“Vorrei che le scuole potessero scegliere docenti e Ata, ascoltando il punto di vista di studenti, famiglie e personale. Valutiamo anche i dirigenti”. [INTERVISTA] a Ludovico Arte
«Preside, siamo venuti a dirle che il nostro professore di matematica ci piace molto. È bravissimo. Sappiamo che è un supplente. Possiamo riaverlo il prossimo anno?». «Ragazzi, mi spiace, io non ho nessun potere nella scelta degli insegnanti. Devo rispettare le graduatorie. Speriamo che tocchi a lui quando faremo le convocazioni. In quel caso, lo riassegnerò alla vostra classe». Negli stessi giorni arrivano alcuni insegnanti. «Quest’anno al nostro piano abbiamo avuto un custode scortese e maleducato. Si potrebbe non riaverlo a settembre?». La risposta non cambia. «Si tratta di una persona con carattere difficile. In Italia vige un sistema di reclutamento automatico, per titoli e anzianità. Se, scorrendo la graduatoria, si arriva alla stessa persona dell’anno prima, docente o Ata che sia, la supplenza va a lui. Anche se tutti si sono trovati male».
Storie che si ripetono regolarmente a fine anno scolastico e che Ludovico Arte, dirigente scolastico dell’ITT Marco Polo di Firenze – istituto tecnico per il turismo, il più antico della Toscana, e da un po’ di tempo anche liceo linguistico – ha voluto riannodare e condensare in alcune riflessioni affidate alla propria pagina Facebook.
«C’è stato un tempo – precisa Arte – in cui l’egualitarismo aveva un fondamento per riequilibrare una società profondamente ingiusta, che non riconosceva i diritti dei lavoratori. Il mondo nel frattempo è cambiato. Le ingiustizie ci sono ancora, ma non si possono più applicare principi che avevano un senso negli anni Sessanta. Oggi la difesa dei diritti delle persone va correlata a un principio di responsabilità. Qualcuno lo chiama merito, parola che personalmente non amo molto. Preferisco dire che ognuno deve rispondere di quello che fa. Presidi, docenti, personale Ata. Tutti dobbiamo essere valutati. Per tutti la possibilità di essere confermati o no nel proprio incarico deve essere collegata a come abbiamo lavorato. È un appello a politica e sindacati, che hanno il dovere di cambiare ottica. Gli approcci burocratici automatici non sono più accettabili. Interrompiamo la follia nella quale ci troviamo, che tratta allo stesso modo chi lavora bene e chi lavora male, pregiudicando gravemente la qualità del servizio che offriamo. Se vi interessa davvero il bene dei ragazzi, date alle scuole maggiore libertà e autonomia. Consentiteci di selezionare e valutare il personale, decidendo insieme come farlo. Lasciateci confermare gli insegnanti e gli Ata con i quali tutti si sono trovati bene e di non richiamare quelli che hanno fatto male. Fidatevi delle scuole. Per una volta. E forse questo aiuterà anche noi a fidarci di voi».
Preside Ludovico Arte, lei tocca una materia tanto spinosa quanto irrisolta.
«E’ una questione che tocca il tema del reclutamento e della selezione del personale. Anche con la Buona scuola erano nate delle problematiche e delle contraddizioni con la storia della chiamata diretta. Da noi, come in altre scuole, succede tutti gli anni che studenti e famiglie chiedano la conferma per l’anno successivo di insegnanti non di ruolo con i quali gli studenti si siano trovati particolarmente bene nell’anno che sta per concludersi. Oppure, situazione inversa, che siano cambiati quei docenti con i quali gli studenti e le studentesse si siano trovati male, perché si tratta magari di persone che non hanno le caratteristiche umane e professionali. Lo dicono gli studenti: al prof non importa nulla di noi oppure lui si impegna ma noi non capiano quello che spiega. E poi ci sono insegnanti straordinari, appassionati che danno l’anima alla scuola. E tutti prendono lo stesso stipendio e forse non è giusto. Questo apre il tema della valutazione dei docenti e del personale Ata e aggiungo subito che il tema riguarda anche noi dirigenti scolastici».
Non è certo roba facile da gestire
«Alcune volte c’è unanimità, in certi casi cioè tutti parlano bene oppure male di una persona. Ma nelle vie di mezzo non si riesce a capire come fare. Alcuni ritengono che i ragazzi esprimano solo il proprio punto di vista ma il tema esiste. E io sono in imbarazzo a spiegare ogni volta ai rappresentanti degli studenti e alle famiglie le procedure burocratiche secondo le quali l’anno successivo, scorrendo le graduatorie di docenti e Ata, non ho nessun potere per confermare i docenti bravi o viceversa per non confermare i docenti che non sono stati all’altezza del compito. Non posso che dire ai ragazzi: non ho nessun potere».
