Famiglia Cristiana intervista Card. Bagnasco “Se chiudessero le scuole paritarie si produrrebbe danno economico”

Di Lalla
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red – In vista dell’incontro di Papa Francesco con il mondo della scuola il prossimo 10 maggio, Famiglia Cristiana intervista il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco. "È tempo di rimettere al centro le cose che contano", dichiara il cardinale, "Tra queste la scuola merita un’attenzione speciale, perché se non si investe su di essa difficilmente un Paese riprende a crescere".

red – In vista dell’incontro di Papa Francesco con il mondo della scuola il prossimo 10 maggio, Famiglia Cristiana intervista il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco. "È tempo di rimettere al centro le cose che contano", dichiara il cardinale, "Tra queste la scuola merita un’attenzione speciale, perché se non si investe su di essa difficilmente un Paese riprende a crescere".

Di seguito il testo completo dell’intervista di Renata Maderna

«Una società che non investa energie economiche e umane nella scuola, nella formazione e nell’innovazione finisce per subordinare l’uomo al lavoro e al denaro». Diceva così, un anno fa, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, all’apertura del Laboratorio nazionale sul tema dell’educazione e della scuola, da cui è scaturito il percorso sfociato sabato 10 maggio nel grande incontro di Roma “La Chiesa per la scuola”. La persona giusta, dunque, cui chiederne il significato e l’urgenza.

Perché c’era bisogno di una festa sulla scuola? E perché la Chiesa se n’è fatta promotrice in prima persona?

«È tempo di rimettere al centro le cose che contano. Tra queste la scuola merita un’attenzione speciale, perché se non si investe su di essa difficilmente un Paese riprende a crescere. Una società che non destina energie economiche e, ancor prima, risorse personali per la scuola, cioè per la formazione e l’innovazione, finisce per perdere il treno della ripresa. La strada di un’autentica trasformazione, infatti, non è mai solo legata alle strutture esterne, ma sempre alla qualità culturale delle persone. La Chiesa, dal canto suo, ha storicamente sempre coniugato insieme evangelizzazione e promozione umana, ritenendo che la scuola sia decisiva per dare a tutti la possibilità di una crescita integrale. Per questo si è pensato di mobilitare concretamente quelli che ogni mattina vanno a scuola, cioè alunni e docenti, ma anche famiglie, per una festa che metta l’accento non tanto sui problemi quanto sulle potenzialità di questa straordinaria avventura educativa».

Come si inserisce questo appuntamento nel decennio dedicato all’educazione?

«Si inserisce alla perfezione perché oggi la crisi della scuola è solo il riflesso condizionato di una crisi più diffusa che sarebbe la cosiddetta “fine dell’educazione”. Di fatto, il contesto culturale segnato dal relativismo dei valori
e dall’individualismo dei riferimenti sembra annullare in partenza qualsiasi possibilità di educare. L’educazione pare un’operazione impossibile e, per di più, priva di fondamento perché ciascuno sarebbe un autodidatta, cioè libero di formarsi autonomamente e, soprattutto, fuori da qualsiasi processo relazionale. Invece educare, ancor prima che trasmettere nozioni, è vivere un’esperienza di “uscita da sé stessi”, attraverso il confronto con adulti significativi e credibili. Penso che una generazione che abdica al compito di offrire una chiara lettura della realtà, rinuncia di fatto a educare e abbandona alla solitudine i più giovani che, anche senza saperlo esprimere, chiedono di essere accompagnati e di avere davanti a sé esempi autorevoli e convincenti».

Lei ha parlato più di una volta dell’emergenza educativa. Di che cosa si tratta?

«L’emergenza educativa appartiene in realtà a ogni generazione che è chiamata a trasmettere ragioni di vita. Quando si rinuncia a farlo si produce un indebolimento del tessuto sociale, che è lasciato al libero gioco degli interessi economici, e si finisce per generare individui isolati e manipolabili. Così si perde l’orientamento e si rischia un ripiegamento su sé stessi. Non deve stupirci poi se i giovani sono “sdraiati”, quando prima sono stati derubati di qualsiasi slancio spirituale e di qualsiasi meta ideale. Bisogna, dunque, tornare a fare scuola perché essa è anzitutto una chiamata, un appello, come quello che si fa ogni mattina in classe. Non si cresce mai da soli o mettendo insieme conoscenze e tecniche, ma stando di fronte a uno “sguardo” che ci fa crescere, che tira fuori la nostra umanità, in un confronto serrato e critico. La scuola, poi, è un incontro che si sviluppa in un viaggio fatto insieme a tanti volti: i compagni di classe, gli insegnanti, ma anche la stessa famiglia. Così diventa possibile riscoprire l’orizzonte più ampio della vita che è fatto di bontà, di bellezza e di verità. Come dice papa Francesco: “Il
bene che appare come bello porta con sé la ragione per cui deve essere compiuto”».

Nel sondaggio sul nostro sito abbiamo chiesto se gli insegnanti sono preparati a formare i giovani. Più d’uno appare demotivato. Secondo lei insegnare è diventato più difficile?

