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Valutazione, “docenti, siete giudici o allenatori?”. INTERVISTA a Dario Ianes su educazione emozionale, approccio EBE e valutazione formativa

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Educazione emozionale, da dove iniziare? Ne abbiamo parlato con il Professor Dario Ianes, già docente ordinario di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’Università di Bolzano, Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento per il quale cura alcune collane, autore di vari articoli e libri e direttore della rivista «DIDA».

Professor Ianes, per una corretta educazione emozionale possiamo dire che il punto di partenza è l’ascolto. Ma cosa vuol dire ascoltare dal punto di vista emozionale?

Il tema è sempre più di attualità, a questo punto dobbiamo chiederci cosa voglia dire questo percorso di educazione emozionale. Innanzitutto vuol dire affrontare questo tema, molto spesso nella scuola ciò non avviene e non è affrontato un po’ per disagio degli stessi insegnanti e un po’ perché alcune famiglie pensano che magari attraverso l’educazione emozionale si faccia qualcosa anche di legato all’affettività, piuttosto che alla sessualità, per cui c’è un po’ di tensione in alcune realtà familiari rispetto a questo. Ma stando sul piano dell’educazione alle emozioni, ad una corretta gestione delle emozioni, nella sua domanda lei chiedeva se si parte dall’ascolto, sicuramente si parte dall’ascolto di sé prima di tutto, nel senso che noi dobbiamo, come primo passo, imparare ad ascoltare le nostre emozioni, capirle, decodificarle, darle un nome. Un grande conoscitore di questi aspetti, Alberto Pellai, insiste molto su questo, su riuscire ad avere le parole per nominare gli stati affettivi che viviamo, che siano emozioni di base molto profonde come la paura, la rabbia e così via, oppure stati d’animo più leggeri, chiamiamoli così, come la gelosia, l’ansia piuttosto che l’invida dell’altro. Ecco che prima di tutto dobbiamo riuscire a dare un nome a questi stati, a conoscerle e riconoscerle in noi e negli altri, in questo l’ascolto è fondamentale, ascoltare sé stesso e ascoltare l’altro, in termini di empatia, e poi imparare ad esprimere le emozioni, cioè farle uscire e non tenerle dentro, comunicarle, condividerle e negoziarle con le altre persone. In questa maniera le regoliamo anche, perché un’emozione che non è condivisa, che non è espressa, si gonfia e diventa troppo forte per essere gestita e poi ci porta magari a dei comportamenti, come abbiamo visto purtroppo dalla cronaca, molto drammatici. Per cui la conoscenza, l’espressione e la regolazione sono gli elementi fondamentali di un’educazione emozionale.

Lei ha detto che per imparare a riconoscere le emozioni bisogna iniziare ad ascoltare sé stessi. Per traslare nella scuola l’educazione emozionale è necessario partire dalla formazione dei docenti, ma come si struttura una formazione che non può essere semplificata con la sola ora di educazione emozionale, perché le emozioni sono presenti in ogni ambito della nostra vita, quindi anche durante le altre ore di lezione, e come far capire che non si tratta di un’ora in più ma di un’educazione costante?