Le graduatorie rispondono però a precise esigenze di legalità
«Le graduarorie hanno certamente un senso sul piano della legalità perché evitano eventuali arbitri. E’ un sistema che garantisce. Però, se un tempo tutto questo aveva un senso, oggi non ce l’ha più, occorre introdurre un elemento di responsabilità. So che è una cosa che nella politica, nel sindacato, nella scuola, molti non condividono, ma questa macchina burocratica non è più accetabile. Se interviene un elemento di valutazione si temono gli arbitri dei dirigenti e quindi per paura di un arbitrio si lascia un sistema che non funziona? La strada dovrebbe essere un’altra: lasciare alle scuole l’autonomia di scegliere e introdurre la responsabilità nella scelta e la motivazione di quest’ultima. Aggiungo che in alcuni casi sarebbe addirittura facile».
Perché?
«Perché, come dicevo prima, in alcuni casi c’è unanimità di consensi o dissensi verso alcuni insegnanti. La mia idea sarebbe questa: se vogliamo migliorare la qualità della scuola dobbiamo dare alla scuola maggiore autonomia almeno in alcuni aspetti in cui la scuola può decidere se confermare o no un docente che ha visto lavorare a scuola. La cosa più semplice sarebbe partire dai supplenti. Per gli insegnanti di ruolo occorrerebbe incidere sull’anno di prova rendendo l’esame più rigoroso di quanto spesso non lo sia».
Il sistema però, e lei lo ammette, dovrebbe valere per tutti, anche per i dirigenti
«Tutti dovremmo entrare in un gioco di valutazioni, anche io. Altrimenti il gioco non funziona. Tutti devono accettare di essere valutati. Servono maggiore autonomia e libertà dei dirigenti e maggiore responsabilità per le scelte fatte e di come va la scuola. Come dirigente devo essere il primo a essere valutato. Nella mia scuola abbiamo condotto anche quest’anno i questionari di valutazione e per la prima volta i ragazzi e le ragazze hanno valutato gli insegnanti. Per un atto di trasparenza ho pubblicato i risultati che riguardano me come dirigente, mentre quelli sui singoli insegnanti – che sono stati lasciati liberi di somministrare o meno i questionari – non sono stati pubblicati, per un atto di delicatezza. Tuttavia il singolo docente potrebbe usarli per autovalutarsi e per migliorarsi. Molti docenti hanno riconosciuto con interesse alcune osservazioni arrivate dalle famiglie e dagli studenti. Peraltro, non è vero che gli studenti dicono tutto bene o tutto male di un docente, sanno distinguere a seconda della questione posta».
In questa ipotetica procedura, sarebbe il dirigente scolastico a decidere la conferma o meno di un docente o di un Ata?
«La procedura dovrebbe prevedere secondo me che la scelta finale spetti al dirigente dopo che lui abbia raccolto il punto di vista dei vari soggetti: quello dei ragazzi, quello delle famiglie, quello dei colleghi con cui ha lavorato. La scelta finale spetterebbe al dirigente o a un comitato di valutazione. E ovviamente, se tutti parlassero bene di quel lavoratore, io come dirigente dovrei motivare il motivo dell’eventuale mancata riconferma del docente. Raccogliere i pareri significa vincolare la scelta del dirigente, che in questo modo non può quindi essere arbitraraia, essendo condizionata dai pareri espressi da tutta la comunità scolastica».
Ma come fare nelle – imbarazzanti – vie di mezzo?
«Se io raccolgo pareri positivi su un supplente, potrei chiamarlo in via automatica, saltando le graduatorie, e viceversa: se ci sono giudizi unanimenente negativi su un docente o su un Ata io posso non chiamarlo. Poi le vie di mezzo si valutano. Si potrebbe stabilire che in certi casi si vada invece sulle graduatorie. Questa sarebbe una scelta da condurre in autonomia nell’interesse dei ragazzi: quando c’è un parere unanime molto forte della comunità scolastica – positivo o negativo che sia, nei confronti di un docente o di un Ata – è giusto che la scuola possa derogare al vincolo del rispetto della graduatoria, motivando».
Ma nella pratica che cosa dicono i ragazzi quando vanno in presidenza a lamentarsi del docente?
