Trattenuta 2,5% dallo stipendio, legittima: docenti battuti prima volta in tribunale. Partita ancora aperta

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di Vi.Bra – Per i giudici di Modena le trattenute sul Tfr sono legittime. Docenti battuti per la prima volta in Tribunale. Primo effetto della sentenza della Corte Costituzionale. Per l’avvocatessa Maria Grazia Pinardi si tratta di sentenza “politica”

Le trattenute sul Tfr sono legittime. Docenti battuti in Tribunale. Arrivano i primi effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 213 del 22 novembre 2018 secondo cui la riduzione del 2,5 per cento dello stipendio dei dipendenti pubblici in regime di TFR è legittima. Il Tribunale di Modena nei giorni scorsi ha rigettato un ricorso pilota promosso da alcuni docenti precari e di ruolo che prestano servizio da anni in Emilia. La Consulta a novembre scorso, come avevamo riferito, aveva respinto la questione di legittimità costituzionale della legge 448/1998 sollevata dal Tribunale di Perugia con Ordinanza n. 125 del 21 aprile 2017. E il giudice di Modena si è adeguato alla motivazione della Consulta. L’avvocatessa Maria Grazia Pinardi del Foro di Bologna, che ha patrocinato il ricorso, parla ora di sentenza politica volta a contenere la spesa pubblica

Ma facciamo un passo indietro. A dicembre 2014 il MEF, dopo che la Corte Costituzionale aveva emanato una sentenza di dubbia valenza, pubblicò sulla piattaforma Noipa un comunicato con il quale giudicava la sentenza. 244/2014 della Consulta una sorta di pietra tombale sulle speranze di quanti avevano agito o stavano per agire per la restituzione delle trattenute sul TFR, riguardante i docenti, gli Ata e i lavoratori pubblici a tempo determinato e indeterminato, comunicato che si aggiungeva a un altro con il quale negli anni precedenti dissuadeva i lavoratori dal chiedere la restituzione delle somme. Ma erano stati in tanti a ritenere infondata la presa di posizione dell’amministrazione. Il leader della Gilda, Rino Di Meglio, parlò di “uso improprio della sentenza della Suprema Corte”, sottolineando come la Consulta “non poteva pronunciarsi su tale tematica, né lo potrà in futuro, per un motivo semplicissimo, la trattenuta non è prevista da alcuna legge, ma da una semplice circolare dell’Inpdap (ora Inps)”. D’altra parte, l’Anief osservò che con questa sentenza, tutt’altro che negativa, “si ribadisce quanto già deciso con sentenza n. 223/2012”, mentre si dichiara legittima solo “la trattenuta per i dipendenti rimasti e transitati nuovamente in regime Tfs”. L’Anief invitava tutti a inviare la diffida per bloccare i termini decennali di prescrizione‎ e a ricorrere per recuperare gli arretrati.

Per capire meglio la questione avevamo posto alcuni quesiti in un’intervista all’avvocato Sergio Galleano, del Foro di Milano, uno dei maggiori esperti della materia, che aveva confermato il fatto che la sentenza n. 244/2014 della Corte Costituzionale fosse addirittura positiva per i ricorrenti. “Il trattamento di fine servizio, regolato dal DPR 1032 del 1973, ci aveva spiegato Galleano, prevede la corresponsione di un importo pari all’80 per cento dell’ultima retribuzione percepita dal lavoratore moltiplicata per gli anni di servizio. Il sistema è finanziato, tra l’altro, da un contributo del 9,60 per cento sull’80 per cento della retribuzione lorda a carico dell’Amministrazione di appartenenza, con diritto, della stessa, di rivalersi sul dipendente del 2,50 per cento di tale importo. Il TFR, regolato dall’art. 2120 del codice civile, prevede invece che venga accantonata , al 31 dicembre di ogni anno, una percentuale (13,5 per cento) della retribuzione annua percepita per formare un monte che viene poi parzialmente rivalutato nel corso della vita lavorativa: l’importo del TFR, così calcolato, è a totale carico del datore di lavoro, nella misura del 6.91 per cento della retribuzione. La convenienza del TFS per il lavoratore è evidente: l’importo corrisposto alla fine del rapporto di lavoro è calcolato sull’ultima retribuzione percepita, indipendentemente dalla carriera del lavoratore – in ipotesi assunto al primo livello e diventato dirigente solo nell’ultimo anno di servizio – mentre il TFR è legato, anno per anno, all’evoluzione retributiva del lavoratore. Il primo è dunque sempre maggiore del secondo. In pratica, può verificarsi una differenza di parecchie migliaia di euro, talvolta decine, tra i due trattamenti”.