Non è, appunto, un’ora in più, ma è un ingrediente in più, nel senso che da quando arrivi a scuola e fino a quando ne esci in tutte le varie attività, ovvero quelle formali di apprendimento, quelle informali, le pause eccetera, è lì che il vissuto emozionale è particolarmente ricco e si tinge di tanti colori come la gioia o l’ansia, piuttosto che ad elementi di tipo depressivo, che arrivano se fallisco o vado male in alcune cose. È lì che tutti i docenti hanno una grande possibilità di stare dentro a queste onde emotive, stare dentro cercando di ascoltarle, coglierle, vederle, aiutare a dar nomi, a capire cosa c’è dietro una certa emozione, cosa c’è dietro un certo vissuto. Se un ragazzino arriva triste la mattina a scuola o si intristisce troppo per un brutto voto o un fallimento ad un’interrogazione o ad una verifica, ecco che bisogna saper ascoltare ed essere confidenti, essere tranquilli e stare dentro i vissuti emotivi delle persone, dargli un nome, aiutarli a sviluppare, questo è un grandissimo investimento per la vita e per il futuro di queste persone. Alle studentesse di scienze della formazione primaria, e a quei rari studenti che c’erano, io ricordavo sempre che sono in grado, come insegnanti dell’infanzia e della primaria, di riuscire a costruire delle competenze socio-emotive nei maschi che consentiranno loro di non aggredire, di non avere una relazione emotivamente sregolata con le loro compagne, quando magari c’è una crisi relazionale che porti anche alla rottura del rapporto, senza scatenare nel maschio una serie di reazioni emozionali talmente esagerate che portano poi addirittura a comportamenti assolutamente criminali. Questo è il compito della scuola, ma non tanto in termini come si diceva prima formali, cioè un’ora in cui arriva lo psicologo di turno e spiega come fare, ma proprio lo psicologo ci può spiegare a tutti noi docenti cosa fare, che tipo di meccanismi stanno dentro le emozioni, come disattivarli, come renderli noti alle bambine ed ai bambini, riuscire a dare a noi docenti gli strumenti per presidiare questa cosa e farlo durante un po’ tutte le attività, spalmato come un ingrediente che metti all’interno di tutti i piatti che si cucinano nella giornata.

Per creare una formazione efficace sarebbe opportuno un approccio EBE, ovvero basato sulle evidenze scientifiche. Lei ha affermato che servirebbe serietà scientifica ed empatia democratica. Ci dice come si dovrebbe procedere?

Ormai in ambito psicologico e pedagogico ci sono tantissimi studi che dimostrano come alcuni approcci siano fondati sulle evidenze, cioè abbiano dei dati a supporto che dicano che fare un intervento di educazione socio-emotiva fatto in quel determinato modo funziona, bisogna però avere del tempo adeguato, così come modalità e materiali, per realizzarlo. Di letteratura ce n’è molta per cui non si può più dire che non si sa come fare. Per citare un metodo su tutti penso all’educazione razionale socio-emotiva, un metodo che porta ad imparare che le tue emozioni vengono sì dall’evento che stai vivendo, ma anche dall’interpretazione che tu dai dell’evento, cioè che tipo di schema mentale, che tipo di aspettativa hai, che tipo di pensieri più o meno razionali fai su questo evento, per cui questo tipo di approccio ha ormai dimostrato nel tempo la sua validità e la sua efficacia e questo può diventare un punto di riferimento per la formazione, accanto ad altri, ovviamente, perché non è l’unico. Il docente impara questa metodologia e poi la mette progressivamente all’interno delle situazioni che vive con i propri studenti. Naturalmente il docente non può essere da solo, perché ha bisogno intanto di confrontarsi con i colleghi, c’è bisogno di un supervisore che sia la persona che accompagna i docenti perché non è un percorso facile, è un percorso che mette a confronto i docenti anche con le proprie emozioni, con i propri vissuti, e questo non è un fatto banale, è psicologicamente più complesso rispetto all’insegnare le nozioni della propria materia. Rispetto all’empatia democratica, come citava nella domanda, da un lato c’è un sapere freddo, chiamiamolo così, basato su dei dati su riscontri obiettivi ed efficaci di alcuni approcci, dall’altro lato però bisogna avere un altro atteggiamento, più caldo, se vogliamo, più umano, più empatico, io lo chiamo un’empatia di capacità di mettersi un po’ nei panni delle ragazze e dei ragazzi a scuola, ascoltarli, mettersi democraticamente sullo stesso piano, su un piano di ascolto e di condivisione di alcune difficoltà. Tante volte sentiamo i ragazzi che lamentano il fatto di non essere ascoltati e che non vale la pena di far niente di partecipativo a scuola perché non serve a niente, e questa sfiducia nell’ascolto empatico, nella partecipazione democratica penso che sia assolutamente negativa, per cui da un lato la psicologia ci dice che per i saperi certi approcci funzionano più di altri, dall’altro lato questo mettersi in gioco, in ascolto, in condivisione con chi vive direttamente la sofferenza, o degli stati emotivi che li possono portare a un grande disagio e sappiamo che dopo la pandemia questi disagi sono assolutamente aumentati.

