Usare la tastiera semplifica e velocizza, ma ha conseguenze cognitive e sugli apprendimenti: dall’involuzione della manualità fino all’impoverimento lessicale

È sempre più acceso il dibattito tra i sostenitori della scrittura manuale e i sostenitori della scrittura digitale, come se le due modalità fossero distinte e inconciliabili. La questione, però, non può essere liquidata semplicisticamente come una contrapposizione tra insegnanti/educatori tecnoconvinti e tecnoscettici. Nessuno, neppure tra questi ultimi, penserebbe mai di invocare l’abbandono della tastiera.
Piuttosto – è questo il punto – quando è più indicato prevederne l’introduzione per i bambini che non abbiano Bisogni Educativi Speciali o certificazione di Disturbi Specifici di Apprendimento che ne richiedono l’utilizzo? La scrittura a mano, soprattutto in corsivo, è un’abilità motoria fine complessa, difficile da apprendere, che quindi andrebbe esercitata con costanza a partire dai primi anni della scuola primaria. La motricità fine costruisce l’intelligenza almeno quanto il linguaggio verbale. Fare con le mani significa accedere a una conoscenza che è la conoscenza del corpo. Questa ci insegna a sentirci nello spazio, a leggere le nostre sensazioni, a costruire sequenze efficaci, a sperimentare in prima persona cause ed effetti, probabilità e conseguenze…
Esperienze che posso ripetere perché le ho imparate e interiorizzate. Invece oggi i nostri giovani sono tutti verbali, se non addirittura iperverbali, multitasking, ipermentali, ipervisivi ma molto poco tattili, pratici e scarsamente individuati. Hanno accesso all’intero scibile senza averne esperienza diretta e sono spaventati da quello che non possono controllare cognitivamente: cervello e occhi che analizzano schermi, con dita specializzate nello scorrere, ma nessuna richiesta di modulare la forza ed eseguire con precisione; in sostanza, il massimo della stimolazione sensoriale con il minimo dell’esperienza per ottenerla.
E qui torna la questione della scrittura. Sono numerosi gli studi di neuroimmagini relativi all’attivazione cerebrale che si verifica durante il processo di scrittura (cfr. Costa et al., Emergent Neuroimaging Findings for Written Expression in Children: A Scoping Review. Brain Sci. 2022, 12(3), 406; https://doi.org/10.3390/brainsci12030406). In estrema sintesi, quello che emerge è che chi scrive bene, cioè in maniera automatizzata, attiva aree discrete in modo più efficiente. I cattivi scrittori attivano in maniera meno efficiente tali aree ricorrendo come compenso a 13 aree vicarianti meno specializzate sparse nella corteccia.
Quindi chi acquisisce una scrittura corsiva fluida e automatizzata già dai primi anni della scuola primaria (laddove non esistano deficit specifici) ha a disposizione più energie cognitive da dedicare ad altri compiti di scrittura e lettura di livello superiore come l’organizzazione delle idee, la costruzione di un testo elaborato, la correttezza ortografica o la lettura simultanea. Certo, i processi complessi richiedono un esercizio costante e prolungato: se ci si ferma a un livello semplice, si acquisirà un livello base; se si prosegue con l’esercizio, si raggiungeranno processi intellettuali sempre più sofisticati.
La costanza, però, mal si concilia con l’iperstimolazione cognitiva a cui sono esposte le nuove generazioni. Quando siamo sottoposti a una sovrabbondanza di stimoli, tendiamo a semplificare, a elaborare le informazioni il più rapidamente possibile, a risparmiare tempo, a discapito del pensiero critico, riflessivo. Ecco, scrivere a mano va in senso contrario: richiede concentrazione, attenzione alle scelte lessicali, ritorno sul testo per eliminare incongruenze, riflettere, scegliere e discriminare. In questo, raggiungere il corsivo permette un’automatizzazione maggiore dello stampato perché la scorrevolezza del filo grafico asseconda i processi di pensiero; quando si scrive in stampato, invece, si è costretti a interruzioni tra una lettera e l’altra. In alcune ricerche condotte in Italia con bambini della scuola primaria (Vertecchi, 2016) è emerso che all’affinamento dei processi di pensiero corrispondeva il passaggio spontaneo, da parte dei bambini, dallo stampato al corsivo.
