Se questa è Scuola. Lettera

Inviata da Stefano Vittorio Pruneri – In questi giorni appare quasi certo il ritorno della prima prova alla maturità 2022. Sui social, i commenti agli articoli in merito esprimono lo sgomento e il fervore di chi reputa gli esami degli ultimi due anni e anche il prossimo privi di quella “serietà” che ha caratterizzato la propria esperienza passata.
Il “liberi tutti” all’ammissione agli esami dell’anno 2020, senza discriminare tra chi avesse raggiunto quei requisiti minimi attesi da uno studente a fine ciclo e chi, invece, non avesse mostrato il minimo interesse, non è sicuramente espressione di un sistema meritocratico.
Tuttavia, la situazione scolastica antecedente al Virus non era così rosea come la dipingono i nostalgici.
Ho terminato gli studi superiori in un liceo classico meno di un lustro fa.
Ho vissuto la scuola dall’interno delle sue mura con occhi infantili e adolescenziali, prima, e ho assistito ai vari cambiamenti apportati all’esame di maturità nel corso degli anni, dopo.
Dalla mia esperienza, la scuola il merito non lo premiava neanche in precedenza, e con “in precedenza” intendo sia prima della maturità 2020, sia prima di qualsiasi altra maturità. L’esempio tipico, in cui capita non di rado di imbattersi, è quello dello studente che, dopo aver collezionato insufficienze (dal 2 al 5) per tre quarti della durata del secondo quadrimestre, nel mese di maggio si impegna maggiormente, consapevole del fatto che la sua promozione è a rischio. La maggior parte delle volte questo impegno non esita in una performance talmente brillante da giustificare l’”arrotondamento” di una media aritmetica che, sulla carta, tiene conto, oltre che degli ultimi risultati, anche dei tanti voti negativi riportati dall’alunno. Il paradosso vuole però che tale media venga invece applicata con estrema solerzia per gli studenti che quel 6, 7, 8, 9 o 10 lo abbiano ottenuto senza alcun tipo di agevolazione. E’ meritocratico questo? Certamente no.
Parlando più specificatamente di maturità, vi racconto la mia.
Al liceo, fatto salvo il primo anno, la mia media finale al termine degli scrutini del secondo quadrimestre non è stata mai inferiore al 9. E’ facile intuire che, di conseguenza, alla maturità mi presentai con il massimo dei crediti accumulati durante il triennio. All’epoca il percorso scolastico svolto aveva, nel migliore dei casi, un peso del 25% sul voto finale, e l’esame era articolato in un colloquio orale preceduto da tre prove scritte, tra le quali per difficoltà spiccava la terza prova (altrimenti detto Quizzone), difficoltà certamente dovuta alla sua durata: concedere 6 ore per una prova di italiano, che di certo non è stata concepita per valutare la ricchezza argomentativa di un trattatista o la fine e meditata ricerca stilistica di un poeta, e 2 ore e mezza per elaborare 12 risposte puntuali, sintetiche ma che dovevano dare prova di conoscere in toto l’argomento
oggetto della domanda, poneva in evidenza un aspetto della scuola che ho compreso tardivamente, ossia il cieco distacco dalla realtà scolastica di chi opera per riformarla.
Ottenuto il massimo dei voti alle prove scritte, sostenni un ottimo orale. Morale della favola: studenti che avevano sempre mantenuto la media del 7 ricevettero voti che oscillavano tra l’85 e il 95 per il semplice fatto di aver studiato maggiormente in vista dell’esame. Alcuni studenti che erano riusciti a ottenere un risultato compreso tra 95 e 99, premiati con i famosi punti bonus (punti che alla fine colmarono quel già piccolo gap tra chi da sempre si impegna e chi è uno studente dell’ultima ora), si diplomarono con 100, quanto me. L’attribuzione della lode, infatti, poteva essere pregiudicata anche dal parere sfavorevole di un singolo componente della commissione. Era meritocratico questo? Assolutamente no.
