Regionalizzazione scuola, Anief: pronti a ricorrere in tribunale. Ecco perché
Comunicato ANIEF – Alcune settimane fa, il Ministro dell’Istruzione ha sottoscritto, a nome del Miur, un accordo che prevede l’introduzione della cultura e della storia veneta valido per l’intera regione. E anche le altre regioni del Nord si apprestano a fare richieste simili, con i contenuti didattici più incentrati su discipline prettamente locali.
Prima di Natale il Consiglio dei Ministri ha definito il percorso cronologico di quello sembra un provvedimento legislativo destinato a compiersi in breve tempo. Secondo l’ufficio legale Anief, è un tentativo incostituzionale. Come lo è il ddl presentato dalla Lega al Senato che introduce il domicilio professionale o ancora il divieto di trasferimento nella mobilità (per almeno 5 anni) del personale neo-assunto nella scuola ed introdotto nel contratto in via di approvazione.
Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief: “Siamo pronti ad impugnare presso la Consulta qualsiasi norma che impedisca al personale della scuola la mobilità lavorativa in tutto il territorio nazionale. La scuola è un bene comune di tutti i cittadini italiani e persino nelle regioni a statuto speciale non si è arrivati a quanto vuole fare l’attuale maggioranza politica. Se davvero si vuole una scuola autonoma, si deve partire da organici differenziati per istituto e non da docenti assunti dalle regioni su risorse diverse da quelle assegnate dallo Stato. Bisogna lottare per incrementare occupazione e livelli di istruzione al Sud e abbassare i tassi di dispersione scolastica, piuttosto che staccare pezzi del Paese dove l’economia è più fiorente. In questo modo, inoltre, si acuirebbe la questione meridionale, mai risolta dopo l’autonomia”.
Prende corpo l’autonomia amministrativa e legislativa su temi importanti come lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e di governo del territorio. Della spinta che stanno producendo alcune regioni del Nord, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, si è parlato anche nell’ultimo Consiglio dei Ministri, durante il quale è stato definito il percorso cronologico di quello che sembra un provvedimento legislativo destinato a compiersi: “abbiamo delineato un percorso. Verso metà gennaio completeremo l’istruttoria sulle varie materie”, ha aggiunto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al termine del CdM. “Ci sarà poi una fase finale nella quale ci saranno le valutazioni sul piano tecnico-giuridico ma anche politico”, ha sottolineato il vecepremier Matteo Salvini, preannunciando anche che il 15 febbraio verrà ratificata la proposta dello Stato.
Anche nel Documento di Economia e Finanza, preludio della manovra economica 2019, è presente, nero su bianco, la volontà di introdurre la cosiddetta “Autonomia differenziata”, sulla falsa riga di ciò che stanno tentando di portare avanti le giunte Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. La volontà è quella di dare attuazione all’articolo 116/3 della nostra Costituzione, che riguarda l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario.
In base a tale norma, è previsto che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Nel corso degli ultimi decenni, qualsiasi tentativo di attuazione di questo dettato è stato sempre fermato in tribunale. Con le sentenze n. 242/2011 della Consulta e della 107/2018 sono state stoppate, ad esempio, le norme della provincia autonoma di Trento, in particolare all’art. 92, c. 2bis, legge 5/2006 sull’inserimento in coda del personale iscritto in graduatorie diverse da quelle provinciali trentine e del “super servizio attribuito” al lavoro svolto nelle scuole trentine o ancora alla precedenza di accesso agli asili nido riservata ai residenti o lavoratori per almeno 15 anni nella regione Veneto.
Anief ricorda che nell’ambito del processo di attribuzione (art. 117) delle competenze relative alle norme generali sull’istruzione (art. 116, lettera n) bisogna tenere conto del rispetto degli articoli 3, 4, 16, 51, 97 della Costituzione, come ribadito dalla stessa Consulta in tema di reclutamento degli insegnanti, residenza professionale e servizi legati ai soli residenti.
Secondo l’ufficio legale del sindacato, pertanto, un tentativo di questo genere è incostituzionale. Come lo è il ddl presentato dalla Lega al Senato che introduce il domicilio professionale o ancora il divieto di trasferimento nella mobilità (per almeno 5 anni) del personale neo-assunto nella scuola ed introdotto nel contratto in via di approvazione: la norma viola, infatti, gli art. 3 sulla parità di trattamento e sull’uguaglianza sostanziale, 4 sulla promozione delle condizioni per la ricerca del lavoro, 16 sulla libera circolazione, 51 e 97 sul merito e il buon andamento della Pubblica Amministrazione.
“La scuola è un bene comune di tutti i cittadini italiani – spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – e persino nelle regioni a statuto speciale non si è arrivati a quanto vuole fare l’attuale maggioranza politica. Per non parlare del fatto che ogni qual volta la provincia autonoma di Trento si è sensibilmente discostata dal sistema nazionale in tema di reclutamento del personale, abbiamo sempre vinto in tribunale e fatto dichiarare la norma per quello che è: palesemente incostituzionale”.
“Se davvero si vuole una scuola autonoma – continua il sindacalista Anief-Cisal – si deve partire da organici differenziati per istituto e non da docenti assunti dalle regioni su risorse diverse da quelle assegnate dallo Stato. Bisogna lottare per incrementare occupazione e livelli di istruzione al Sud e abbassare i tassi di dispersione scolastica, piuttosto che staccare pezzi del Paese dove l’economia è più fiorente. In questo modo, inoltre, si acuirebbe la questione meridionale, mai risolta dopo l’autonomia quando ingenti risorse dello Stato borbonico furono drenate per costruire l’unità nazionale e industrializzare il Nord”.