Regionalizzazione aumenterà competizione tra le scuole. Lettera

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inviato da Stefano Saccinto  – La regionalizzazione è al centro del dibattito attuale per la prosecuzione di un percorso che è iniziato, per il mondo scolastico, ma anche per quello politico, all’alba del millennio, nel 1999, con la concessione dell’autonomia alle realtà scolastiche pubbliche italiane.

L’autonomia è stata ideata e poi promossa per permettere alle scuole di specializzarsi in percorsi caratteristici e liberarsi dai vincoli che spesso rallentavano o impedivano il naturale progresso verso nuove offerte formative e quindi per avviarle sul sentiero della modernizzazione.

Di fatto ha trasformato le istituzioni educative, destinate alla formazione di un popolo critico, attento e preparato alle mutazioni della realtà sociale, in vere e proprie aziende, interessate a fatturare, quantificare il proprio rendimento, con l’annuale ansiosa aspettativa di un improbabile aumento delle iscrizioni, anacronistica e illusoria, data la situazione demografica, e sfornare studenti d’elite in grado di raggiungere risultati d’eccellenza, per portare prestigio alla scuola in cui si sono formati, per poi rinnovare il miraggio di nuove iscrizioni e aumento di fatturato.

La scuola ha subìto un mutamento radicale che ha arrecato effetti positivi apparenti: maggiore attenzione alla qualità della formazione a discapito della qualità dell’educazione; nuove apparecchiature e corsi sempre più specialistici, con un’alienazione sempre maggiore da parte dei ragazzi nei confronti della motivazione allo studio o del rapporto stesso con le discipline e con i nuovi strumenti utilizzati, presentati spesso senza un confronto attivo che potesse consentire loro di prenderne dimestichezza e di imparare a utilizzarli, ma per lo più subendoli come strumenti di un progresso promesso e mai veramente analizzato in prospettiva, insieme ai docenti.

Le vecchie figure dei Presidi, che erano educatori e formatori, in prima linea nel confronto quotidiano, a volte anche duro, con i ragazzi, confronto che assumeva toni politici in occasione di manifestazioni, scioperi o richieste di diritti, si sono trasformate col tempo nelle “controfigure” dei Dirigenti Scolastici, manager che intendono la scuola come una qualsiasi azienda, dove ci si occupa di formazione e miglioramento delle capacità di produzione e che a volte, proprio come i grandi manager, utilizzano la scuola come trampolino di lancio per le proprie carriere, servendosi dei pochi anni a disposizione in un istituto, prima di passare a un altro, per mutarne la forma radicata nella storia, senza considerare le necessità e la conformazione del territorio e le esigenze educative delle famiglie e dei ragazzi, ma creando mutazioni visibili, positive o negative, pur di lasciare un segno, non importa se spesso una ferita, da poter annoverare nei propri curricula, per il passo successivo di carriera.

Quello che si è ignorato negli anni, con questo sistema, è la richiesta sempre più urgente e drammatica proveniente dalle famiglie: l’incapacità della scuola, e ormai delle famiglie stesse, di educare i ragazzi. In scuole in cui i ragazzi possono ottenere le più prestigiose certificazioni internazionali, le migliori esperienze all’estero, le più grandi offerte formative, da spendere anche nel contesto sociale pubblico e privato con l’alternanza scuola/lavoro, i ragazzi sono sempre più incompresi dalle famiglie e dalla scuola stessa, costretti a crescere da soli, perché i loro genitori hanno impegni lavorativi e i loro insegnanti troppo occupati a gestire il nuovo corso, il miglioramento della didattica, la politica concorrenziale, che deve garantire prestigio alla scuola, riservando così sempre meno tempo al dibattito, al dialogo educativo, al confronto sulle dinamiche attuali e sulle trasformazioni sociali in corso.

La regionalizzazione prosegue su questa strada, avviando la scuola pubblica a una privatizzazione, se non di fatto, almeno di forma, isolando le problematiche che un tempo erano comuni e che invece adesso diventeranno d’interesse di alcune scuole e quindi minimizzandole e minando alla base un’idea fondante del liberismo, da cui trae ispirazione lo stesso capitalismo moderno, quello teorizzato dall’economista inglese Adam Smith, il quale, in una società libera, fondata sulla proprietà privata e sul libero mercato, proponeva un controllo del mercato stesso per non perderne le redini e riteneva non privatizzabili soltanto due realtà: quella formativo-educativa e quella sanitaria.

La regionalizzazione farà impazzire ulteriormente il mercato dell’offerta formativa, perché alimenterà una competizione esasperata tra istituti scolastici. Essa vorrebbe promuovere una maggiore intraprendenza per gli insegnanti e i Dirigenti, ma porterà soltanto a una maggiore frenesia e all’idea di portare a casa un risultato a ogni costo, pena il declassamento della scuola in cui si lavora. Tale sistema porterà a creare un divario sempre maggiore tra scuole di serie A e scuole di serie B e a marginalizzare alcune realtà, venendo meno a uno dei principi cardine della scuola stessa: non si lascia nessuno indietro.

Infine, sotto le mentite spoglie del rinnovamento, la regionalizzazione trasformerà in realtà il vecchio sogno della vecchia Lega, quella del Nord, che, per esigenze di voto, ha dovuto rinnovarsi nella Lega per Salvini: il sogno della federalizzazione, totalmente incostituzionale, della Repubblica Italiana. Una volta in cantiere, infatti, questo primo disegno di legge, aprirà la strada a un autonomismo regionale, che trasformerà il Paese in una realtà ancora più parcellizzata e divisa tra Nord e Sud, tra grandi città e periferie, con una distribuzione molto differenziata delle risorse attualmente disponibili per tutti, ma in futuro disponibili soltanto per chi garantirà un ritorno economico, distruggendo definitivamente l’idea di una scuola pubblica, libera da condizionamenti politici o economici e rifugio intoccabile della cultura, della formazione e dell’educazione.

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