Scuola dell’inclusione: inconciliabilità e prospettive. Lettera

Inviato da Nicola Tenerelli – L’affermazione di Ernesto Galli della Loggia – «L’inclusione a scuola è una mera illusione tra studenti normali, alunni con disabilità e ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola in italiano» – sta sollevando molte polemiche poiché, implicitamente, mette in discussione un processo di cambiamento che la scuola italiana ha intrapreso fin dal 1975.
In tale data, la professoressa di Storia e Filosofia Falcucci era presidente della commissione che redasse un documento fondamentale per la storia recente dell’istruzione italiana: quello per l’inclusione scolastica dei ragazzi con disabilità.
Nel 1982 Franca Falcucci, divenuta la prima donna italiana a ricoprire la carica di Ministro della Pubblica Istruzione, intraprese un processo di cambiamento a favore degli studenti problematici che portò alla Legge 517; la norma modificò l’assetto organizzativo della scuola italiana, abolendo le classi speciali e inserendo nelle classi comuni gli alunni disabili. L’alunno disabile veniva integrato nel gruppo classe e a tale scopo si riconobbe la necessità di insegnanti specializzati nel sostegno – solo con la Legge 107/2015 fecero parte integrante dell’organico dell’autonomia -.
Qualche decennio dopo, possiamo con circospezione dare un giudizio su cosa rappresenti la scuola dell’inclusione, evitando magari l’errore che spesso viene commesso dai commentatori.
Quando si parla di scuola occorre scindere i tre piani: relazionale, pedagogico e didattico. Si commenterà che i piani sono fortemente intersecati se non addirittura sincretici ma, dal punto di vista politico, si rivelano tre obbiettivi dalla chiara e definita finalità. L’intervento del docente si identifica in virtù del progetto che incarna la sua azione, inevitabilmente tarata per raggiungere un obbiettivo programmato.
Appare ovvio per gli addetti ai lavori che la scuola inclusiva sia stata mossa verso finalità relazionali di cittadinanza e condivisione, tolleranza e mutualità, che non solo sottraggono energie e tempo-scuola ad altri obbiettivi possibili, ma costringono a ridefinire l’ambiente di lavoro, imponendo il ripensamento del metodo.
La constatazione che si viva in una realtà sociale sempre più competitiva – per esempio, le restrizioni all’accesso per l’iscrizione all’università; oppure le prestazioni sempre più sofisticate che la società chiede ai giovani in termini di competenza – ha posto gli studenti e le loro famiglie in conflitto di interessi rispetto al modello politico di scuola dell’inclusione.
Deve essere chiaro a tutti che il progetto inclusivo non viene messo in discussione dagli intellettuali come Galli della Loggia che, com’è ovvio, si identificano nella volontà di rendere efficiente e armonioso il sistema sociale.
L’evoluzione sociale stessa mette in discussione il progetto politico statuale che si scontra con il progetto di vita dei singoli cittadini, allorquando chiedono alla scuola pubblica efficienza e risultati certi affinché possano perseguire il proprio obbiettivi individuali.
Il paradosso della scuola contemporanea è sostanzialmente questo: doversi indirizzare verso la crescita morale e relazionale dei giovani – l’inclusione fa parte di questo processo – ma nel contempo chiedere agli studenti sempre maggiore competitività, le conoscenze e le competenze, al fine di ritagliarsi un proprio ruolo sociale in termini lavorativi, pena l’esclusione!
Cosa dovrebbe fare un giovane studente di fronte al dilemma, cosa potrebbe mai consigliargli la sua famiglia: frequentare il corso all’affettività per diventare cittadino più consapevole oppure recuperare quel tempo per coltivare i propri singolari e/o utilitaristici interessi?
Se il sistema politico non dovesse rispondere a tali esigenze dei singoli appare inevitabile che si aprano spazi imprenditoriali di formazione privatizzati – realtà scolastiche d’eccellenza – nei quali l’inclusione non sia considerata l’obbiettivo precipuo: assisteremmo a una fuga dei potenziali cervelli sin dalla scuola dell’obbligo.