In effetti i due regimi si discostano molto l’uno dall’altro. E allora perché le amministrazioni hanno continuato a mantenere la trattenuta ai fini del Tfs anche a carico di coloro che sono in regime Tfr, dando vita alla denunciata disparità di trattamento dei dipendenti della PA rispetto ai dipendenti del settore privato? Secondo Galleano,“occorre risalire alla riforma pensionistica del 1995 (legge Dini 335/95) che prevedeva l’istituzione della previdenza complementare, da finanziarsi anche attraverso i risparmi conseguenti all’introduzione del TFR al posto del TFS. L’operazione è stata concretamente attuata nel 1999 con l’accordo quadro del 29 luglio, poi recepito dal DPCM 20.12.1999, dove si prevede l’applicazione del TFR per coloro che optano per la previdenza integrativa – il famoso fondo ‘Sirio’, poi sostanzialmente finito nel nulla per mancanza di adesioni – e, con l’occasione, anche per i lavoratori assunti a partire dal 1° gennaio 2000 e per tutti i precari pubblici. L’accordo prevede, al comma 2, che per coloro che passano al TFR non si applica più la trattenuta del 2,5 per cento ma, al comma 3, con una formulazione volutamente confusa e contorta, dispone che, contemporaneamente, la retribuzione mensile viene ridotta dello stesso importo della trattenuta appena eliminata, giustificando tale sostanziale decurtazione retributiva con lo scopo di assicurare ‘l’invarianza della retribuzione dei dipendenti’. In pratica, con un lungo giro di parole, si è prima tolta e poi reintrodotta la trattenuta in modo da evitare che i dipendenti che passavano al TFR percepissero in busta paga a fine mese una retribuzione mensile maggiore di coloro che rimanevano con il TFS. Si tratta evidentemente di una sciocchezza, poiché se è vero che i lavoratori a cui si applica il regime del TFR si sarebbero ritrovati con una retribuzione mensile maggiorata del 2 per cento – ovvero senza la trattenuta del 2,5 sull’80 per cento della retribuzione – è altrettanto vero che a fine rapporto percepiranno importi notevolmente inferiori a quelli che godono ancora del TFS. Dunque l’accordo quadro, poi recepito nel DCPM, invece di garantire l’invocata ‘uguaglianza di trattamento’, con il meccanismo dell’eliminazione prima e della reintroduzione della trattenuta poi, crea invece una vistosa disparità di trattamento non solo tra dipendenti pubblici e privati ma anche tra gli stessi impiegati statali, poiché la retribuzione complessiva del lavoratore va calcolata cumulando lo stipendio con il trattamento di fine rapporto. Ed è evidente che, a parità di stipendio mensile, vi è chi – col TFS – a fine rapporto percepisce un importo notevolmente superiore ad un altro, col TFR. Del tutto a sorpresa, poi, il nuovo regime veniva esteso, oltre a coloro che optavano per la previdenza integrativa, anche ai dipendenti assunti dal giorno successivo alla data di approvazione del DCPM, ovvero il 1° gennaio 2000. E ciò, si legge al comma 4, sempre per ‘garantire la parità di trattamento dei rapporti di lavoro’. Il comma 9, infine, prevede che lo stesso regime – persistenza della trattenuta e applicazione del regime TFR – vale anche per i lavoratori a tempo determinato”.

