Solidarietà tra insegnanti: la prima cura per i molti mali che affliggono la categoria

Sono ormai trent’anni che – da medico – bazzico il mondo della scuola occupandomi della salute degli insegnanti.
Ho potuto così imparare molte cose, alcune delle quali mi hanno lasciato perplesso se non proprio sconcertato: i docenti sono la più grande categoria del pubblico impiego ma la politica e le parti sociali non se li filano se non – a parole – in tempo di elezioni; sono i peggio pagati della UE e nessuno fiata; hanno perennemente il contratto scaduto e si accontentano del rinnovo, magari dopo 10 anni, per un caffè/die; plaudono a manovre assistenzialiste (reddito di cittadinanza) senza invece reclamare per sé il legittimo adeguamento stipendiale ai livelli europei; sono donne nell’83% dei casi e nemmeno sanno far valere il loro peso sociale e le discriminazioni di genere di cui oggi tutti si riempiono la bocca; non hanno fruito di un solo euro (mai stanziato) per la prevenzione dello Stress-Lavoro-Correlato e non hanno mai visto riconosciute le loro malattie professionali pur trovandoci ormai nel terzo millennio; sono i più anziani del vecchio continente e “fragili” di salute ma nessuno se ne sarebbe accorto se non fosse stato per il Covid; risultano intercambiabili a piacimento per la didattica in presenza o a distanza; possono essere impiegati indifferentemente di mattina e pomeriggio (tra un po’ anche di notte), a giugno e luglio senza essere consultati; giacciono rassegnati sotto gli stereotipi che li etichettano come vacanzieri e fannulloni; risultano infine sempre in disaccordo tra loro sul da farsi e sono spietati nel giudicare l’operato dei colleghi (soprattutto quelli più vicini). La lista è ancora lunga ma non voglio infierire oltremodo perché è sufficiente la punizione del raccolto di cotanta semina. Anzi, proprio questa amara premessa rende ancor più grande la toccante testimonianza di cui sono venuto a conoscenza in queste ore e che spero possa costituire un esempio, un riscatto, una ripartenza nella quale mi ostino a credere e a sperare per il bene della categoria e della società intera.
Il fatto
Siamo nel 2019, a Budoni in provincia di Sassari, e due maestre “navigate” (nel senso che hanno molta anzianità ed esperienza) sono accusate di maltrattamenti nei confronti dei bimbi della scuola dell’infanzia. Le accuse sono quelle di sempre, in casi come questi, di tono della voce elevato, rigore eccessivo, qualche strattonamento e via discorrendo. Il rituale è il medesimo di sempre: indagini, testimonianze, intercettazioni, interrogatori, procedimento penale e udienze. Come si suol dire, la giustizia farà il suo corso, lento ma inesorabile e poi giungerà a un verdetto di assoluzione o di colpevolezza. Ci si consenta ora di esprimere un parere ricorrendo alle parole di un magistrato del tribunale del riesame di Quartu (2017) che, innanzi a un caso analogo, affermò che“il comportamento della maestra non integra la soglia del penalmente rilevante ma esaurisce eventualmente la propria censurabilità con un provvedimento disciplinare o in ambito civilistico”<.In parole più semplici: “Non si spara alla mosca col cannone”. In questo caso però non ci interessiamo dell’episodio in sé, ma della reazione delle colleghe delle maestre inquisite. Quello che solitamente avviene è la presa di distanza da chi è caduto in disgrazia ed ha attirato critiche e insulti su di sé, divenendo facile bersaglio dei media, dei social e degli odiatori seriali che danno sfogo al loro bieco giustizialismo.
Le maestre di Budoni invece si sono strette coraggiosamente attorno alle due maestre accusate, hanno apprezzato il loro operato, la loro esperienza e l’autorevolezza maturata negli anni. Poi, caso più unico che raro, hanno messo mano al portafoglio e fatto una colletta per aiutare le colleghe a sostenere le ingenti spese legali. Un gesto che si commenta da solo, dona speranza a chi ha lavorato una vita intera per un tozzo di pane ed ha cresciuto intere generazioni sentendone la riconoscenza. Questa gratitudine è rafforzata ora da colleghe solidali che non abbandonano nel momento del bisogno, ma donano la loro vicinanza proprio quando tutti si allontanano da te perché infangata dalla più tremenda delle accuse per colei che svolge la professione di maestra o educatrice. Le parole della lettera toccano il cuore più di quanto alcuno sappia fare e meritano di essere lette fino alla fine. A tutti noi non resta che ringraziare queste donne, madri e maestre per questa lezione di vita, di solidarietà e generosità per poi prenderne esempio.
Non sfugga infine la drammatica sofferenza del rapporto tra le due agenzie educative (scuola e famiglia) che non avranno mai chi vicaria la loro funzione nel crescere le nuove generazioni: unica soluzione è dunque il ripristino della loro alleanza.
Carissima Antonella, stimata collega,
la battaglia legale che stai conducendo rappresenta tutte noi, rappresenta la scuola, quella bella, nella quale hai onoratamente prestato servizio per decine di anni, quella scuola in cui noi tutte crediamo, quella scuola che ci inorgoglisce quando si ottengono importanti risultati educativi, quella scuola che contribuisce a migliorare la società.
Oggi, purtroppo, prendiamo amaramente coscienza che quella scuola non esiste più. La deriva sociale a cui assistiamo giorno dopo giorno, in cui emerge l’incapacità degli adulti di farsi carico delle responsabilità educative dei nostri giovani, ha condannato la scuola a diventare il capro espiatorio. Ecco allora che il nostro ruolo di insegnanti ed educatori, centrale nella nostra società fin dalla notte dei tempi, oggi è minato se non del tutto demolito.
Tu hai avuto la sfortunata di esserne colpita in pieno in prima persona. Ma, quel lontano settembre di due anni fa, quando ebbe inizio “l’assurda vicenda” che ti coinvolse, uno tsunami si è abbattuto non solo su di te ma anche sulla scuola e su noi tutte. Sparì l’entusiasmo che quotidianamente ci accompagnava, ci colse una demotivazione quasi dolorosa a livello fisico, diventammo distaccate e diffidenti con le famiglie, tra di noi, con i bambini.
Sai da dove prendemmo la forza per andare avanti?
Da voi, da te e da Giovanna.
Si, siete state la nostra forza. Vedervi a scuola tutti i giorni, a testa alta, ferite mortalmente ma non piegate, che con grande dignità avete affrontato chi vi ha ostacolato con tutti i mezzi, si, dobbiamo proprio dirlo, ci avete impartito una grande lezione di vita.
È da questi presupposti che nasce in noi il desiderio di essere al vostro fianco, sempre, tutti i giorni emotivamente vicine, per farvi sentire tutto il nostro supporto.
Una vicinanza espressa con un simbolico gesto concreto, perché ad essere segnata è stata anche la nostra vita, un gesto che ricorderà a tutte noi, in futuro, che siamo tutte esposte al rischio di cadere vittima degli umori dell'”utenza”.
Un grazie immenso da noi tutte per averci donato il vostro coraggio.
È stato un onore poter lavorare con voi.<
Con affetto e grande stima
Le colleghe di Budoni
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