Con la scrittura digitale, tutto viene in grandissima parte demandato allo strumento: la motricità fine è ridotta a pochi gesti elementari, la memoria della forma delle lettere e dei gesti necessari per eseguirla non è più necessaria e quindi non viene esercitata, le scelte lessicali vengono facilitate con il ricorso a suggeritori “automatici”, che per quanto sofisticati, andranno sempre a individuare le parole più comuni, ossia quelle che ricorrendo con maggiore frequenza nel linguaggio quotidiano, saranno più generiche e meno specifiche. L’attenzione alle scelte lessicali in combinazione con l’affinamento dei processi di pensiero porta certamente all’elaborazione di frasi scritte che siano meglio articolate e facilmente comprensibili, ma anche più dense di significato, più mirate, più circoscritte; al contrario, quando il linguaggio e il pensiero si atrofizzano, si procede verso l’omologazione, l’eliminazione di sfumature e differenze importanti. Se alimentato, il linguaggio umano è lo strumento perfetto per la creazione di pensieri originali e senza limiti e questo fornisce le basi per l’avanzamento dell’intelligenza collettiva.
In altri termini, se è vero che attraverso la tastiera il processo di scrittura si semplifica e si velocizza, è anche vero che semplificazione e velocizzazione si ripercuotono sugli apprendimenti. La neuroscienziata americana Maryanne Wolf (2018) arriva a ipotizzare che anche l’uso quotidiano delle abbreviazioni che i ragazzi utilizzano sui social media possa influenzare in modo negativo il loro stile di scrittura, rendendolo elementare, primario. Si crea perciò un circolo vizioso in cui ci si abitua a leggere nel modo in cui si scrive e viceversa, in una sorta di spirale che tende all’essenzialità della forma e dei contenuti, a discapito della ricchezza e della pluralità di forme e concetti.
Nelle generazioni meno giovani il fenomeno è più controllato, probabilmente perché l’utilizzo della tastiera è subentrato più tardi, quando il processo di acquisizione della letto-scrittura era già avvenuto con metodi che favorivano l’esercizio ripetuto e costante, che si velocizzava parallelamente alla graduale interiorizzazione dei meccanismi. Ci si chiede allora se intervenendo con metodo già nei primi anni della scuola primaria sia possibile formare nei bambini piattaforme interiori costruite con cura, prima che si rivolgano in maniera automatica alla loro intelligenza minima affidando a strumenti tecnologici azioni e operazioni più impegnative e complete. Sia chiaro: le piattaforme di conoscenza interne ed esterne sono entrambe importanti, ma quelle interne si dovrebbero formare in maniera sufficientemente solida prima che subentri la dipendenza automatica da quelle esterne.
Riferimenti bibliografici
Costa et al. (2022). Emergent Neuroimaging Findings for Written Expression in Children: A Scoping Review. Brain Sci. 2022, 12(3), 406; https://doi.org/10.3390/brainsci12030406.
Vertecchi, B. (a cura di) (2016), I bambini e la scrittura, Milano: FrancoAngeli.
Wolf, M. (2018), Lettore, vieni a casa, Milano: Vita e pensiero.
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Cinzia Angelini
Professore ordinario di Pedagogia sperimentale presso l’Università Roma Tre.
Carlo Di Brina
Neuropsichiatra Infantile, PhD in Neuroscienze sperimentali e cliniche.
Dirigente medico presso Policlinico Umberto I° Roma, coordinatore Gruppo Disgrafia Sapienza.