Per un approfondimento del tema rimandiamo all’intervista all’avvocato Sergio Gallenano, reperibile al link https://tinyurl.com/yd2uxu3j.

Ma veniamo alla sentenza emiliana, depositata a fine dicembre 2018. Alcuni docenti modenesi, precari e di ruolo, patrocinati dall’avvocatessa Maria Grazia Pinardi del Foro di Bologna, chiedevano, con un ricorso pilota, di accertare l’illegittimità della trattenuta sulla voce stipendiale “opera di previdenza/tfr” operata negli anni precedenti e condannare il Miur resistente alla restituzione delle somme. Poiché erano non in ruolo entro il 31 dicembre 2000 si applicava loro il regime del trattamento di fine rapporto – non più il trattamento di fine servizio – ex art. 2120 c.c., secondo la disciplina prevista dall’art. 2/5 L. n. 335/95, dall’Accordo Quadro nazionale in materia di trattamento di fine rapporto e di previdenza complementare del 29/7/99 e dal successivo DPCM del 20/12/99. I ricorrenti ritenevano fosse illegittima la trattenuta del 2,50% operata dall’Amministrazione resistente ai sensi dell’art. 1/3 e 4, DPCM 20/12/99 perché tale norma doveva ritenersi implicitamente abrogata da quelle successive e che il trattamento di fine rapporto dovesse quindi essere ricalcolato senza tale illegittima decurtazione .

E’ stato ribadito in giudizio che l’art. 2/5 L. n. 335/95 stabilisce che: “Per i lavoratori assunti dal 1° gennaio 1996 alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sono regolati in base a quanto previsto dall’articolo 2120 del codice civile in materia di trattamento di fine rapporto”. Il successivo comma 6 rinvia alla contrattazione collettiva nazionale per la definizione delle “modalità di attuazione di quanto previsto dal comma 5, con riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale di cui al medesimo comma” e prevede che “con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri … si provvede a dettare norme di esecuzione di quanto definito ai sensi del primo periodo del presente comma”. L’attuazione della norma è avvenuta con l’Accordo Quadro nazionale in materia di trattamento di fine rapporto e di previdenza complementare per i dipendenti pubblici del 29/7/99 e con il successivo DPCM 20/12/99, recante norme su “Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti”. Inoltre, il termine originariamente fissato dalla L. n. 335/95 per l’applicazione dell’art. 2120 c.c. anche ai dipendenti pubblici neoassunti è stato individuato dapprima al 30/5/00, data di entrata in vigore del citato decreto, poi differito al 31/12/00 dal DPCM 2/3/01.

Per i dipendenti assunti dopo il 31/12/00 il trattamento di fine rapporto è dunque ora disciplinato dall’art. 2120 c.c., dall’accordo Quadro 29/7/99 e dal DPCM 20/12/99, e ciò a prescindere dall’adesione del dipendente alle forme della previdenza complementare, visto che le norme fanno riferimento anche, ma non solo, a tali forme, e quindi l’Accordo Quadro e il DPCM citati devono ritenersi applicabili non solo ai dipendenti che aderiscono alla previdenza complementare.

Ora, l’art. 2/1 del citato Accordo Quadro dispone che “Ai dipendenti assunti al tempo dalla data di entrata in vigore del DPCM previsto dall’art. 2, commi 6 e 7, della legge n. 335/1995 e richiamato dalla legge n. 448/1998, si applica quanto previsto dall’art. 2120 del codice civile in materia di trattamento di fine rapporto”; il successivo art. 4/3 stabilisce che: “ … le quote di accantonamento annuale saranno determinate applicando l’aliquota stabilita per i dipendenti dei settori privati iscritti all’INPS, pari al 6,91% della retribuzione base di riferimento”. Il successivo art. 6/3 prevede che ai dipendenti assunti successivamente alla data di entrata in vigore del DPCM (in realtà a quelli assunti dopo il 31/12/00) si applica la disciplina dei commi l e 2 dell’art. 2.