«Non è che io alla fine dell’anno abbia in ufficio la fila di alunni che mi vogliono parlare di insegnanti bravi o cattivi, vengono solo per casi particolari. Poi ci sono vie di mezzo, per le quali capisco che si possa rispettare la graduatoria, cioè quando non ci sono le motivazioni forti, in un senso o nell’altro. Però piange il cuore quando gli studenti e le studentesse vengono da me a chiedere di poter avere anche l’anno successivo il loro bravo insegnante di lettere o di un’altra materia e io non posso garantire alcunché. Si tratta di aprire una discussione nella quale le scuole diventano davvero autonome nella ricerca del personale cercando di individuare delle regole che trovino un punto di equilibrio tra il rispetto dei diritti dei lavoratori e il diritto all’apprendimento dei ragazzi. Poiché qui si scontrano due diritti e francamente il più delle volte prevale il diritto dei lavoratori sui diritti degli studenti. Peraltro si rischia di trattare allo stesso modo tutti gli insegnanti, riconsocendo a tutti indistintamene i 12 punti da spendere nelle graduatorie. Forse occorrerebbe trovare dei sistemi per dare meno punti oppure, meglio ancora, più punti a chi lavora meglio. Bisogna ragionare per incentivi e premialità invece che per punizioni. Io darei più punti a chi lavora nelle scuole difficili, nelle periferie, nei professionali, negli istituti che hanno tanti ragazzi con disabilità. Occorre riconoscere di più a chi lavora con maggiore bravura. Qualcuno propone la carriera dei professori, alla fine cerchiamo di trovare dei meccanismi per valutare le persone nel loro interesse e nell’interesse dei ragazzi».
Quali potrebbero essere le caratteristiche ideali per un docente, un Ata, un dirigente scolastico?
«In tutte le scuole del Regno ci sono docenti amati dai ragazzi – e che anche nei nostri questionari hanno giudizi positivissimi su tutti i fronti – e insegnanti che sono criticati per le lezioni, per il modo di rapportarsi, perché hanno difficoltà a valutare. Detta in un altro modo: ci sono insegnanti che hanno la passione per il loro lavoro e insegnanti che sono finiti a scuola ma non era quello che volevano, per mille ragioni. Vede, questo è un lavoro che puoi fare solo se hai la passione per i ragazzi e per l’educazione. Ma purtroppo ci sono in tutte le scuole degli insegnanti che lavorano con i bambini ma che non sopportano i bambini o che lavorano con gli adolescenti e che non sopportano gli adolescenti. Sono nervosi al pensiero. Lo stesso vale per tanti dirigenti scolastici, che vanno a scuola e non sopportano gli insegnanti o gli studenti. Ma i ragazzi sono così, hanno storie difficili, gli insegnanti bravi si vedono in questi casi e con questi casi difficili. Se tu perdi la pazienza o c’è qualcuno che cerca di creare un clima da caserma non funziona perché non ci sono i ragazzi che stanno zitti e buoni, come dicono i Maneskin, occorre trovare un’altra modalità. Questo è un lavoro, sia quello degli insegnanti sia quello dei presidi, che si può fare solo se si ha passione per quello che si fa. Altrimenti salta tutto. Gli insegnanti possono fare educazione con i ragazzi se hanno piacere di stare con loro e hanno a cuore il loro destino. Ugualmente, un buon preside si vede dal fatto che entra a scuola volentieri e perché sta volentieri con i suoi insegnanti e con i suoi studenti. Una cosa che dovrebbe essere normale e non ci sarebbe nemmeno bisogno di sottolinearla, ma che qualche volta non succede e così si vede gente stressata e nervosa dal primo momento in cui mette piede a scuola, insegnanti o presidi che siano. Si vede anche da come si rivolgono, i presidi agli insegnanti o al personale ATA, e gli insegnanti agli studenti».
