Studente distratto? Cos’è l’attenzione: l’importanza a livello cognitivo ed emotivo, i disturbi del neurosviluppo, l’ansia e la depressione. INTERVISTA a Giovanni Mento

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Quale relazione esiste tra attenzione e percezione temporale e quanto è importante questo aspetto nelle regolazioni cognitive ed emotive? Ne abbiamo parlato con il Professor Giovanni Mento psicologo e docente presso l’Università di Padova, coordinatore del gruppo di ricerca NeuroDev.

Professor Mento, un aspetto poco conosciuto dell’attenzione è la relazione con la percezione del tempo. Ci spiega come è possibile questa funzione predittiva?

È un argomento piuttosto complesso che si può articolare da tanti punti di vista. In generale possiamo affermare, come già detto in qualche nostra intervista in passato, che l’attenzione è un costrutto della nostra mente, un meccanismo complesso che comunque necessariamente si articola nel tempo, nel senso che prestiamo attenzione nell’unità di tempo. Questo può avvenire per intervalli brevi, che è quello che per esempio ci può capitare quando siamo velocemente distratti da qualcosa che succede nell’ambiente, e quindi dobbiamo usare quelli che chiamiamo i nostri riflessi, con la conseguenza che dobbiamo spostare velocemente l’attenzione da una parte all’altra; ma può avvenire anche per intervalli di tempo molto lunghi, quindi noi abbiamo bisogno di mantenere l’attenzione, quella che chiamiamo normalmente concentrazione, e di sostenerla nel tempo.

Vediamo che il tempo, la dimensione temporale, è comunque un elemento che entra necessariamente in gioco in tutto quello che riguarda i nostri processi mentali. Abbiamo bisogno di tempo anche per articolare un pensiero, per articolare il linguaggio, per costruire il movimento, quindi l’unità temporale è qualcosa di trasversale e pervasivo a qualunque manifestazione mentale e fisica dell’essere umano. Da questo punto di vista possiamo dire che la relazione tra tempo e attenzione è piuttosto importante e complessa. Detto questo è anche vero che noi siamo in grado di utilizzare l’informazione temporale, il passaggio del tempo, anche per orientare la nostra attenzione. Quindi da una parte, come ho detto, noi usiamo l’attenzione nel tempo, ma dall’altra parte il tempo è qualcosa che dà una struttura che noi possiamo utilizzare per gestire la nostra attenzione.

Per fare un esempio interessante, la prima dimensione del mondo fisico con cui entriamo in contatto sin dall’origine della nostra vita, quindi nel primo periodo fetale, è l’unità temporale, questo accade perché fin da subito siamo esposti alla ritmicità del battito cardiaco della mamma, quindi già all’interno dell’utero siamo stimolati da questi rumori che anche se non vengono percepiti dall’udito, perché nelle primissime fasi non è ancora pienamente funzionante, attraverso le vibrazioni del corpo della mamma il feto è in grado di percepire questa regolarità.

Ci sono dei dati che suggeriscono che questa regolarità temporale in qualche modo è quello che dà la struttura anche ai meccanismi di sviluppo neurobiologico, quindi non è sbagliato dire che il nostro cervello, e tutto quello che ne consegue, si forma, si sviluppa, cresce, perché c’è una sorta di ritmo costante, temporale, che crea questa sorta di scaffolding, cioè di struttura portante. È qualcosa che comincia molto precocemente nella nostra vita, pare che addirittura i primi meccanismi neurali, formazione e migrazione dei neuroni, avvengano in maniera coerente con questa ritmicità che in fondo l’essere umano percepisce e a cui è esposto molto precocemente.

Come avvengono i processi predittivi e quali scopi hanno?

Chiaramente tutto quello che abbiamo detto è associato a meccanismi cosiddetti predittivi, vuol dire che il fatto che noi siamo immersi in una realtà che è molto complessa perché ci dà tantissimi stimoli sensoriali, come visivi, uditivi e tattili, e anche stimoli interni, come i pensieri e tutto quello che ci passa per la mente, ci potrebbe far pensare ad una sorta di mondo caotico, come dire che dobbiamo interagire con una realtà che è veramente molto complessa e oggi molto più che in passato, perché gli stimoli che riceviamo sono sempre più importati, sempre più invasivi e invadenti nella nostra vita.

Però un aspetto importante è che il nostro cervello, proprio per i motivi che dicevamo prima, per questa sorta di imprinting che noi abbiamo ereditato dalla filogenesi, ha la capacità di cogliere delle informazioni che apparentemente sembrano casuali ma che in realtà sono delle informazioni regolari, sono delle informazioni che in qualche modo costituiscono una struttura nelle sensorialità che noi percepiamo. Normalmente l’alternanza dei ritmi circadiani, alternanza di luce e buio, giorno e notte, fornisce già un primo macro elemento di regolarità, di ritmicità, attraverso la quale tutti i nostri bioritmi interni, quindi anche cerebrali e di conseguenza il nostro funzionamento cognitivo, in qualche modo si sono dovuti adeguare.

