Veri spazi di socializzazione compressi dal mondo virtuale, “fondamentale il guardarsi negli occhi”. Allarme isolamento, “come avviare la cultura del benessere mentale”. INTERVISTA a Stefano Vicari

Il benessere mentale è un punto che, nel nostro paese, rappresenta ancora un argomento di nicchia, ma il cui sviluppo non può più essere rimandato. È necessario creare una cultura collettiva su questo tema che coinvolga tutti gli ambiti della nostra società, ma come fare per raggiungere questo obiettivo? Ne abbiamo parlato con il Professor Stefano Vicari, Professore Ordinario di Neuropsichiatria Infantile presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Professor Vicari, in Italia manca una cultura del benessere mentale relegata solo ad alcuni ambiti specifici compreso quello dei familiari interessati. Come si può costruire nel nostro paese una cultura ampia del benessere mentale?
Devo dire che è una bella domanda perché generalmente siamo tutti molti consapevoli di quanto sia importante tenersi in forma fisicamente, fare attenzione all’alimentazione, quindi a quello che mangiamo e beviamo, agli stili di vita che possono favorire una salute fisica importante, e forse siamo meno consapevoli che in realtà della salute, nella sua interezza, fa anche parte la salute mentale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dice che non c’è salute senza salute mentale e quindi il nostro benessere psicologico, in altre parole. A volte i genitori non sono così sensibili e attenti a questa necessità, non per colpa loro ma perché un po’ manca una cultura su questo tema. La salute mentale, così come la salute fisica, si costruisce nel corso dello sviluppo e poi si mantiene nel corso della vita. In particolare ci sono degli aspetti che riguardano la gestione delle nostre emozioni, ad esempio come viviamo insuccessi o anche successi, come gestiamo la rabbia o l’aggressività, ma anche nei comportamenti, ad esempio come gestiamo le relazioni, o come entriamo in contatto con gli altri. Tutto questo fa parte ed entra a pieno titolo nel nostro concetto di salute mentale. Poi, e immagino che la sua domanda si riferisse in particolare a questo, il problema diventa enorme quando invece c’è un disturbo mentale all’interno di una famiglia. Un bambino che ha un autismo, o un adolescente che si taglia e che ha tentato il suicidio, o un adulto schizzofrenico, ad esempio, per le famiglie sono prove spesso difficili, ma che poi, come diceva lei, queste famiglie si trovano a doverle vivere da sole. Non c’è, o c’è molto poco, una rete sul territorio che sia in grado di accogliere queste necessità. Facciamo un esempio, se un bambino o un signore di 40 anni ha un attacco di appendicite, verosimilmente a nessuno di noi verrebbe in mente che questo problema non si possa risolvere, il bambino o l’adulto troverà nel primo pronto soccorso una risposta adeguata; se invece un ragazzo di 14 anni tenta il suicidio, su molte parti del territorio nazionale non trova nessuna risposta ed è una situazione drammatica. Vale la pena ricordare che il suicidio è la seconda causa di morte tra i 10 e 25 anni. Quindi se un ragazzino tenta il suicidio a Potenza, piuttosto che a Cosenza o a Crotone, a Teramo, a Campobasso oppure a Perugia o in Valle d’Aosta, non ci sono in queste regioni posti letto in grado di poter accogliere queste necessità, non a caso ho nominato queste città. Quindi questi ragazzini non hanno una risposta concreta, manca la possibilità di un’assistenza alla salute e alla sua tutela, in pratica non viene garantito un diritto costituzionale. È un dato davvero drammatico e si è accentuato notevolmente con la recente pandemia.
Nell’ultimo periodo registriamo un aumento di episodi di violenza che coinvolgono in modo particolare la scuola. È solo una sensazione oppure i nostri adolescenti vivono con maggiore difficoltà il periodo post-pandemico?
