Ritorno al giudizio sintetico, Novara: “No a scuola ‘tribunale’ che assegnava i 2,5 e i 3. Dobbiamo creare motivazione non mortificazione” [VIDEO INTERVISTA]

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Cambia nuovamente la valutazione scolastica alla scuola primaria, ma cosa comporta questo cambiamento? Ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.

Professor Novara il Ministro dell’Istruzione ha annunciato il ritorno del giudizio sintetico asserendo che facilita la comprensione per le famiglie. Cosa comporta questo cambiamento in ambito di valutazione scolastica?

Il problema non è la comprensione delle famiglie, o per lo meno di una certa parte di famiglie, ma quello di riuscire a restituire agli alunni il senso del loro percorso formativo che non si può sintetizzare in un voto o in un cosiddetto giudizio sintetico. Va ricordato, per chi non lo avesse ancora capito, che la proposta è quella di tornare ai giudizi di “gravemente insufficiente”, “insufficiente”, “sufficiente”, “buono”, “discreto” e “ottimo”, cioè i sei giudizi che sono sei voti un po’ come in tutta Europa.

Cambia poco rispetto al voto numerico, mentre la gestione attuale, risalente al 2020, creava delle valutazioni narrative dove non era prevista una valutazione negativa come “gravemente insufficiente”, in quanto “in via di prima acquisizione”, stiamo parlando sempre della scuola primaria, non è un giudizio negativo sull’alunno, ma è solo la segnalazione che il processo di apprendimento sta organizzandosi in funzione di un’acquisizione più stabile e significativa.

È questo quello che noi vogliamo, non ha senso tornare indietro a quando la scuola era una specie di tribunale con delle votazioni terribili, pensiamo alla scuola secondaria di secondo grado dove c’è ancora oggi l’assegnazione di voti dal 2,5 al 3–, delle nefandezze particolari perché se noi vogliamo creare motivazione non possiamo mortificare gli alunni. Bisogna dire in maniera molto chiara che la valutazione, come dice la parola stessa, è restituire “valore” agli alunni e non toglierlo, per cui è un’operazione sostanzialmente politica per dare fiato ad una determinata, molto limitata, opinione pubblica. Il Ministro parla di genitori che vogliono chiarezza, ma quale sarà il genitore entusiasta di vedere sulla pagella del proprio figlio che è stato valutato come “gravemente insufficiente”, chiedo al Ministro di dirci se ne troverà uno in modo da attenzionarlo per comprendere che tipo di genitori sta immaginando.

Con tutto il rispetto, noi dobbiamo fare le cose giuste e non seguire delle idee che alimentano un certo rancore contro gli studenti, la mollezza o il permessivismo, contro la pedagogia. Una società avanza se c’è una scienza, io sono uno scienziato dell’apprendimento e dell’educazione, se il Ministro non mi ascolta vuol dire che si è rotto qualcosa, è come se un ospedale venisse gestito senza i medici, non è possibile. Ogni istituzione ha la sua scienza di riferimento, le città le costruiscono gli architetti.

Quando si parla di voto spesso si pensa al risultato della singola prestazione e non di un qualcosa inserito all’interno di un progetto educativo. Ci spiega come si progetta una valutazione efficace?

Esatto, è su questo che dobbiamo lavorare, su questo versante stiamo chiedendo un confronto con il Ministro ed il ministero, ovvero su come realizzare una valutazione efficace e non una valutazione archeologica, una valutazione del passato di una presunta chiarezza. A tal proposito mi chiedo cosa si voglia dire quando si parla di chiarezza, invece bisogna fare la cosa giusta per i nostri alunni e le loro famiglie. Nella mia metodologia, della quale ho parlato molto su Orizzonte Scuola e vi ringrazio per l’attenzione, parlo di un criterio molto semplice, ovvero se vogliamo continuare pedissequamente, ossessivamente, a valutare gli errori, gli sbagli, o se vogliamo finalmente cambiare e porci dalla parte di una valutazione che come propongo, e non sono il solo, valuti i progressi, i miglioramenti, e non gli errori.

Se noi creiamo il panico agli alunni sulla loro possibilità di sbagliare, di fare errori, il ragazzo va a scuola terrorizzato, la paura di sbagliare diventa un problema maggiore dello sbaglio stesso, come si fa ad imparare senza errori, senza sbagliare. Quello che invece propongo è di guardare i punti di partenza di ogni alunno con una prova d’opera iniziale, all’inizio dell’anno scolastico, e su questa base valutare poi i suoi progressi, perché altrimenti potrebbe capitare che se un alunno è particolarmente dotato, è plusdotato, ed ha raggiunto l’obiettivo scolastico prima dei suoi compagni, a quel punto non deve fare più niente? Invece anche lui deve continuare nel suo percorso di crescita, deve andare avanti e non aspettare che gli altri lo raggiungano, è un problema molto serio, da questo punto di vista la questione è molto seria. Così anche per quanto riguarda l’alunno con disabilità o con un DSA, non dobbiamo mettergli degli obiettivi irraggiungibili, ma guardare sempre i suoi progressi e valutarli. Ecco che così facendo riusciremo a trovare l’incoraggiamento e la motivazione ed ecco che la scuola diventa una comunità di apprendimento accogliente che gode della crescita dei propri alunni.

