Umberto Galimberti: “Ho consigliato a una madre di dare il telefono a suo figlio in quarta elementare, perché oggi la socializzazione passa attraverso questi dispositivi”

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Il filosofo Umberto Galimberti, ospite de La Torre di Babele su La7, ha lanciato una riflessione critica sul rapporto tra giovani, media e percezione della realtà.

“I social network e l’informazione tradizionale non ci restituiscono l’esperienza diretta del mondo, ma solo una sua rappresentazione filtrata, che spesso esclude la realtà stessa”, ha affermato.

Secondo Galimberti, i media non si limitano più a raccontare i fatti, ma li costruiscono, influenzando comportamenti e aspettative. “Molti giovani compiono azioni solo per poterle registrare e condividere“, ha sottolineato, evidenziando come la ricerca di visibilità abbia sostituito l’autenticità dell’esperienza.

Smartphone e socializzazione: “Privarsene significa essere esclusi”

Galimberti ha affrontato anche il tema del rapporto tra giovani e tecnologia, sfatando l’idea che gli smartphone siano semplici strumenti tecnici. “Ho consigliato a una madre di dare il telefono a suo figlio in quarta elementare, perché oggi la socializzazione passa attraverso questi dispositivi“, ha spiegato.

“Non averli significa essere esclusi dalla vita sociale, non solo rinunciare a un mezzo. La tecnica governa il mondo, e non possiamo più permetterci di ignorarla”. La sua analisi mette in luce un paradosso: se da un lato i dispositivi digitali avvicinano virtualmente, dall’altro allontanano dall’esperienza reale.

La rappresentazione che cancella la realtà: “Un magma fangoso di informazioni”

“Milioni di persone sono immerse in un flusso costante di contenuti, dove è sempre più difficile distinguere un barlume di verità“, ha osservato Galimberti. “I social network non mostrano il mondo per com’è, ma per come vorremmo che fosse, spesso in modo emotivo e impulsivo”. La distorsione della realtà porta a una comunicazione caotica, dove messaggi superficiali prendono il sopravvento. “I media non si limitano a riportare i fatti, ma li rendono rilevanti solo se vengono trasmessi“, ha concluso.

Gli effetti sulla salute mentale e l’ansia da connessione

Non è la prima volta che Galimberti parla dei cellulari. Durante un evento a Genova, il filosofo ha detto. “Il cellulare ha cambiato il mondo, il computer, l’informatica, ha cambiato il mondo”, ha dichiarato, sottolineando come l’accesso ai dispositivi inizi ormai in età precoce, spesso già a 4-5 anni. Secondo Galimberti, lo smartphone non è più solo un mezzo tecnico, ma un canale di socializzazione imprescindibile: privarne un bambino significa escluderlo dalle dinamiche relazionali contemporanee.

Salute mentale e iperconnessione: il prezzo dell’always-on

L’allarme lanciato da Galimberti sull’ansia da connessione non è un’ipotesi astratta, ma un fenomeno misurabile. Studi recenti dimostrano che la dipendenza da smartphone attiva gli stessi circuiti neurali delle dipendenze comportamentali, con picchi di dopamina legati a notifiche e like. Il paradosso è che strumenti nati per facilitare la comunicazione generano spesso isolamento emotivo: l’attesa ossessiva di una risposta (come nel caso descritto dal filosofo) innesca stati di agitazione che alterano la qualità delle relazioni.

Particolarmente vulnerabili sono gli adolescenti, per i quali l’identità sociale si costruisce sempre più online. La sindrome FOMO (Fear of Missing Out) li spinge a un’iperattività digitale, con conseguenze sul sonno e sulla concentrazione. Non a caso, Paesi come la Francia hanno introdotto il divieto di smartphone nelle scuole medie, mentre l’OMS raccomanda di limitarne l’uso sotto i 12 anni. Tuttavia, il vero nodo non è demonizzare la tecnologia, ma educare a un uso consapevole: tecniche come la “dieta digitale” o l’uso di app monitoraggio (es. Screen Time) possono aiutare a ritrovare equilibri perduti.

Generazioni a confronto: dal telefono fisso alla socialità liquida

L’analisi generazionale proposta da Galimberti rivela un cambiamento antropologico. Prima dell’avvento degli smartphone, la socialità era legata a spazi e tempi definiti: le chiamate da un telefono fisso richiedevano pianificazione, gli incontri si organizzavano giorni prima. Oggi, invece, la comunicazione è liquida e permanente, con chat sempre attive che cancellano i confini tra pubblico e privato.

Il passaggio ha conseguenze paradossali. Da un lato, i giovani hanno reti sociali più ampie (centinaia di contatti online); dall’altro, sperimentano una solitudine strutturale, perché molte interazioni sono superficiali e performative. Mentre i genitori ricordano lunghe conversazioni al telefono di casa, i figli vivono relazioni frammentate in messaggi vocali e storie di Instagram. La sfida è integrare le due dimensioni: valorizzare la comodità del digitale senza perdere la profondità dell’incontro reale. Servirebbero, ad esempio, progetti scolastici che insegnino a negoziare la presenza (online e offline), trasformando la tecnologia da padrona a strumento.

Se iperconnessione e nuove socialità sono irreversibili, la questione è governarne l’impatto. Come suggerisce Galimberti, non si tratta di tornare al passato, ma di ripensare il rapporto tra tecnologia e umanità senza subirla passivamente.

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