Se poi cambiamo scala, andiamo nella scala un pochettino più ristretta come tempo, vediamo che altri tipi di comportamenti che condividiamo tra di noi hanno una loro regolarità interna, ad esempio il linguaggio, la regolarità delle parole, gli accenti, con le ovvie differenze tra le varie lingue e i dialetti, però c’è una sorta di regolarità che ci permette di cogliere una struttura latente. Quello che in qualche modo il nostro cervello fa non è soltanto di essere un ricevitore passivo di quello che ci arriva tramite i nostri sensi, ma possiede già una sorte di codice interno che ci permette da una parte di decodificare le regole della sensorialità, dall’altra parte usare queste regole, farle proprie, creare una sorta di modello interno di come funziona la struttura di regolarità del mondo e poi usarle in maniera anticipatoria, predittiva.

Questo è vero non soltanto a livello di ritmi biologici, ma anche nelle interazioni quotidiane che noi scambiamo a livello sociale. Ad esempio quelle che noi chiamiamo strategie di coping, il fatto che noi mettiamo in atto determinati comportamenti in certi contesti sociali ma non in altri contesti, forniscono anche degli elementi di predicibilità. Vuol dire, per dirla in maniera molto semplice, che se io entro in una farmacia ho imparato ad aspettarmi che quello che dovrei trovarmi davanti è il bancone dei medicinali, il farmacista con il camice e forse qualche altro cliente, quindi se entro in una farmacia e mi trovo il banco dei salumi ovviamente rimango molto sorpreso, proprio perché questo è un elemento che sta violando un mio modello predittivo interno che ho imparato, in questo caso l’ho imparato per esposizione, perché da piccolo, e poi man mano crescendo, ho imparato a capire che cosa dovrei aspettarmi da determinate situazioni sociali.

Questo è un altro livello a cui il nostro cervello predittivo può funzionare, c’è un livello molto più basico che è quello della sensorialità, dei bioritmi, poi c’è un livello intermedio che è quello legato alla mesoscala e alla macroscala dei nostri comportamenti. Tutti questi elementi ci forniscono materiale utile, durante il nostro sviluppo, per creare questa sorta di schemi mentali che ci permettono non soltanto di rispondere alla realtà ma di anticiparla e questo avviene per un meccanismo molto complesso ma che in realtà si può descrivere in una maniera molto semplice con un principio di economia energetica, nel senso che la natura ha capito, nel corso dell’evoluzione, che è molto più semplice usare delle risorse energetiche cerebrali, quindi mettere in atto un grande sforzo, quando ci troviamo di fronte a situazioni imprevedibili, situazioni che sfuggono la nostra capacità di predire.

Tutto ciò avviene perché sono proprio queste le situazioni che necessariamente ci mettono nella condizione di generare una reazione di attacco o di fuga, cioè di dover reagire ad una situazione imprevedibile. Se al contrario la situazione è nota, prevedibile, come nell’esempio precedente in cui entrando in farmacia mi aspetto di trovare i medicinali, in qualche modo sto confermando quello che è il mio modello interno, quindi quello che succede è che il nostro cervello, e questa è una scoperta relativamente recente degli ultimi 15/20 anni, non funziona come se ogni volta si trovasse di fronte a degli elementi nuovi, ma usa quello che ha appreso per predire gli elementi che arriveranno nel futuro e solo se questi elementi che arrivano si discostano molto da quella che è la previsione, a quel punto il nostro cervello si attiva molto e si attiva perché da una parte deve metterci nella condizione di poter reagire prontamente, perché una situazione imprevedibile può essere pericolosa, dall’altra parte ci permette di imparare, e forse questo è il concetto più bello perchè legato all’apprendimento.

In poche parole questo vuol dire che non c’è niente di più vero del vecchio adagio secondo cui “sbagliando si impara”. Noi ora sappiamo che il nostro cervello funziona così proprio perché è dall’errore che genera delle risposte di incompatibilità tra quello che ho previsto e quello che sta succedendo e queste risposte cerebrali mettono in atto tutta una serie di meccanismi legati all’apprendimento. In poche parole bisogna sbagliare per imparare, una situazione totalmente prevedibile, dove non c’è mai una possibilità di errore, è una situazione mortifera per la mente umana, una situazione dove non ti mette mai in condizione di apprendere, di evolvere, di adattarti.

Quanto incide questa funzione nei disturbi del neurosviluppo, nei disturbi d’ansia e depressivi?

Incide moltissimo, ancora non sappiamo esattamente quali sono i meccanismi che ledono questa abilità precoce di generare una sorta di modello interno del mondo, tra l’altro questo meccanismo ha un nome specifico che è statistical learning, cioè apprendimento statistico, ed è molto studiato sin dalle prime fasi dei neonati. Questa abilità ha delle sue regole, dei suoi meccanismi, che vengono studiati nella ricerca di base anche dalle neuroscienze, dall’altra parte sappiamo che nel mondo dei disturbi del neurosviluppo, quindi delle traiettorie atipiche di sviluppo, una delle cose che si osserva è che spesso c’è una sorte di fallimento di questa capacità di generare predizione, quindi di imparare che cosa ci si dovrebbe aspettare dal mondo, e usare queste informazioni in maniera anticipatoria.

