“Valutare senza Invalsi si può. Muri a secco e colate di cemento” metafora del lavoro che si svolge in classe

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“Valutare senza Invalsi si può. Muri a secco e colate di cemento” di Renata Puleo, Anicia, Roma 2019 – Collana ‘Apprendere e progettare’

“Nella scuola, ci sono anche tanti posatori di muri a secco. I sistemi di valutazione non colgono il loro lavoro perché cercano di verificare solo se e quanto, i mattoni escano lisci e delle stesse misure”.

Questa citazione di Pietro Lucisano (ordinario di Pedagogia sperimentale alla Sapienza di Roma), tratta dal libro ‘La scuola disuguale, dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione’ curato da Guido Benvenuto nel 2011, apre le pagine della riflessione di Renata Puleo.

I sistemi di valutazione esterni, nazionali e internazionali, dunque Ocse e Invalsi, agiscono come una livella che, attraverso misure standard e alla ricerca di risultati omogenei, producono “mattoni lisci”, ovvero l’omologazione dei processi formativi.

Il tentativo è quello di misurare quantitativamente gli apprendimenti degli studenti e, di conseguenza, l’efficacia del lavoro che facciamo in classe in termini di qualità e di equità.

Ma cosa sta succedendo realmente nella scuola da quando sono state introdotte queste pratiche di valutazione esterna in maniera così invasiva e cogente?

Siamo sicuri che queste reiterate batterie di test censuari (in seconda e quinta elementare; in terza media; in seconda e all’ultimo anno delle superiori) siano davvero così efficaci nel misurare? E che non producano indesiderabili effetti retroattivi sulla didattica? E, soprattutto, che siano davvero utili e che stiano migliorando la nostra scuola, a livello di sistema e a livello del lavoro del singolo insegnante, della singola preparazione del singolo studente?

E’ con questa “metafora felice” dei muri a secco e delle colate di cemento che Renata Puleo ci introduce nella sua riflessione sulla valutazione, in cui l’autrice ci spiega che si tratta di un modello importato cui la categoria degli educatori si sta quasi interamente, ma colpevolmente, adattando.

Per chi vuole riflettere in modo critico su questi temi, questo è un libro necessario. Perché permette di mettere a fuoco, attraverso la chiara declinazione del punto di vista dell’autrice, supportata da anni di studio e di esperienza sul campo, la dimensione ideologica che costituisce il presupposto dell’intera operazione di valutazione della scuola come dell’università, ma anche di ragionare sugli epifenomeni nei quali siamo immersi, docenti e studenti, senza poterci mai fermare, chiarirci le idee e magari intervenire nel dibattito come protagonisti.

Si tratta di 14 capitoletti densi e brevi, che toccano tutte le questioni implicate nel ragionamento sull’Invalsi, su Ocse, sulla valutazione e sui test standardizzati. Questi i titoli: Valori; Conoscenza; Costituire, istituire; Conflitto di interessi; Capitale umano; Il nostro Invalsi; Essere competente (di Rossella Latempa); Provaci; Lingua e Pisa; Lingua bambina; Lingua adolescente, adulta; Metrica dell’infanzia (di Rossella Latempa);

Ricapitolare e concludere; E per finire davvero … Ma con ulteriori sentieri di approfondimento conclusivi che, insieme a quelli disseminati nel corpo del testo e delle note, aiutano a chiarire i riferimenti di ordine economico e politico che costituiscono “il vero sfondo di ogni dispositivo di cui il libro parla” (p. 127).

Il fulcro del ragionamento di Renata Puleo sta nel concetto di ‘referenziazione’, che lega la valutazione formativa dello studente alla valutazione professionale del lavoratore.

A questo serve, a suo avviso, la torsione della didattica e della pedagogia cui stiamo assistendo nella scuola: “Portare a definizione omogenea i profili professionali conseguiti nel maggior numero di Paesi, formatisi nei percorsi formali e informali” (p. 37).

Per fare questa operazione, agli ordini di un mercato globalizzato che chiede oggi un ‘certo tipo’ di lavoratore, non bastava evidentemente equiparare i titoli di studio. Bisognava uniformare i percorsi, affinché nel maggior numero di Paesi possibile la formazione, scolastica e universitaria, fosse finalizzata a quell’obiettivo: il lavoratore del terzo millennio – flessibile, adattabile, disponibile, dunque fungibile; capitale umano e autoimprenditore di sé. Solo, gettato in pasto a un mercato del lavoro sempre più dematerializzato e decostituzionalizzato – quel lavoratore deve nascere sui banchi di scuola.

Renata Puleo ci descrive chiaramente i passaggi, alle pp. 36 e 37:

“1. la valutazione degli apprendimenti degli studenti è operata attraverso i test
2. i test servono da ancoraggio alla Certificazione di competenze di fine ciclo
3. le competenze hanno come riferimento i framework europei (i documenti sulle key Competences e PISA-OCSE
4. i documenti che fanno da guida ai test e alla compilazione del Rapporto di Autovalutazione (RAV) forniscono l’elenco dei descrittori
5. questi confluiscono nelle definizioni contenute nel Quadro europeo delle Qualifiche Professionali (EQF UE, 2009) oggi tradotto, con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in Quadro Nazionale delle Qualifiche (QNQ)”

Chiarissimo. Ecco dunque come e perché si è affacciato e diffuso nell’ultimo ventennio un sistema di valutazione standard che misura e compara gli apprendimenti conseguiti dagli studenti in Italia, in Arabia Saudita, in Cina, in Turchia, in Azerbaijan ecc. (per citare solo alcuni degli 80 Paesi coinvolti nelle indagini Ocse).

Ma quali apprendimenti si misurano? Conoscenze articolate e complesse? Pensiero critico? Bagaglio culturale? Scienze, arte, storia, filosofia? Niente di tutto questo. E non solo perché non sarebbe possibile, ma perché non è quello che interessa. Il lavoratore globale del terzo millennio non deve possedere una cultura ‘marcata’, idiosincratica, soggettiva. Occorrono competenze basiche e trasversali, concrete capacità di ‘problem solving’: questo è ciò che chiedono le aziende, che all’ultimo posto delle caratteristiche richieste ai lavoratori indicano, non a caso, il ‘sense making’, riservando questa capacità alla piccola élite di chi occupa posizioni apicali.

Il fatto che l’Invalsi (con un progetto sperimentale che coinvolge centinaia di scuole in tutta Italia) si accinga a misurare aspetti della personalità delle creature piccole quali empatia, auto-controllo, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, desta moltissima preoccupazione.

Un’ultima riflessione, a margine del libro. Dal 2018 le prove Invalsi, computer based, sono corrette automaticamente. Ma dal 2018 l’Invalsi, attraverso la correzione automatica computerizzata, formula per gli studenti di terza media, oltre alla tradizionale misurazione quantitativa resa in punteggi riferiti a mediane, anche una valutazione qualitativa, un giudizio, che si esprime in livelli, da 1 a 5.

E certifica quella valutazione, quel giudizio, con un documento che si affianca al diploma: la ‘Certificazione di competenze di fine ciclo’. Non sarebbe il caso di inaugurare, con i docenti e con le famiglie, un confronto pubblico serio, argomentato e intellettualmente onesto su tutto questo?

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