Un minuto di rumore per Giulia Cecchettin

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Non volevano una lezione frontale e non lo è stata. E per salutare gli ospiti hanno fatto un minuto di rumore per sottolineare e per dare un senso ulteriore all’importanza dell’incontro. I 1300 studenti del Liceo Classico Muratori-San Carlo di Modena hanno accolto Gino Cecchettin e il suo dolore in un’assemblea d’Istituto inusuale, partecipata, toccante.

Il padre della povera Giulia, uccisa dal suo ex compagno, è riuscito a mettersi subito in connessione con le corde di tante ragazze e di tanti ragazzi che hanno ascoltato con profonda ammirazione e solidarietà l’intervento di un padre che è riuscito fin da subito a trasformare un dolore indicibile in uno strumento di promozione culturale contro i femminicidi, contro il sessismo, contro la violenza sulle donne. Contro la violenza anche verbale, quella scritta, quella cantata. Già, perché poche ore dopo aver salutato gli studenti modenese Giulio Cecchettin è riuscito a veicolare un messaggio potente all’interno del pianeta discografico lanciando un accorato e duro appello a parolieri, autori e cantanti, affinché eliminino dai loro testi i contenuti sessisti che caratterizzano invece una produzione crescente di brani di successo.

Ma torniamo all’assemblea d’Istituto. I ragazzi e le ragazze del Muratori-San Carlo, diretto dalla preside Giovanna Morini, sono rimasti molto toccati dall’incontro poiché – hanno detto alcune ragazze – “lui ci ha fatto capire quanto sia importante parlare della violenza sulle donne che per molto tempo è stata ignorata e che viene ignorata spesso anche oggi”. Ma che cosa può fare la scuola? Quale contributo sono chiamati ad apportare gli istituti, le aule, le classi, gli studenti nella lotta al male sotteso a tante, troppe relazioni tossiche che spesso si rivelano letali? Sono sufficienti i tanti progetti di educazione all’affettività che affollato i piani dell’offerta formativa di quasi tutte le scuole italiane? Si può fare di più visto che mentre l’opinione pubblica s’interroga sull’ennesimo fatto tragico di giornata, in quella stessa giornata si stanno magari creando le condizioni per il successivo fatto di cronaca, sempre uguale nella dinamica e che puntualmente arriva? Certo che sì. Ed è questo l’obiettivo, il più importante tra quelli che si propone la Fondazione Giulia Cecchettin, il cui spirito si riassume nella frase che introduce la home page del sito del gruppo: “La perdita di Giulia ha scosso le fondamenta della mia esistenza e mi ha spinto a un impegno incrollabile contro la violenza di genere”. Molto significativa a questo proposito è la testimonianza dalla psicologa del liceo emiliano che evidenzia come un numero crescente di alunne si rivolge al suo sportello accompagnate al primo incontro da una propria amica o compagna, segno di un crescente senso di solidarietà che lega le ragazze, e sempre più spesso ragazze e ragazzi, di fronte alla percezione di uno stato di pericolo, presunto o reale che sia. Uno stato di pericolo che dovrebbe essere agli antipodi rispetto all’amore e alla protezione che in genere caratterizzano un rapporto di coppia

Un minuto di rumore, si diceva, e infine un lungo applauso. Per introdurre, presentare e abbracciare coralmente un padre che da tempo attraversa l’Italia per incontrare giovani e adulti, per dare in questo modo il proprio contributo affinché si capisca che l’amore non può mai essere possesso: “quando si ama davvero, ogni sentimento negativo viene escluso: rabbia, invidia, gelosia. La gelosia non è amore, è l’antitesi dell’amore”. E che ogni no rappresenta, per il solo fatto di essere esplicitato, un must da rispettare, un corollario non secondario a ogni rapporto tra un uomo e una donna. “Io lo faccio – racconterà più tardi ai microfoni di Tv Qui – per ricordare Giulia e per cercare di sradicare quella che è la violenza di genere che assieme a tutti gli stereotipi e a tutti i comportamenti che ci sono ancora e che sono ben radicati nella nostra società e per cercare di far capire che c’è un modo migliore di vivere. Forse è il dolore che mi veicola l’energia perché dal dolore non possiamo fuggire e quando impariamo che attraversando il dolore forse si arriva dall’altra parte con qualche elemento in più, ecco allora lì possiamo anche metterlo a frutto”

