“Se un bambino si sbuccia un ginocchio, per i genitori equivale alla frattura di un braccio. Rieduchiamo gli adulti alle emozioni”. INTERVISTA a Matteo Lancini
Come possiamo imparare a conoscere e gestire le emozioni? Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica. Presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca e presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano.
Professor Lancini, l’affettività nei più giovani cambia a seconda della fascia d’età. Quanto è importante l’educazione emozionale, in ragazzi che hanno sempre più difficoltà a gestire le proprie emozioni, a partire dai più piccoli?
L’educazione alle emozioni o agli affetti in realtà non è una materia che si può insegnare. Credo che il tema dell’alfabetizzazione emotiva oggi non riguardi neanche prevalentemente le nuove generazioni ma piuttosto gli adulti, nel senso che noi abbiamo costruito una società dove l’espressione delle emozioni, soprattutto quelle più disturbanti come la tristezza, la rabbia o il dolore, vengono rimosse dallo sguardo di ritorno degli adulti che tende a negarle in una società che rimuove il dolore, come è ben noto in una società algofobica come dice un famoso studioso coreano. Detto ciò, ritengo che la tematica non sia un problema di mancata gestione delle emozioni dei ragazzi, ma di come intendiamo noi le emozioni, come interpretiamo ad esempio la rabbia, vista come se fosse necessariamente qualcosa di violento o da negare.
La verità è che negli ultimi anni chiediamo ai nostri bambini di mettere a tacere fin dalla più tenera età l’espressione emotiva attraverso lo sguardo o i comportamenti che vengono sanzionati a scuola, a volte chiamati come violenti o come bullismo anche quando non rientrano in questi comportamenti. Quindi quella che giustamente lei richiama a un’educazione alle emozioni, o all’affettività, non passa attraverso delle lezioni, ma passa attraverso adulti che siano in grado di fare esprimere le emozioni e contenerle e non chiamare educazione, o punizione a scopo educativo, il mettere a tacere qualsiasi aspetto emotivo.
Oggi è necessaria un’alfabetizzazione emotiva degli adulti che torni a tollerare il fatto che ci sono delle emozioni primitive, primarie, che i bambini devono esprimere e se non lo faremo allora sì che dopo avremo delle problematiche legate al fatto che non avendole potuto esprimere diventeranno azione e rabbia. È necessario partire da una nuova cultura degli adulti che tollerino le possibilità di esprimere queste emozioni e non chiedere di mettere a tacere in nome dell’angoscia o di modelli educativi adulti che poi dicono che i ragazzi sono particolarmente sregolati, mentre la verità è che le generazioni come la mia si potevano muovere ed erano molto più violente di oggi, erano molto più disregolate di quelle odierne, ma era la rappresentazione dell’adulto che era diversa, consentiva l’espressione mentre oggi non consentiamo ai nostri bambini di esprimersi.
Basta sapere che il corpo è sotto sequestro e accade che se appena un bambino si arrampicano su un albero ecco che scatta l’angoscia dei genitori. Il dolore che oggi un genitore prova per la sbucciatura di un ginocchio o per un bernoccolo del proprio figlio, equivale allo stesso dolore dei nostri genitori nel caso in cui ci fossimo fratturati un braccio e magari in più punti. È cambiata la rappresentazione adulta sulle emozioni, non dei bambini.
Un’emozione in particolare caratterizza la società attuale ed è l’ansia, tant’è che la riscontriamo anche nei più piccoli. Cosa ha determinato l’emergere in modo rilevante di questa emozione?
Si collega a quello che dicevo prima, l’ansia è determinata dal fatto che fino a qualche anno fa la leggevamo come frutto di una società competitiva e individualista, quindi un’ansia da prestazione perché si deve essere sempre belli, popolari e di successo, la verità è che negli ultimi anni quest’ansia è determinata dagli aspetti legati all’impossibilità di esprimere parti autentiche emotive di sé. Lei pensi solo al fatto che oggi sentiamo parlare da ogni parte, in nome di un modo di sovraintendere la mente delle nuove generazioni, di dipendenza affettiva come se fosse la malattia del secolo della nostra società, quasi che se uno avesse una dipendenza degli affetti, nei modelli educativi che proponiamo, è un soggetto che ha dei problemi. Ci stiamo dimenticando che l’essere umano nasce con delle dipendenze affettive, anzi il bambino ha una dipendenza affettiva originaria e per questo bisogna avere degli atteggiamenti adulti anche sacrificali in nome della crescita del bambino, delle proprie emozioni e dei propri bisogni.