Un caso per tutti è, ad esempio, quello dei disturbi dello spettro dell’autismo, dove è abbastanza evidente, a chi si occupa dal punto di vista clinico ma anche a chi è in contatto con persone che sono in questa condizione, che spesso le situazioni nuove e imprevedibili generano una sorta di reazione esagerata. Un’ipotesi interpretativa è che manca quella capacità di dire che ho imparato come dovrebbe funzionare il mondo, come dovrebbero essere le relazioni sociali e quindi non mi meraviglio più se mi trovo in una situazione in cui qualcosa è cambiato, dove non tutto è prevedibile. In realtà nel loro caso quello che succede è che questo tende a portare allo scompenso, proprio perché la reazione di sorpresa è talmente enorme perché la capacità di generare predizione alla base potrebbe essere alterata. Lo troviamo anche nei disturbi di ansia, che chiaramente sono anche collegati con quello che abbiamo appena detto.

Alcune ricerche recenti dicono che anche in altri disturbi del neurosviluppo, come nell’ADHD, potrebbe esserci questa caratteristica, per cui si parla in generale di un meccanismo predittivo alterato, molto di base, che è comune a molte traiettorie del neurosviluppo, quindi prima ancora di andare a ricercare la causa o i meccanismi che potrebbero non funzionare nelle specifiche categorie diagnostiche, che poi di volta in volta ci sono tante ipotesi diverse non sempre suffragate dai dati, questa linea di ricerca sta utilizzando quello che noi sappiamo sul cervello predittivo per dire che forse è proprio là che dobbiamo andare a puntare l’obiettivo della ricerca, perché è un meccanismo base potenzialmente all’origine di diverse traiettorie alterate deli disturbi del neurosviluppo.

Tradurre questo in ambito clinico è molto difficile, perché bisogna chiedersi se esiste un modo per valutare clinicamente questa abilità e se sì come si può intervenire per “aggiustare” un cervello che non ha sviluppato questo sistema predittivo, come normalmente dovrebbe avvenire. Questo ancora non lo sappiamo, ci sono delle linee di ricerca, anche se qua si tratta di mettere in comunicazione l’ambito clinico con l’ambito della ricerca delle neuroscienze e della psicologia cognitiva che finora ha affrontato queste problematiche più come ricerche di base e non come ricerche in ambito clinico. Sono due mondi che fanno un po’ di fatica a parlarsi ma che recentemente stanno cominciando a farlo.

Un’ultima domanda. Come è possibile sfruttare questa funzione cognitiva per migliorare i processi di apprendimento?

Come dicevo prima, non ci sono ancora delle linee guida o dei protocolli, però la logica potrebbe essere che nel momento in cui ho delle forti ipotesi che alla base di un disturbo dell’apprendimento potrebbe esserci una difficoltà a introiettare una regola anticipatoria, ovvero automatizzare quella che dovrebbe essere una capacità che normalmente si acquisisce, quindi utilizzare quella capacità predittiva per anticipare, ad esempio, le parole da leggere o per anticipare il significato, questo per costruire la comprensione del testo, a questo punto un’ipotesi, dievamo, potrebbe essere quella di rinforzare questi meccanismi che sono un po’ alla base.

Ad esempio ci accorgiamo di un bambino con dislessia perché prevalentemente fa fatica nell’apprendimento della lettura o della letto-scrittura, o nel caso della discalculia del calcolo, ed ecco che ci concentriamo su quello che vediamo non funzionare, ma se noi sospettiamo che alla base ci sia un problema più generale, prima ancora di andare a lavorare sulla lettura, quindi sull’abilità dominio-specifico, che è la competenza che poi vediamo e che è clinicamente rilevante, forse ha più senso concentrarsi nel valutare questa capacità anticipatoria e potenziarla.

Ci sono dei training che stanno ipotizzando di utilizzare stimolazioni ritmiche, prima ancora di parlare di parole e linguaggio, per allenare e forzare il cervello nella sua capacità di estrarre queste regole e le regole potrebbero essere a più livelli. Molto semplicemente se io le faccio l’esempio di una stimolazione uditiva dove dopo ogni tre suoni uguali c’è un suon diverso, questa è una semplice regola di primo livello, se poi la facciamo sempre più difficile è come se stessimo allenando il cervello a costruire sempre più capacità ad estrarre regole, in pratica ad allenarsi.

L’idea è che lavorando su questa funzione generale, più di base, si possa trasferire il tutto anche ad altri domini che sono più legati al mondo dell’apprendimento o potrebbero essere legati al mondo dell’orientamento e dell’attenzione, come dicevamo all’inizio, e che quindi potrebbe agevole bambini che hanno difficoltà di attenzione, o che potrebbero in qualche modo tradursi in migliori strategie socio-comunicative. Però qua siamo ancora molto lontani dal pensare ad un’efficacia di questi tipi di trattamenti, sono linee molto promettenti e anche le neuroscienze stanno dimostrando molto, ma ancora ci vuole parecchia evidenza empirica prima di pensare di poter utilizzare queste cose a scopo riabilitativo-terapeutico.

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