E dunque ai lavoratori “non si applica il contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5% della base retributiva previsto dall’art. della legge n. 152/68 e dall’art. 37 del D.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032. La soppressione del contributo non determina effetti sulla retribuzione imponibile ai fini fiscali” (art. 6/1). Inoltre “la retribuzione lorda viene ridotta in misura pari all’ammontare del contributo soppresso e contestualmente viene stabilito un recupero in misura pari alla riduzione attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul TFR, ad ogni fine contrattuale e agli effetti della determinazione della massa salariale per i contratti collettivi”, e ciò per “assicurare l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini previdenziali secondo quanto previsto dall’art. 26, comma 19 della legge n. 448/1998 nei confronti dei lavoratori cui si applica il disposto del comma 1” (art. 6/2). E la stessa disciplina è stata recepita dal terzo comma dell’art. 1/1 DPCM 20/12/99 che, al successivo comma quarto, in esecuzione dell’art. 2/6 L. n. 335/95, stabilisce che “Per garantire la parità di trattamento contrattuale dei rapporti di lavoro, prevista dall’art. 49, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni e integrazioni, ai dipendenti assunti dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto, si applica la disciplina prevista dai commi 2 e 3”.

Il Tribunale di Modena osserva che “le norme del citato DPCM possono ritenersi abrogate, poiché l’art. 1/98 L. n. 228/12 ha abrogato l’art. 12/10 D.L. n. 78/10, convertito in L. n. 122/10, norma che riguardava i lavoratori alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni per i quali il computo dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, non era regolato ex art. 2120 c.c. in materia di trattamento di fine rapporto. L’abrogazione ha quindi riguardato il regime del trattamento di fine servizio dei dipendenti assunti prima del 31/12/00 e di quelli che non hanno optato per il regime del trattamento di fine rapporto, mentre il DPCM del 20/12/99 riguarda invece, come già detto, i dipendenti assunti dall’1/1/01 e quelli che, pur assunti prima, hanno optato per il regime del trattamento di fine rapporto ex art. 2120 c.c. e, quindi, non risulta oggetto della suddetta abrogazione. Allo stesso modo la sentenza della Corte Costituzionale n. 223/12, prosegue il giudice emiliano, non ha riguardato i dipendenti assunti dopo il 31/12/00 e quindi la dichiarazione di incostituzionalità pronunciata non può estendersi alla disciplina che riguarda i ricorrenti ostandovi l’art. 136 Costituzione, che sancisce l’irretroattività delle sentenze della Consulta.

“Se questo è il quadro normativo – sentenzia il Tribunale – deve anzitutto ritenersi che il DPCM 20/12/99, e in particolare il suo art. 1/3 e 4, sia ancora in vigore e si applichi al ricorrente.

Alla luce delle sue norme il regime del trattamento di fine rapporto previsto automaticamente per i dipendenti assunti dopo il 31/12/00 e per quelli che optano per esso abbandonando quello del trattamento di fine servizio non dà luogo all’applicazione della ritenuta del 2,50% oggetto di causa.