Tante volte sono i professori a dire che ad essere sbagliati per una certa scuola sono invece proprio gli studenti
«E’ facile rispondere che sia il ragazzo sbagliato e non invece l’insegnante ad essere sbagliato per quella scuola. E’ troppo facile riempirli di insufficienze e dire che è colpa loro. Ho una frase che mi è rimasta in testa: insegnare vuol dire fare apprendere. E’ un faro che tengo a mente sempre. Insegnare significa fare apprendere, e nel momento in cui i ragazzi non apprendono io sto fallendo, non posso dire che sono i ragazzi ad essere sbagliati. I ragazzi sono come sono. Sono io docente che devo trovare il modo giusto. Se in una classe di 25 alunni ho 20 insufficienze nella mia materia sono io ad avere fallito, io in questi casi non sono sato un buon insegnante, non posso dire che sono loro a non essere stati bravi studenti. Può capitare che un ragazzo abbia fatto una scelta sbagliata e allora può succedere che in un’altra scuola vada meglio. Ma questo lo può dire un insegnante che ha fatto tutti i tentativi possibili. E va dimostrato. Ho visto ragazzi e ragazze che hanno cambiato scuola e che hanno poi avuto successo. Ma ho visto anche ragazzi e ragazze che hanno avuto successo semplicemente cambiando l’insegnante. Non sono i ragazzi a doversi adattare al docente, sono i docenti a dover trovare il modo di appassionare gli alunni. Al Marco Polo per esempio stiamo mettendo in campo una scuola che ha la maggiore superficie coperta di murales, abbiamo lavorato sugli ambienti, convinti che questo impatta sul clima e sullo spirito e che aiuti i ragazzi e anche i docenti a lavorare meglio. E’ uno dei modi con cui cerchiamo di prenderci cura dei ragazzi. In questi anni del Covid abbiamo avuto nella nostra scuola 18 psicologi e anche prima ci sono sempre stati tanti psicologi e anche esperti di alimentazione, perché ci prendiamo cura della persona e non solo dello studente. Sono modi con cui si risponde ai bisogni dei ragazzi nel loro complesso. Se un mio studente ha tutti 8 e poi fa uso di sostanze, io come educatore ho fallito. Se un ragazo sta male o non impara non posso solo dirgli va’ da un’altra parte. Devo semmai trovare delle risposte, io, per aiutarlo a stare bene e a imparare serenamente. Stiamo cercando di combattere l’idea che la scuola sia sofferenza e sacrificio. La scuola è anche sacrificio, ma vorremmo che si venisse a scuola volentieri e non come se si andasse in miniera. Nei prossimi giorni apriremo la scuola per un festival per adolescenti che è un modo per mandare un segnale: vi diamo un aiuto a fare esperienze dopo dieci anni di pandemia in cui i ragazzi hanno perso tante occasioni, la scuola diventa un’occasione dove voi potete coltivare i vostri interessi. Si coltiva così la passione dei docenti e dei ragazzi».
Certo serve una mentalità molto aperta, a partire da chi dirige una scuola
«Guardi, ricordo quando da docente si bussava dai presidi e loro rispondevano sempre di no. Da qui la frustrazione di non poter fare le cose che avevi in testa perché non c’erano soldi o per motivi burocratici. Da quando sono dirigente scolastico ho fatto due mosse. La prima è stata quella di dire sempre di sì: ai progetti, alle idee».
Che cosa comporta per una comunità che si dirige dire sempre di sì?
«Dire sì significa liberare la scuola, perché c’è molta gente repressa e depressa, tra docenti e ragazzi: la scuola è un luogo dove in genere si cura molto il cognitivo e dove si trascura l’emozione. I miei docenti nei giorni scorsi hanno trovato un giorno di pausa nella fatica degli scrutini e si sono fatti un spritz durante un laboratorio di autobiografia e questo racconta molto della loro voglia fare delle cose».
Qual è l’altra cosa che ha fatto?
«Non dare appuntamenti. Gli appuntamenti li prendo se uno mi chiama, ma chiunque voglia parlare con me bussa ed entra: è questo un piccolo segno per dire che io non sono una persona di potere, io sono sempre a disposizione per discutere, so che in molte scuole a volte occorre scrivere e talvolta neppure ti rispondono. A me questo è servito molto per capire quali fossero le preoccupazioni, i bisogni, le richieste della mia comunità scolastica e cercare di rispondere a quello».
Ci presenti la sua scuola
«Il Marco Polo nasce come istituto tecnico per il turismo, il più antico della Toscana, ora è anche liceo linguistico. Noi coltiviamo oltre alle lingue curriculari, anche il cinese, il russo, l’arabo, il giapponese, mandiamo, in tempi non di Covid, mille studenti all’estero, e quando dico estero dico anche Australia, Cina, Asia, America. Abbiamo una radio, una scuola di italiano per migranti adulti che vengono al pomeriggio, restano gli insegnanti come volontari e per i ragazzi che partecipano riconosciamo le ore impegnate come ore di Pcto. Le famiglie sono contente e da qualche anno facciamo i sorteggi. Dieci anni fa questa scuola stava per essere accorpata, era semivuota. Ora con tante innovazioni, decise da tutta la scuola, ci sono tanti iscritti e dobbiamo fare i sorteggi. È una cosa stupida ma è anche la meno antidemocratica rispetto a tanti altri criteri come la vicinanza alla scuola e al giudizio della scuola media. La vicinanza? Chi va meglio alla media? No, anche gli altri alunni hanno il diritto di scegliere la scuola che vogliono, e allora è giusto che decida la sorte. Togliamo dal sorteggio solo i ragazzi che hanno disabilità».