Il prossimo 20 aprile il vostro centro, il CPP, ha organizzato un convegno nazionale dal titolo “La scuola non è una gara”. Perché avete scelto proprio questo titolo e cosa vi prefiggete?

Il CPP è l’organizzazione pedagogica con più storia in Italia, forse anche una delle più importanti e prestigiose, che opera nel settore da 35 anni; dal 2017 organizziamo ogni anno un convegno nazionale di un giorno, con mille persone, che è un’esperienza, non è semplicemente ascoltare degli accademici, ma è vivere qualcosa di intenso dove si trovano tante situazioni. Queste esperienze che prima abbiamo realizzato su Milano e che da dopo il Covid stiamo realizzando a Piacenza, lasciano un segno, ricreano un desiderio di educare, di fare scuola, perché è meraviglioso prendersi cura delle nuove generazioni, assumere una responsabilità creativa verso di loro e non solo continuare a condannarli, a dirgli cosa non vada, ma sapere costruire con loro un futuro, una visione. La visione che proponiamo è quella di una scuola che si fa carico degli alunni come soggetti attivi, come protagonisti, dove l’insegnante è un regista, non è quello che fa gli “spiegoni”, non è quello del ciclo lezione-studio-interrogazione.

È necessaria una scuola dove i ragazzi lavorano e vivono esperienze, dove tra di loro continuino a costruire degli spazi di condivisione, dove possono apprendere attraverso l’imitazione reciproca, dove si va anche fuori e il territorio diventa a sua volta una scuola, non ci si inchioda sulla sedia di un banco su un pavimento di un’aula, ma si scopre che la città dove si vive ha tantissime situazioni stimolo, che anche la natura che è attorno alla scuola offre occasioni ricchissime. Ecco che allora la nostra proposta di “La scuola non è una gara” va nel senso che non andiamo a scuola per vincere qualcosa contro gli altri, come nello sport, ma vincere qualcosa per noi stessi; ogni alunno vince per sé, per costruire il proprio futuro, per imparare qualcosa attraverso un metodo che è quello della grande tradizione pedagogica, abbiamo le spalle larghe a cominciare da Maria Montessori, Mario Lodi, don Milani, Gianni Rodari, Danilo Dolci, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, ma sono anche i cento anni dalla nascita di Alberto Manzi.

Ci rendiamo conto che straordinari personaggi abbiamo avuto? Non possiamo limitarci alla scuola dove si va a ripetere pedissequamente, come un pappagallo, delle nozioni più o meno utili, l’apprendimento è applicazione, come ci ricordano questi giganti, e solo quando sai applicare, e non semplicemente ripetere, puoi affermare di avere imparato.

Un’ultima domanda. Lei ha affermato che “ciascuno di noi non è semplicemente il risultato di una mistura genetica e psicologica, ma anche di una serie di comportamenti educativi”, ci spiega questo concetto?

È il tema del mio ultimo libro “Non sarò la tua copia”, ossia che esiste una sorta di idiosincrasia, o di alienazione, che ciascuno di noi vive rispetto ad un fatto, una realtà, assolutamente prioritaria rispetto a tutto ed è l’educazione ricevuta. Noi siamo l’educazione ricevuta, così come i nutrizionisti ci dicono che siamo quello che mangiamo, io dico che siamo quello che ci hanno educato, perché questo ci ha costruito fin dalla nascita. I nostri genitori hanno dovuto prendere tante decisioni educative, ad esempio il ciuccio, potevano dartelo come anche no, e questo anche in relazione a tradizioni culturali antropologiche del luogo dove vivevano.

Se una persona ha il nome del proprio nonno è perché c’è una tradizione che porta il genitore, appunto, a dare al proprio figlio il nome dei suoi antenati, ma questo ci dice tanto sulla nostra educazione. Allora la consapevolezza che noi riceviamo questo corpus educativo vuol dire che ci deve essere, e questo è l’aiuto che do nel mio libro, anche la consapevolezza che questa è roba degli altri, perché tu la tua strada te la devi fare, la tua educazione te la devi costruire, non puoi vivere semplicemente nel copione educativo dei tuoi genitori in maniera naif, senza consapevolezza, senza avere un tuo pensiero.

È ora di prenderci in mano la nostra vita partendo dall’educazione ricevuta per decidere cosa ci serve e cosa no, cosa ci aggrada e cosa vogliamo noi e non i tuoi genitori. Loro hanno fatto quello che hanno potuto, per carità, ci hanno trasmesso, anche in maniera inconsapevole, i loro desideri che sono diventati dei copioni educativi che abbiamo assunto senza accorgercene, ecco che arrivati in età adulta è il momento di fare le proprie scelte, di scegliere di fare la propria vita e non quella degli altri. Il libro è anche un libro laboratorio, un’officina dove propongo delle attività per costruire tutti questi passaggi, riconoscerli e andare verso un reale cambiamento, ossia prendere in mano la propria vita, frequentare la scuola che ci piace e non quella che abbiamo scelto in terza media, e poi partire per raggiungere i nostri desideri e non quelli degli altri.

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