Ma la soppressione della ritenuta non determina effetti sulla retribuzione imponibile ai fini fiscali avendo invece lo scopo di sterilizzare la soppressione del contributo che, diversamente, avrebbe fatto aumentare la retribuzione imponibile, proprio perché essa non è più decurtata del contributo del 2,50%”. Per far ciò, prosegue il Tribunale, “è stata stabilita una diminuzione della retribuzione lorda in misura pari al contributo soppresso, proprio per lasciare immutata la retribuzione netta complessiva e quella utile ai fini previdenziali, con un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e del trattamento di fine rapporto, al fine di garantire la parità di trattamento contrattuale dei dipendenti pubblici che sarebbe venuta meno se fosse stata prevista la mera soppressione del contributo”. Se così è, “il montante lordo del trattamento di fine rapporto dei dipendenti assunti dopo il 31/12/ non risulta decurtato del 2,50%, in modo svantaggioso per loro, poiché la norma prevede che la retribuzione lorda sia sì diminuita – in conseguenza della mancata applicazione del contributo – ma anche successivamente incrementata figurativamente dello stesso importo ai fini della determinazione della base di calcolo sia per la pensione sia per il trattamento di fine rapporto. La riduzione della retribuzione non incide quindi sull’ammontare del trattamento di fine rapporto poiché la differenza è comunque aggiunta quando lo si calcola. La salvaguardia degli interessi di tali lavoratori è garantita dal fatto che a loro è riconosciuto un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul trattamento di fine rapporto”. Del resto, insistono i giudici nell’articolata sentenza, “ il descritto meccanismo fa sì che per coloro che sono stati assunti dall’1/1/01 (e per quelli che sono stati assunti prima di tale data e che hanno optato per il regime del trattamento di fine rapporto) sono applicabili l’art. 2120 c.c. (e la L. n. 297/82), mentre è inapplicabile il “contributo previdenziale obbligatorio” del 2,50% dell’80% della retribuzione previsto invece per i dipendenti rimasti assoggettati al previgente regime del trattamento di fine servizio, proprio in virtù del citato art. 1/2 DPCM del 20/12/99”.

Poiché, prosegue il Tribunale, “è stata prevista ‘l’invarianza della retribuzione complessiva netta’ e poiché per i dipendenti in regime trattamento di fine servizio era operata la rivalsa dell’Amministrazione per contributi previdenziali pari al 2,50% dell’80% della retribuzione e poiché ancora tale rivalsa non è più prevista per i dipendenti transitati nel regime del trattamento di fine rapporto o assunti dopo il 31/12/99, per evitare che la retribuzione netta fosse maggiore il Legislatore ha stabilito che tale retribuzione non subisse variazioni e il citato DPCM ha attuato tale disposizione prevedendo la riduzione della retribuzione lorda per una quota pari al contributo previdenziale abolito, salvo poi calcolare figurativamente tale percentuale a fini del calcolo del trattamento di fine rapporto e della pensione, in modo che i dipendenti non fossero pregiudicati nel calcolo di tali due istituti, il che sarebbe avvenuto se fossero stati calcolati su una retribuzione lorda diminuita del 2,50%. Ma ciò non avviene perché – ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto e della pensione – la retribuzione lorda è aumentata figurativamente del 2,50%, per rendere invariata la retribuzione netta”.

In tal modo, secondo il Tribunale di Modena, “il DPCM dà attuazione alla parità di trattamento di cui all’art. 45/2 D.l.vo n. 165/01”. Il giudice segnala peraltro che ciò è pure stato legittimamente previsto dalla contrattazione collettiva; che il trattamento di fine rapporto ha natura retributiva ed ex art. 5/1 D.l.vo n. 165/01 secondo cui “la contrattazione collettiva nazionale … definisce nell’ambito dei singoli comparti … le modalità di attuazione di quanto previsto dal comma 5, con riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale di cui al medesimo comma”. Il che “è avvenuto nel caso di specie ove i citati Accordo Quadro e DPCM hanno dato attuazione alla L. n. 335/95, come già detto. Né il contratto collettivo è sindacabile sotto il profilo della ragionevolezza e del rispetto del principio di parità di trattamento (Cass. civ., sez. lav., n. 13869/11).