E a chi sostiene che con la DAD si perda moltissimo tempo e non si riesca a completare il programma, voglio dire invece che non è questa la causa dei loro mali. In primo luogo di tempo se ne perdeva anche in presenza. Tra assenze per malattia dei docenti (che essendo spesso di breve durata non venivano colmate da supplenze esterne), vari eventi a cadenza settimanale (talvolta anche di dubbio interesse formativo per uno studente che, in ogni caso, se realmente mosso da curiosità, avrebbe potuto recarsi a scuola nelle ore pomeridiane, anzichè sbadigliare o parlare col compagno a fianco nelle ore curriculari), lezioni intercalate da racconti di vita dell’insegnante (che contribuivano ad arrivare al fatidico suono della campanella), non posso dire di aver goduto effettivamente di tutto il tempo di cui avrei potuto disporre.
Secondariamente, la DAD è uno strumento e come tutti gli strumenti necessita di qualcuno che ne faccia uso. In una fascia di età compresa tra i 14 e i 18 anni, può essere sfruttata sapientemente, nella consapevolezza che fare lezione e interrogare online non implicano necessariamente lo stravolgimento del proprio metodo didattico. A seguito dell’avvento degli smartphone avremmo potuto eliminare qualsiasi forma di compito scritto in quanto è manifesto che esistano siti che raccolgono traduzioni delle versioni, app che risolvono limiti e derivate, enciclopedie online che possono essere consultate digitando una semplice parola sulla barra di ricerca. Se l’occasione fa l’uomo ladro, è pur vero che ho conosciuto insegnanti, di ogni età, che sapevano come contrastare i furbi tentativi degli studenti. Questo esempio serve a comprendere che è compito dell’insegnante adattarsi ai tempi e alle circostanze. Di conseguenza gli alunni seguiranno la strada precedentemente battuta dal docente. Ma se il docente perde o non ha quella capacità di muovere le coscienze, di stimolare il senso critico degli alunni, di trovare anche in materie come il greco antico implicazioni attuali, e finisce piuttosto con l’eseguire ordini superiori e condurre le solite spiegazioni e interrogazioni, la sua figura si esaurisce in una professione sterile, nel significato proprio del termine: non genera nulla. E poco importa lo strumento che si utilizza.
A partire dal terzo anno ho notato che l’obiettivo dei professori pareva fosse soltanto quell’esame finale e non di assicurarsi (e assicurarci) che effettivamente avessimo appreso qualcosa, che usciti da quella scuola avremmo ricordato i contenuti della filosofia di Seneca, i fatti e le condizioni che causarono lo scoppio della seconda guerra mondiale, le fasi del pessimismo leopardiano, il mito di Medea, il principio fisico alla base del quale la carrozzeria di un auto o la fusoliera di un aereo sono
considerati ripari sicuri durante un violento temporale accompagnato da fulmini.
Ho volutamente parlato di argomenti che in genere si studiano a fine ciclo ma potrei continuare all’infinito citando letterati, filosofi, eventi storici, meccanismi biologici, operazioni matematiche: tutte nozioni imparate a suo tempo, su cui si viene valutati solo una volta e poi cestinate. Non si richiede all’alunno di fare collegamenti con quello che è avvenuto prima, perché facente parte di un programma già svolto e guai a riprenderlo. Allo studente medio, che spesso studia per una sorta di obbligo dettato dalla pressione esercitata dalla famiglia e dagli insegnanti, e non trova un riscontro pratico in quello che legge o ascolta, la cosa di certo non dispiace.
E cosa resta di quelle informazioni un tempo vomitate alla cattedra? Nulla, nella maggior parte dei casi.
Fin quando la scuola, come un’azienda, avrà come obiettivo la produttività, sfornando a tutti i costi diplomati, e fin tanto che ci saranno professori che penseranno che la massima soddisfazione derivante dall’insegnamento della propria materia sia il voto alto che si staglia sulla pergamena del titolo conseguito dai propri alunni, la scuola non sarà mai scuola.
Concludo chiedendomi e chiedendovi “se questa è Scuola”, parafrasando il titolo della celebre opera memorialistica di un autore che, ovviamente, per mancanza di tempo, non ho avuto occasione di studiare dove avrei dovuto.