Sullo sfondo c’è la potenza delle pagine del libro scritto per Rizzoli da Gino – con Marco Franzoso – e intitolato Cara Giulia: “Penso al tuo futuro, e alla donna che saresti diventata. Penso a quante soddisfazioni avresti ricevuto. Sicuramente nel lavoro di illustratrice, libri per bambini, vignette, sono certo che avresti trovato la tua strada”. Questo ha scritto Gino pensando alla sua Giulia persa per sempre e ritrovata tra le righe vergate con un inchiostro che non è mai stato un inchiostro di vendetta. “Noi adulti abbiamo la possibilità di dare una mano alle nuove generazioni, e aiutarle a costruire il terreno su cui portare a termine il cambiamento”, si legge ancora nel libro. “Noi possiamo guardarci dentro, possiamo andare indietro e valutare ciò che i nostri padri ci hanno trasmesso e l’educazione che abbiamo ricevuto”. Una riflessione che viene ripresa da Gino davanti agli studenti quando racconta di avere avuto un padre che che si ispirava ai valori tipici del patriarcato, ripromettendosi di non riproporre con i propri figli lo stesso cliché. “Ma ciò che di meglio possiamo fare – sono le parole di un padre già chiamato dal destino a sopportare anche il dolore per la perdita della moglie, la mamma di Giulia – è diventare un solido sostegno per questi ragazzi, e passare loro il testimone affinché portino a compimento il percorso”. Questo libro, spiega Gino, “è iniziato con una porta rimasta aperta. Ci tengo che finisca su una porta che si apre. Perché questa porta si apre sul futuro e sulla speranza. Il futuro siete voi giovani. La speranza è quella che vi dobbiamo infondere noi adulti affinché abbiate la voglia e la forza di costruire un mondo migliore”.

Ma la via verso un mondo migliore non può non attraversare gli aspetti culturali della nostra società, che hanno a che fare con il mondo della comunicazione, con quello della letteratura, con quello dei social. Con quello della musica. Ed è per questo che colpiscono molto le parole del papà di Giulia Cecchettin che – come detto – poche ore dopo avere incontrato gli studenti del liceo Muratori-San Carlo di Modena ha fatto passare un messaggio molto potente nel mondo dello spettacolo e in quello dei suoi fruitori. Lo ha fatto, come riferisce l’Agenzia Dire, in occasione dell’Aperyshow Charity Event 2025, un festival musicale a scopo benefico che si svolge ad Arsego, in provincia di Padova, che quest’anno sostiene anche la Fondazione Giulia Cecchettin. Gino si è rivolto direttamente agli artisti con una lettera che intreccia memoria personale e responsabilità pubblica: “Abbiamo bisogno della tua arte” e di artisti “che sappiano anche cambiare spartito” perché chi scrive, canta e produce musica ha una responsabilità e può scegliere di metterla al servizio di una cultura che promuova il rispetto, l’uguaglianza e la libertà. E per evitare che alimenti il contrario: mancanza di rispetto, stereotipi, atteggiamenti malati, violenti o tossici: “Le parole che scegli, i messaggi che trasmetti, arrivano a migliaia di giovani, e lasciano tracce. Ti invito a considerare la possibilità di lasciare da parte quei contenuti che – consapevolmente o no – possono alimentare una cultura della sopraffazione”. La musica può cambiare le cose: può raccontare, unire, educare, ma anche rafforzare stereotipi, normalizzare comportamenti tossici, alimentare una cultura della sopraffazione. La Fondazione ha redatto due vademecum: uno rivolto ai cantanti, l’altro alle case discografiche, con suggerimenti per favorire un linguaggio rispettoso, la parità di genere e l’inclusione nelle produzioni musicali e nei contesti professionali. E dunque, ad esempio, gli artisti evitino “il linguaggio sessista e violento”, non usino “parole che denigrano, sessualizzano o giustificano la violenza di genere”. La musica e le canzoni vadano oltre gli “stereotipi di genere, mostrando donne e uomini come individui complessi, liberi e indipendenti” ed evitino di “romanticizzare la violenza e la gelosia”. Meglio, invece, sostenere “la consapevolezza emotiva. Le emozioni vanno esplorate in modo sano e riflessivo” rinunciando a “incitare a comportamenti tossici o a legami distruttivi”. Infine, recita il vademecum agli artisti, “le ingiurie non sono argomenti, denigrare non è arte”. Alle case discografiche, invece, si raccomanda di sostenere la carriera delle artiste, la presenza femminile in tutti i ruoli, dalle musiciste agli altri professionisti offrendo “pari accesso a opportunità e spazi”, ma anche “parità salariale”. Anche chi produce musica e canzoni poi dovrebbe frenare sul nascere sessismo e discriminazione, adottare “zero tolleranza per abusi, molestie e discriminazioni. Le donne devono sentirsi al sicuro in ogni ambiente professionale, sia sul palco sia fuori”. Infine, un ultimo appello: “Incoraggia la diversità e l’inclusione. Celebra tutte le identità di genere e orientamenti sessuali. Crea una scena musicale inclusiva che valorizzi voci diverse e contrasti le narrazioni omogenee e oppressive”. Questi strumenti “rappresentano il punto di partenza di un’azione culturale più ampia”. E ancora: “La musica può essere parte del problema, ma anche della soluzione”. Per questo la Fondazione invita artisti, produttori e professionisti del settore a prendere posizione, a cambiare spartito, come scrive Gino Cecchettin nella sua lettera, e mettere la propria voce al servizio di una cultura del rispetto, della libertà e della dignità”.

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