«Sarei tentato di rispondere istintivamente in senso affermativo. Oggi è più duro confrontarsi con generazioni come quelle dei nativi digitali, che mostrano sensibilità e abitudini molto diverse rispetto anche solo ai ragazzi di qualche decennio fa. E, tuttavia, credo che, al di sotto di queste differenze ambientali, anche i ragazzi di oggi – come quelli di sempre – sono “inquieti”. Questo, però, nonm è un problema, ma una possibilità. Non bisogna sterilizzare e, peggio ancora, normalizzare questa inquietudine, che è il riflesso del desiderio umano che quando si è più giovani si manifesta con insolita effervescenza. Al contrario, bisogna educare il desiderio che si contrappone alla necessità e aprirlo al bene che è sempre un “di più”, a cui bisogna allenarsi con disciplina e intelligenza. Per questo il docente deve saper leggere dentro l’inquietudine dell’alunno e aprirlo alle sfide della libertà umana che si misura con la bellezza della vita. Vedere aprirsi una persona alla vita è esigente, ma anche molto coinvolgente. Lo dico anch’io per esperienza. La fatica di un insegnante alla lunga è ampiamente ripagata,
perché i cuori dei ragazzi sono aperti a chi li sa stimolare con serietà, nonostante le apparenze».

Quali sono oggi, secondo lei, i problemi e le maggiori urgenze della scuola italiana?

«I problemi sono sostanzialmente tre. Il primo è culturale: bisogna dedicarsi a scolpire l’anima dei giovani e non limitarsi a fornire un’informazione tecnica e quasi neutra, perché l’educazione non si produce a freddo. Il secondo problema è economico: i soldi spesi per la cultura sono i meglio investiti e non temono svalutazione perché la crescita delle persone favorisce lo sviluppo di una comunità. Il terzo e ultimo problema è organizzativo: bisogna passare da una visione statalista della scuola a una concezione più sociale della stessa, dove tutta la comunità acquista consapevolezza del suo essere soggetto educante e si impegna a trasmettere l’immenso patrimonio della tradizione all’interno di un nuovo contesto e di nuovi linguaggi».

Secondo lei le famiglie partecipano abbastanza alla vita della scuola?

«La concezione statalista ha privilegiato un’interlocuzione ridotta con le famiglie, che dovevano garantire l’accesso alla scuola, salvo poi stare fuori dalla porta. Oggi il rischio è quello di “famiglie sindacalizzate” che prendono le difese del figlio anche di fronte a evidenti insufficienze. Occorre favorire un coinvolgimento effettivo che, dopo la stagione dei decreti delegati, è sembrato naufragare in corrispondenza con l’affievolirsi della voglia di partecipazione pubblica. E inventare forme nuove, in cui alla famiglia sia restituita la sua possibilità di esserci ma in raccordo e non contro i docenti. Uniti insieme per il bene dei figli/alunni».

Di recente ci sono state polemiche su alcuni progetti educativi che, con lo scopo di combattere i razzismi, in realtà volevano diffondere la cosiddetta cultura di gender, sottraendo in qualche modo la scelta educativa alle famiglie. Qual è il suo giudizio?

«Ho già detto che quando si scambia la scuola per campi di rieducazione si fa un pessimo servizio alla cultura e alla crescita delle persone. Nello specifico l’iniziativa, peraltro messa in sordina dallo stesso ministero dell’Istruzione, è stato un colpo di mano che ha preteso di introdurre nella scuola una visione della famiglia e della sessualità senza tenere in alcun conto la sensibilità e l’orientamento delle famiglie italiane. Si è tradotto un testo proveniente da altri contesti e lo si è imposto a tutti senza aver messo nessuno al corrente di questa iniziativa. Quanto al merito, l’ideologia del gender, che vorrebbe ridurre le differenze sessuali a semplici pregiudizi culturali – quasi che papà e mamma siano termini in sé indifferenti – è una singolare pretesa del pensiero moderno che non rispetta la realtà dei fatti e che rischia di essere l’ennesimo tributo pagato all’ideologia del momento. In questo caso, l’ideologia che prevale è la dittatura dell’indifferenza in nome… del rispetto delle differenze. Che strano paradosso!».

Scuola statale e scuola paritaria: un’osservazione che si sente fare spesso nel parlar comune è che i problemi della prima si potrebbero risolvere evitando di sostenere la seconda. Qual è la sua risposta al proposito?

«In realtà, la contrapposizione tra scuola statale e scuola paritaria esiste solo nella testa di alcune menti “ottocentesche”, ancora presenti, ahimè, nel nostro Paese. Già dal 2000, in realtà, il Parlamento italiano si è espresso a favore del principio costituzionale della libertà di educazione, che riconosce la scuola come un “bene pubblico”, cioè destinato a tutti, ma la cui gestione non è appannaggio esclusivo dello Stato. Può essere esercitata anche da altre istanze sociali e culturali. Lo Stato garantisce il livello e i programmi ma, in virtù del principio di sussidiarietà, auspica che anche altri soggetti promuovano il bene comune della scuola. Chi continua a rappresentare “una guerra tra poveri”, dove la scuola statale si fronteggia con quella paritaria, dimentica un elementare dato di fatto. Se chiudessero di colpo tutte le scuole paritariein Italia, si produrrebbe una crisi del sistema e un danno economico. Anche perché mediamente un alunno della scuola statale costa circa 6/7 mila euro, mentre lo stesso alunno se frequenta la scuola paritaria costa 7/800 euro. Una volta si diceva che “contro i fatti non tengono
altri argomenti”. Ma tant’è! Saremo un Paese in linea con gli standard europei quando sapremo riconoscere legittimità concreta a tutte le scuole, purché svolgano un servizio pubblico».
Renata Maderna

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