“Un padre e una madre che ascoltano Mozart non finiranno uccisi dal proprio figlio”, le parole di Crepet fanno discutere: “Quando manca il futuro, resta solo un presente drammatico”

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Paolo Crepet non usa mezzi termini nel commentare l’ultimo caso di violenza familiare.

In un’intervista al Corriere del Trentino spiega: “Se i giovani si comportano come nel ‘600, abbiamo fallito, afferma. La sua analisi si allarga a una crisi sistemica: “Viviamo di ‘io speriamo che me la cavo’, senza prospettive. Quando manca il futuro, resta solo un presente drammatico“.

Educazione e società: il circolo vizioso della violenza

Crepet sottolinea come l’assenza di modelli educativi porti a reazioni primitive. “Se a 19 anni l’unico strumento è un coltello, significa che non abbiamo insegnato nulla”. Rifiuta ogni semplificazione etnica o geografica: “Giulia Cecchettin era veneta come il suo assassino. Il problema è culturale“. La violenza domestica, poi, diventa grammatica quotidiana: “In famiglie dove si ascolta Mozart, questi episodi non accadono”.

La solitudine di una civiltà senza speranza

Lo psichiatra dipinge un’Italia senza fiducia nel domani: “Siamo alla sindrome dell’invasione barbarica. Accumuliamo risorse non per un esercito, ma perché non crediamo più nel futuro”. La soluzione? “Ricostruire, come un ortopedico che sistema un osso. Altrimenti, resteremo prigionieri della paura“.

Scuola e social media: due fronti cruciali nella lotta al disagio giovanile

La scuola dovrebbe essere il primo presidio contro il disagio giovanile, eppure spesso si trova impreparata di fronte a fenomeni sempre più complessi. Mentre aumentano i casi di autolesionismo, bullismo e ritiro sociale, molti istituti navigano a vista, privi di strumenti adeguati. Il problema non è solo la mancanza di psicologi scolastici – ancora assenti in troppe realtà – ma anche una formazione docenti spesso superficiale su temi come la gestione dei conflitti e l’ascolto attivo.

Il vero nodo, però, è culturale: ancora oggi, in troppi casi, il benessere psicologico degli studenti viene considerato un optional. Eppure, dati alla mano, scuole con progetti di prevenzione registrano un calo del 30% degli episodi di violenza.

Social media: l’amplificatore distorto della violenza

Se la scuola fatica a educare, i social media insegnano fin troppo bene – e non sempre la lezione è quella giusta. L’esposizione quotidiana a contenuti violenti, dai videogiochi iperrealistici ai video shock che circolano su TikTok, rischia di normalizzare comportamenti aggressivi. Alcuni studi dimostrano che:

  • L’overdose di immagini violente riduce l’empatia, soprattutto tra gli adolescenti.
  • L’effetto emulazione è reale: dopo casi eclatanti di cronaca nera, si registra un picco di gesti simili.
  • Gli algoritmi premiano l’odio: post polarizzanti e divisivi ottengono più engagement, creando un circolo vizioso.

Le piattaforme, dal canto loro, fanno ancora troppo poco. La moderazione dei contenuti è spesso lenta e inefficace, mentre i sistemi di parental control vengono elusi con troppa facilità. Servirebbero:

  • Regole più severe per rimuovere video che incitano alla violenza.
  • Collaborazione con le scuole per promuovere digital literacy, insegnando ai ragazzi a riconoscere e respingere messaggi tossici.
  • Utilizzo di algoritmi “pro-sociali”, che favoriscano contenuti educativi invece di quelli sensazionalistici.

Il paradosso è evidente: mentre la scuola arranca, i social media educano in modo selvaggio, senza filtri. Servirebbe un patto tra istituzioni, educatori e big tech per ribaltare questa dinamica. Altrimenti, il rischio è che la prossima generazione impari a risolvere i conflitti non con le parole, ma con i like e i coltelli.

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