Questo tipo di negazione delle emozioni, al punto di chiamare addirittura gli affetti qualcosa che segnala una dipendenza, in poche parole è il tema che affrontavo nella risposta alla prima domanda, ovvero che i più giovani non possono esprimere emozioni se non secondo quelli che sono i dettami della scuola e della famiglia, dove sono gli educatori che ti dicono che le emozioni tollerabili sono quelle che tollerano gli adulti. Questo tipo di questione sta creando una profonda ansia che esplode soprattutto in preadolescenza e in adolescenza e poi nella giovane età adulta. Anche se è vero che è sempre più precoce ma è lì che la vediamo ed è determinata da questo mandato paradossale di crescere essendo sé stessi a modo dei genitori, o della scuola, insomma sì te stesso a modo mio, non a caso ho intitolato così il mio ultimo libro.
Così quando arriva l’adolescente ci troviamo di fronte ad un vuoto identitario, cioè che non si è potuto dare voce ai propri aspetti emotivi autentici, che erano chiamati dipendenza affettiva, oppure violenza quando invece era solo rabbia, era una tristezza che veniva vissuta come un affronto dagli adulti che dicevano al ragazzo di ascoltarlo. Se lei somma questo vuoto identitario con un’assenza di prospettive future legate ai comportamenti quotidiani degli adulti, quindi non solo disboscamento del pianeta, plastificazione lunari, guerre e una pandemia che ha certificato che la povertà educativa è la povertà digitale, e poi dopo gli impediamo di nuovo di andare in internet dicendo che ci stanno troppo e perdono tempo, tutto questo è una disassociazione dei modelli che fanno sì che si arrivi in adolescenza ad incontrare quotidianamente adulti che non ti pensano. Aggiungiamo inoltre genitori e insegnanti che sono lì a dirti che quello che gli serve per il futuro è sbagliato e lo devono usare solo gli adulti, vedi internet, si ha quella che oggi è in effetti il sintomo della generazione, non solo in Italia ma nel mondo, di un’ansia generalizzata che non è più l’ansia prestativa del narcisismo, ma è un’angoscia propria del post-narcisismo. Vuoto identitario e assenza di prospettive future creano angoscia, detta ansia pervasiva, in ogni dove, in ogni luogo.
L’ansia a due facce, una positiva, quando stimola e attiva i processi attentivi, ed una patologica quando diventa bloccante. Recentemente è stato pubblicato “Buonanotte, Ansia – Inside Out 2” con la sua prefazione, a tal proposito come possiamo imparare a gestire questa emozione vissuta con tutte le altre?
Innanzitutto non negandola, accettando che l’ansia fa parte di aspetti fisiologici, come diceva lei, che però quando diventa pervasiva blocca, e tollerando che l’ansia odierna deriva dal fatto di non aver potuto esprimere delle emozioni. Un conto è come aiutare i ragazzi che gestiscono un’ansia prestativa, un altro conto è accettare che esistono dei temi legati, ad esempio, alla tristezza, al dolore, a delle espressioni emotive che dovremmo legittimare. Quando queste espressioni emotive vengono accolte attraverso comportamenti che invece di essere sanzionatori sono relazionali, sono spiegati, allora sì che vengono accolte e poi non diventeranno più un comportamento problematico. Il modo migliore oggi è identificarsi con le nuove generazioni su cosa significa costruirsi un presente e un futuro in questa società e tollerare, appunto, che l’ansia è uno degli elementi, a volte anche con la necessità di essere integrata con la tristezza o con la rabbia, e non solo con i sentimenti meravigliosi che vorremmo per loro.
Oggi pensiamo di avere un’attenzione maggiore all’ascolto da parte di famiglia e scuola, pensiamo di ascoltarli tanto e di essere più attenti, mentre in realtà abbiamo organizzato un dispositivo che non è per niente identificato con le espressioni emotive delle nuove generazioni, tant’è che anche la Walt Disney se n’è accorta e da lì nasce la realizzazione di un film, in proiezione nei cinema da pochi giorni, che parla di emozioni e che sta avendo un grande successo. Siamo convinti che dobbiamo alfabetizzare emotivamente i bambini non capendo che l’alfabetizzazione emotiva, la vera emergenza educativa, è la fragilità adulta e l’assenza di alfabetizzazione emotiva degli adulti.
Un’ultima domanda. Le emozioni si allenano nelle relazioni, sia con gli adulti, ad esempio genitori e insegnanti, che con i pari, ovvero i propri coetanei. In una società dove gli spazi di aggregazione sono cambiati e sempre più ridotti e dove lo spazio virtuale si affianca e integra quello reale, come cambia l’imparare a gestire le proprie emozioni?