Su questo non c’è dubbio e non solo per gli episodi di violenza. In realtà gli episodi di violenza hanno caratterizzato un po’ tutte le nostre generazioni. Io ero diciottenne alla fine degli anni ’70, quindi ero adolescente nel periodo degli anni ‘70, e ricordo che davanti la mia scuola ci si sparava per motivi ideologici, c’erano forti conflitti fra l’estrema destra e l’estrema sinistra, ci sono stati gli anni di piombo, questo per dire che la mia generazione da adolescente forse ne ha combinate di peggio rispetto a quello che vediamo oggi. Però non c’è dubbio che a livello di sofferenza mentale oggi l’impatto è molto più forte che 30, 40 o 20 anni fa. Le percentuali che stanno male mentalmente oggi sono molto più alte che in passato, forse tra le più alte che abbiamo mai conosciuto e che la pandemia ha amplificato notevolmente. Diventa un po’ sensazionalismo dire “mai come oggi”, però non è del tutto corretto, perché c’è da dire che nei periodi di forte crisi, di forte stress sociale, come le guerre, le pandemie, le carestie e le grandi crisi economiche, le malattie mentali proliferano moltissimo e l’aver vissuto il periodo di pandemia già da solo giustifica l’andamento. Ma oggi c’è un dato in più, che forse in passato avevamo meno, ed è la grande diffusione di strumenti che creano dipendenza: da una parte le sostanze, e oggi i bambini cominciano a farsi di cannabinoidi già dalla prima media, intorno agli 11 anni, per poi passare a sostanze più pesanti, questo lo dico non per banalizzare ma perché è una realtà che vediamo tutti i giorni; dall’altra abbiamo la dipendenza da cellulare, che le epoche precedenti non hanno conosciuto. Le statistiche ci dicono che i bambini e i ragazzi passano circa sei ore al giorno utilizzando il cellulare. Qualcuno potrebbe dire che in passato c’erano ragazzi che leggevano diverse ore al giorno, c’erano delle dipendenze, però c’è da dire che intanto non erano così diffuse, poi le attività che noi svolgiamo al cellulare, quindi anche quelle che facciamo noi adulti, è di tipo diverso in quanto c’è una continua gratificazione, c’è una condotta che porta alle manifestazioni celebrali che sono le stesse che noi troviamo neo soggetti dipendenti da sostanza. Mi spiego meglio, la dipendenza si misura con fenomeni come l’abituazione, ovvero la necessità di utilizzare lo strumento per un tempo maggiore, o l’uso di sempre più sostanza, per avere lo stesso livello di godimento, oppure l’astinenza, ovvero nel momento in cui non riesco ad accedere allo strumento o alla sostanza si verificano delle crisi di agitazione e di violenza, con la conseguente ricerca compulsiva della sostanza o dello strumento per poter placare lo stato di agitazione. Ciò premesso, ci sono studi che dimostrano come persone che hanno sviluppato una dipendenza vera e propria nell’uso di strumenti elettronici attivino le stesse aree cerebrali delle persone che hanno sviluppato dipendenza da sostanza. Valorizzare le dipendenze da sostanza o da strumenti elettronici è importanti perché le dipendenze amplificano il disturbo mentale, è come benzina sul fuoco, ha un effetto moltiplicatore per quei soggetti che hanno già dei fattori di rischio o dei livelli di sofferenza iniziali. Quindi davvero i ragazzi oggi vivono un momento difficile, la pandemia più le dipendenze stanno impattando fortemente. Per definire quanto è impattante dobbiamo tenere conto degli studi su grandi numeri i quali ci dicono che circa il 25/30% degli adolescenti, L’UNICEF dice anche il 40%, soffre di ansia o depressione, quindi presenta già dei segni di malattia psichiatrica.
Fenomeni di isolamento e ritiro sociale, come quello dell’Hikikomori o della sindrome della capanna, sono sempre più diffusi. Come affrontare questi disagi?
Anche questo è vero, sono sicuramente più frequenti che in passato ed in costante aumento. Con Maria Pontillo, una psicologa con cui lavoro da diverso tempo, abbiamo pubblicato tra l’altro un libro che abbiamo voluto intitolare “Non solo Hikikomori, adolescenti che non escono di casa”, questo per evidenziare un spetto che riguarda la semplificazione che si fa sul fenomeno del ritiro sociale che riguarda i ragazzi che scelgono di non incontrare gli altri. A volte non è una scelta, ma è una manifestazione di un disturbo mentale, l’Hikikomori si riferisce ad una libera scelta del ragazzo a non volere più uscire di casa, forse i moderni eremiti, ma alla base del ritiro sociale spesso c’è un disturbo mentale che può essere una forma d’ansia, una fobia sociale oppure può essere una depressione, o in alcuni casi un esordio psicotico. Per questo bisogna fare attenzione e non considerarli come fenomeni di libera scelta, ma spesso possono essere le spie di un disturbo mentale che si va strutturando. Cosa fare in questi casi? È importante non aspettare, non perdere tempo, bisogna chiedere aiuto, quando le prime manifestazioni si presentano, a uno psichiatrico o a un neuropsicologo perché queste manifestazioni possono essere, appunto, le prime manifestazioni di un disturbo mentale più complesso.
