“Spegni quel cellulare”, quand’è che un’abitudine diventa “malata”?

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È con una certa schizofrenia che negli ultimi tempi si sono alternate indicazioni su come integrare o non integrare l’uso dello smartphone nella didattica, e naturalmente anche la pubblicistica a riguardo si è fatta decisamente corposa.

A chi volesse acquisire informazioni più approfondite e aggiornate sull’argomento possiamo senz’altro consigliare “Spegni quel cellulare. Le tecnologie tra cattive abitudini e dipendenze” appena edito da Carocci, un agile volumetto che combina un approccio descrittivo e documentale con un contributo decisamente più originale e personale, di cui tenteremo di dar conto in questa breve presentazione.

L’autore Maurizio Fea, psichiatra, docente universitario e autore di diversi articoli e saggi sulle dipendenze, conduce in circa 150 pagine una disamina ricca e argomentata su come i dispositivi tecnologici stiano cambiando i processi della conoscenza e suggerisce anche modi concreti su come tornare a esserne, almeno in parte, padroni, ma soprattutto ci accompagna nel vivace e accorato dibattito tra biologia e cultura, un dualismo che ci induce persino a chiederci se e quanto anche quelle che noi comunemente definiamo ‘passioni’ siano dipendenze e se possa esistere un ancoraggio teorico in grado di farci uscire dal dilemma ‘tutti dipendenti’ o nessun dipendente’.

Qual è, appunto, il confine che ci permette di stabilire se e quando un’abitudine nel nostro comportamento diventa dannosa? “C’è differenza tra Vittorio Alfieri e Ulisse, letterato e drammaturgo di fama il primo, eroe omerico il secondo, quando decidono di farsi legare, rispettivamente, a una sedia e all’albero di una nave? C’è differenza tra queste due nobili figure e le moltitudini di persone che si impongono discipline rigorose e impegnative […] pur sapendo magari di dover rinunciare ad altro, o pagando comunque un costo per la loro scelta?” l’autore si domanda a p. 47. Le dipendenze comportamentali, spiega, vengono comunemente incluse nella serie di abitudini ripetitive che aumentano il rischio di malattia e/o problemi personali e sociali associati, ma all’interno del dibattito sulle cause e sulle strategie di intervento nell’abuso di sostanze psico-attive è soltanto dall’inizio degli anni Duemila che il concetto biomedico della dipendenza come disfunzione biologica, quindi come malattia del cervello, ha definitivamente scalzato l’approccio sociale, psicologico e morale.

È a questo punto che bisogna però tenere conto del fatto che molti dei nostri comportamenti abituali la cui caratteristica fondamentale risiede nell’intensità e nella ripetitività con cui vengono praticati – pensiamo all’amore per lo studio o per lo sport agonistico – o investiti di importanza potrebbero essere interpretati alla luce dei criteri proposti per la diagnosi delle dipendenze comportamentali dando riscontro positivi, con esiti ben poco credibili, giacché tutti le interpretiamo, invece, come espressione di amore e di misura. Insomma, non è facile dire dove si stabilisca il confine tra il coinvolgimento salutare prodotto da un determinato comportamento e il disagio eventualmente provocato da un suo abuso.

Laddove viene scandagliato il rapporto ‘impegnativo’ tra biologia e cultura, l’Autore disvela che la tendenza ermeneutica in atto potrebbe portarci ad avventurarci in territori sostanzialmente contro-corrente, che sarebbero quelli di una de-medicalizzazione del concetto di dipendenza nel suo complesso, una conclusione che potrebbe avere effetti sociali importanti, ancorché inediti.

“Spegni quel cellulare. Le tecnologie tra cattive abitudini e dipendenze”, di Maurizio Fea, Carocci 2019, 157 pp., 14 euro

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