionale e per classi di concorso. Il rischio di avere lunghe liste di “vincitori senza cattedra” da un lato e “cattedre senza vincitori” dall’altro è una quasi certezza.

In questo caso, al fine di prevenire guai peggiori o la replica di “fasi di immissione nazionali”, mi sento di raccomandare un ritorno alla formulazione del testo unico: graduatorie di merito di durata rigorosamente triennale.

Aggiungo di avere, in passato, disposto una norma simile, in una delle tante proposte di revisione del reclutamento. Ma quella proposta sterilizzava, sui posti messi a bando, proprio le procedure di mobilità… cosa che all’epoca fu prontamente rilevata dai sindacalisti consultati in fase di istruttoria”.

Lei scrive che spesso i tentativi di riforma sistemica o di visione unitaria si infrangono in dicotomie come “inclusione vs selezione” o “competenze vs conoscenze”, che – aggiungerei io – servono più a rimpinguare la saggistica universitaria e la pubblicistica che non a un progresso nella ricomposizione delle tante galassie educative esistenti e nell’orientamento delle politiche scolastiche. Lei pensa che la legge 107 indichi una qualche direzione? 

“Non mi sembra che la 107/2015 compia una scelta di campo, al di là delle riaffermazioni contenute nei primi commi. E fa bene. Perché i termini della questione sono totalmente nelle mani di chi la scuola la fa. Verrebbe da dire a prescindere dalle indicazioni del legislatore.

Leggendo i Rapporti di Autovalutazione (RAV), mi sono reso conto di come si siano innalzati totem all’inclusione. Ora… una scuola solo blandamente inclusiva, che privilegi gli aspetti di socializzazione o che uniformi il “passo di marcia” ai più lenti è classista. Lo diceva Antonio Gramsci, prima e meglio di me, ricordando il dovere della fatica nello studio e mettendo in guardia i suoi compagni di partito e di fede dal chiedere di abbassare lo sforzo richiesto. Ma, ripeto, la palla passa alle scuole. Mi piace, in proposito, citare Luigi Einaudi. Qualsiasi perfezione di ordinamento è inutile, se gli insegnanti non sono reclutati bene. E, aggiungo, se i Dirigenti scolastici non sono reclutati e valutati bene. La base è quella.

Quando sento dire, per esempio, che la laurea già di per sé garantisce le competenze disciplinari, mi viene voglia di rendere pubbliche, con gli ovvi omissis, le mie relazioni ispettive. A meno che non si consideri ammissibile che un docente di letteratura italiana possa non sapere in quante parti è diviso il Canzoniere del Petrarca, quasi che questo sia ininfluente rispetto a spiegarne l’essenza. L’ignoranza genera ignoranza. E dunque, classismo: perché rende impossibile il fiorire di talenti che hanno nella scuola l’unico possibile terreno di coltura e di cultura. Significa, per quanto ciò sia difficile, dare a ciascuno il suo e smetterla di mortificare i talenti, come se avere una marcia in più fosse una colpa. Il che non significa rinunciare alla dimensione inclusiva. A quarant’anni dal “Documento Falcucci”, dovremmo forse rileggerlo…”.

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