L’ interpretazione del Tribunale di Modena, che rappresenta il primo precedente di merito per i tanti che siano in procinto di far causa o che abbiano una causa in corso, e che ha dovuto affrontare un caso quasi di frontiera tanto che, come si legge nella sentenza “per le novità e la complessità delle questioni trattate costituiscono gravi ed eccezionali motivi per compensare interamente le spese processuali” si ispira alla citata, recente decisione della Corte costituzionale del 22 novembre 2018. La quale, ne riportiamo qui per esteso il testo per fornire un servizio ulteriore ai lettori, ha statuito quanto segue:

Differente, anche perché ispirato a diverse finalità, è il meccanismo della riduzione della retribuzione lorda, applicato in misura pari all’ammontare del contributo soppresso. Tale riduzione, preordinata a contenere gli oneri finanziari connessi alla progressiva introduzione del regime del TFR, risponde all’esigenza di apportare gli indispensabili adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale che transita al regime del TFR, così da salvaguardare l’invarianza della retribuzione netta prescritta dalla fonte primaria.

È lo stesso rimettente a riconoscere che, posto il principio dell’invarianza della retribuzione netta, la decurtazione della retribuzione lorda in misura pari all’ammontare del contributo soppresso si configura come scelta obbligata, nei termini recepiti nel d.P.C.m. 20 dicembre 1999.

Tale riduzione è l’approdo di un percorso negoziale volto a salvaguardare la parità di trattamento retributivo dei dipendenti che abbiano il medesimo inquadramento e svolgano le medesime mansioni, in armonia con il principio di parità di trattamento contrattuale dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, oggi sancito dall’art. 45, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Detto principio impone che, a parità di inquadramento e di mansioni, corrisponda la medesima retribuzione e che il trattamento retributivo non muti in ragione di un dato accidentale, quale è l’applicazione del regime del TFR o del TFS. Un sistema così congegnato, che persegue un obiettivo di razionalizzazione e di tendenziale allineamento delle retribuzioni, a prescindere dal regime applicabile all’indennità di fine rapporto, non svilisce neppure il ruolo cruciale della contrattazione collettiva che, nell’àmbito del lavoro pubblico (sentenza di questa Corte n. 178 del 2015, punto 17. del Considerato in diritto), è chiamata a garantire efficace tutela ai princìpi di rango costituzionale della parità di trattamento (art. 3 Cost.), della proporzionalità della retribuzione (art. 36 Cost.) e del buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), in un’ottica di razionale impiego delle risorse pubbliche. Si deve poi considerare che la riduzione della retribuzione lorda è compensata da un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e del trattamento di fine rapporto, che neutralizza i possibili effetti pregiudizievoli, su tale versante, della decurtazione operata. Anche da questo punto di vista la disposizione oggi censurata si discosta dalla disciplina del d.l. n. 78 del 2010, dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto si risolveva in una riduzione del TFR maturato”.

Parla di “metodo molto poco giuridico e molto politico” l ’avvocatessa Maria Grazia Pinardi (www.avvocatopinardibologna.it), che ha già portato al successo molti precari nelle vertenze contro la reiterazione dei contratti a termine, per il riconoscimento degli scatti e il risarcimento dei danni e che ora sta valutando di ricorrere in appello. “Aggiungo la triste considerazione – osserva – di come l’ultimo dictum della Corte Costituzionale, a cui il nostro giudice si è pedissequamente uniformato, vada nel senso medesimo del precedente, a noi ben noto, della sentenza della Consulta n. 187/2016 (sul decreto Buona Scuola), poi seguita dalle sentenze della Cassazione del novembre successivo. Il ragionamento sotteso è lapalissiano: il riconoscimento delle ragioni dei ricorrenti implicherebbe una spesa difficilmente sostenibile per lo Stato, motivo per cui si perviene ad una valutazione superficiale e di massima dell’inesistenza della discriminazione operata dalla trattenuta TFS ai dipendenti in regime di TFR, sconfessando quanto affermato dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 244/2014, in cui si era potuto leggere, invece, l’affermazione dell’esistenza di tale discriminazione. Il metodo, evidentemente, è molto poco giuridico e molto politico”.

Si può dunque scrivere la parola fine? Probabilmente no.

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