Le emozioni sono costitutive dell’essere umano, esistono e, ci tengo a dire, sono emozioni che riguardano sempre il tema oggi grandemente rimosso del dolore, della tristezza, dei vissuti depressivi che fanno parte della vita. Abbiamo la necessità di comprendere, come giustamente dice lei, che se gli adulti quotidianamente non ascoltano, non sono identificati, ma sono più portati a chiedere ai bambini di provare delle emozioni funzionali alle esigenze degli adulti, ecco che durante la crescita il competitor principale che abbiamo, internet, diventa il luogo all’interno del quale i giovani vanno a risolvere queste tematiche.
Quindi non è un problema di allenarle le emozioni, è un problema di dare voce alle emozioni che arrivano, e se viene ascoltata la voce non si è poi costretti ad alzare la voce ulteriormente o a renderla agito come succede in adolescenza. Credo che il compito degli adulti oggi sia di fare delle domande le più disturbanti che ci vengono in mente, altro che organizzare dispositivi privativi del cellulare o, come dico sempre, realizzare iniziative che sono volte solo a trovare nel cellulare, e quindi in internet, o nella pandemia, il male delle nostre generazioni per cui il loro disagio dipenderebbe da quello. Abbiamo necessità di fare delle domande disturbanti, ad esempio chiedere ai propri figli, dopo una certa età, se pensano al suicidio, chiederlo anche a scuola, accettare il fatto che oggi nessun ragazzo si vede bello e che molti di fronte a questa sensazione di inadeguatezza hanno più azioni violenti verso di sé, anche se poi fuori qualcuno le mette in atto.
Capire che le nuove forme di violenza giovanile, erroneamente chiamate baby gang infantilizzando comportamenti di qualcuno che nome è più baby, è un modo oggi di farsi vedere, come ci dicono anche le ricerche che evidenziano che ci sono sempre meno furti e rapine e più violenza messa in atto. Abbiamo la necessità di cogliere i miti affettivi che governano i comportamenti degli adolescenti, che sono i comportamenti espressione di un’ansia, di una disperazione, di una paura di non avere un futuro, fortemente connesso al fatto che quando si prova ad esprimere le proprie emozioni, o le si mette in atto in ambito scolastico educativo, non ci sono interventi mirati ai ragazzi, ma interventi mirati a non far sentire gli adulti inadeguati e quindi a placare l’angoscia dei genitori.
Chi fa il mio mestiere suggerisce ai genitori di non regalare lo smartphone al figlio finché non sa decidere lui quando privarsi di questo strumento, oppure di chiedere al figlio se pensa al suicidio invece di sequestrare il cellulare a tavola per una mezz’oretta così per far finta di essere la famiglia felice. La scuola fa lo stesso ovviamente per non avere guai, per non avere denunce, e sta immobilizzando i nostri bambini che non possono esprimersi in niente e quindi le emozioni, che diventano anche azione e bisogno di contatto, oggi sono subito chiamate violenza con addirittura alcune interpretazioni drammatiche e di violenza di genere, mentre sappiamo che il conflitto è fisiologico a scuola, ma va gestito e non lasciato correre, va preso sul serio ma va anche compreso nei suoi significati.
Mettere a tacere tutti i sentimenti che non ci piacciono, tutte le emozioni come la rabbia, la tristezza o il dolore, non ha portato bene in questi anni e poi succede che c’è internet. Se non puoi parlare di queste questioni con i tuoi genitori o i tuoi insegnati, se non ti puoi muovere, perché chiunque si muova oggi è visto come minaccioso del benessere del vicino e deve star fermo nel banco ad ascoltare, se ci permettiamo di dare delle note ai bambini piccoli perché quel bambino si muove, quando ai miei tempi per cose simili la dirigente scolastica avrebbe chiesto chiarimenti all’insegnate, anche perché i bambini si muovono e si muoveranno sempre, è chiaro che poi i ragazzi vanno in internet a cercare le risposte.
Oggi la vicenda più drammatica, ai miei occhi, è quella che vede il cambiamento del mio pensiero su internet, quando ha iniziato a diffondersi pensavo che internet fosse il luogo della solitudine per le nuove generazioni, oggi mi sono reso conto, sempre di più, che internet è il luogo dove i ragazzi vanno ad esprimere emozioni e a cercare relazioni, in poche parole a lenire il dolore della solitudine che provano ogni giorno davanti ad adulti che dicono che sono in relazione con loro, ma che invece sono in relazione solo con i propri bisogni di adulti fragili.