Nella scuola la valutazione è un aspetto importante, e attualmente è al centro di un forte dibattito. Ma come possiamo estendere la valutazione dagli ambiti cognitivi a quelli emotivi?

Per fare una valutazione formativa emotiva, certamente non possiamo fare l’interrogazione sulle emozioni, o il tema o la verifica. A me piace molto un approccio, che invito tutti a conoscere e a seguire, che è il teatro dell’oppresso. Nel teatro dell’oppresso metti in gioco le ragazze ed i ragazzi con delle simulazioni, delle scene, dei percorsi di eventi di vita quotidiana e li coinvolgi proponendo loro di agire dentro la situazione e agire in situazioni che chiaramente sono stressanti, ad esempio nel caso in cui un compagno ti attacca o ti ruba qualcosa, oppure il professore si comporta in maniera ingiusta e allora devi cercare di andare a rimediare. Ti metti in gioco direttamente in questo role plane, in questo teatro, in cui giochi delle parti e lì dentro, che è un luogo protetto perché è una simulazione, possiamo esercitare e giocare tutta una serie di possibilità, dare dei suggerimenti, delle valutazioni, dei feedback, dei modelli e mettere in gioco direttamente questi vissuti e questi comportamenti socio-emotivi. Si ha una splendida possibilità di esercitarsi perché su queste componenti, su queste competenze, è importante esercitarci, nessuno nasce imparato, bisogna continuare ad esercitarle per tutta la vita e tutti noi possiamo essere in difficoltà in alcune situazioni. Questo modo di drammatizzarlo, nel senso di metterlo in scena, e dentro questa simulazione si possono dare dei feedback, dare delle valutazioni sottolineando gli approcci positivi ed efficaci, insomma è lì che si forma la competenza, proprio sul campo.

Un’ultima domanda, restiamo in ambito valutativo. Come si può passare da una valutazione vista come “sentenza” ad una valutazione che sia motivante, che stimoli a migliorarsi?

Devo dire che proprio il gioco tra sentenza e valutazione formativa è interessante. Spesso ai docenti chiedo se sono giudici o allenatori, perché il giudice ti aspetta al varco per la sentenza e ti giudica appunto, mentre il coach, l’allenatore si affianca a te, ti aiuta, ti spinge a migliorarti. Il coach vuole il tuo successo, perché il tuo successo di atleta e di squadra è anche il suo successo. Lo studente sente che l’allenatore è dalla sua parte, non è la parte avversa che cerca in qualche maniera di fregare e attraverso questa postura, di essere dalla parte dello studente, potremo superato tutto il tema dei voti, di quei drammi che accompagnano poi al discorso della valutazione sommativa, rigida, meccanica, numerica. Entreremo in una logica nella quale il docente è dalla parte dello studente e vuole che dia il massimo, perché se lo studente dà il massimo anche l’insegnante ha successo, per cui ci si mette dalla sua parte e si usa la valutazione formativa, cioè ti accompagno, ti suggerisco delle cose, ti creo una competenza. Ad esempio il mister di calcio nei confronti dei propri calciatori li stimola e li valuta, li sprona, li fa anche soffrire, però i calciatori ne hanno una massima considerazione, a volte hanno anche una massima devozione nei suoi confronti, perché sanno che non è il loro giudice, ma è il loro allenatore e sta dalla loro parte. È chiaro che questo tipo di valutazione formativa, che accompagna, è estremamente più complessa, più onerosa e più faticosa. La cosa più semplice è spiegare e verificare, poco importa poi se gli studenti non ti seguono, questo però non è un qualcosa che funziona. C’è tanta ricerca pedagogica, ma anche tanta esperienza, che dice che questo tipo di sistema della valutazione sommativa ovviamente non è quello che produce i risultati migliori, se noi vogliamo i risultati miglio per le nostre studentesse e i nostri studenti dobbiamo rimboccarci le maniche e avere un atteggiamento da coach, da allenatore piuttosto che da giudice.

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