L’isolamento può essere anche una sorta di allarme sociale? L’uso dei dispositivi e l’isolamento possono rappresentare anche una difficoltà dei nostri giovani nel socializzare e nell’affrontare le criticità che la socializzazione comporta?
Può esserci anche questo, però dobbiamo ricordare che un adolescente è il risultato di un’evoluzione, di una crescita, l’adolescente è il risultato del bambino che è stato, quindi come genitori abbiamo la responsabilità di educare i nostri ragazzi a gestire le proprie emozioni e le relazioni in modo positivo. È indubbio che oggi, soprattutto per i ragazzi che vivono nelle grandi città, un po’ meno per quelli che vivono in un piccolo centro, le occasioni di socializzazione si sono ridotte fortemente. In passato, nelle nostre interviste, ho già fatto riferimento alla mia esperienza da ragazzo negli scout, che può essere discutibile, criticabile e non sto qui a proporla come modello, ma era un’esperienza di forte socializzazione, così come ho vissuto l’oratorio fin da piccolissimo, oggi è più difficile che i ragazzi si facciano coinvolgere in attività di questo tipo. Anche lo sport, in fondo, che è sempre stato un’occasione di forte socializzazione, oggi è molto spinto sugli aspetti di competizione, di risultato, di performance, quindi quello che poteva essere un aspetto piacevole è diventato anche quello fonte di forte stress. Oggi la socialità prevalente che si sperimenta è con l’uso dei social, l’uso virtuale della relazione, e questo si fa spesso chiusi dentro la propria stanza e ancora una volta manca l’incontro con l’altro; ma l’incontro con l’altro, in presenza, è fondamentale per costruire il nostro sé, cioè chi siamo. Noi abbiamo capito e capiamo ogni giorno se siamo simpatici, antipatici, intelligenti, divertenti, sciocchi, opportuni, inopportuni, piacevoli soltanto specchiandoci nell’occhio dell’altro. In fondo anche in questa nostra conversazione io capisco se sto esagerando, se sto andando troppo lungo semplicemente guardando lei negli occhi. Se noi togliamo questa parte ai ragazzi è un problema e durante la pandemia le scuole chiuse non hanno consentito questo tipo di esercizio. Poi possiamo aggiungere un altro elemento, un adolescente è nella relazione con il coetaneo che trova la possibilità di parlare, un quattordicenne è difficile che si relazioni con i genitori parlando dei problemi più importanti che lo attraversano, si parla molto più con il compagno, con l’amico del cuore. Le prime sfide e i primi tentativi di diventare adulto, questa transizione da bambino ad adulto che è l’adolescenza, la viviamo molto nel rapporto con i nostri coetanei, se questo manca vuol dire che manca un pezzo importante della storia di crescita di un ragazzo.
Un’ultima domanda. Svolgere un’attività fisica regolare può aiutare anche la sfera psicologica aumentando il benessere fisico e l’autostima. Quanto è importante questo aspetto e sono effettivamente reali i benefici sulla sfera psichica?
Assolutamente sì, c’è una forte e stretta relazione tra benessere fisico e benessere mentale. Se vogliamo vedere la storia dell’altra faccia della medaglia, chi ha un handicap fisico paradossalmente ha un maggior rischio di un disturbo mentale. A tutti noi, quando siamo particolarmente tesi o agitati, ci viene da dire “faccio due passi così mi scarico”, l’attività fisica spesso è proprio verbalizzata come un’attività che mi scarica, che mi toglie lo stress, sono esperienze quotidiane. Questo è un aspetto particolarmente importante e anche questi aspetti durante la pandemia si sono praticamente annullati. Sono state chiuse le palestre e addirittura i bambini ed i ragazzi non potevano uscire di casa a meno che non avessero un cane da portare a passeggio. Questo ha avuto un impatto sulla salute mentale. Fare un’attività fisica è importante e su questo abbiamo anche dei dati di tipo biologico, abbiamo gli equivalenti sulle immagini sul cervello che ci restituiscono un benessere più diffuso quando c’è un’attività fisica, non necessariamente competitiva, anche un’attività moderata ci aiuta a combattere lo stress. Per i ragazzi lo sport, che sia uno sport piacevole dove la competizione passi in secondo piano, non che non sia importante ma che venga vissuta nel modo meno aggressivo possibile, è un elemento di forte benessere anche per la salute mentale.