“Quest’anno farò leggere l’Odissea integralmente. Meglio un’opera intera piuttosto che tante antologie frammentarie”. INTERVISTA a Stefano Picciano
“Leggere l’Odissea durante tutto l’anno scolastico. Perché quei versi parlano di noi”. E ancora: “Mi torna spesso alla mente una frase del celebre storico dell’arte Ernst Gombrich: Ogni volta che ci poniamo dinanzi a esse, le grandi opere appaiono diverse. Sembrano inesauribili. Ciò che mi fa continuamente tornare all’Odissea è il suo carattere inesauribile: la centesima lettura è più bella della prima, e quando il giorno seguente vi torniamo essa ci parla ancora in modo nuovo. È un approfondimento che non finisce mai”.
Stefano Picciano, insegna Lettere presso l’Istituto Comprensivo 1 di Riccione. Ha 44 anni, è anche musicologo, ricercatore in Storia della musica, è autore di vari libri, scrive sul quotidiano Il Foglio. Soprattutto, è animato da una grande passione per l’educazione: “Il tema della scuola e dell’educazione – ammette – mi ha sempre appassionato”.
Picciano ritiene che la lettura in classe di vari brani delle opere della letteratura classica non sia lo strumento didattico migliore per far comprendere agli studenti la loro grandezza e per farli avvicinare e appassionare alla lettura. Per questo motivo anche quest’anno punterà sulla letteratura omerica e farà leggere integralmente l’Odissea ai suoi alunni. L’idea che lui vuole suggerire, dice lo stesso docente, è che sia meglio “dedicarsi a un’opera intera piuttosto che a tante antologie frammentarie e soprattutto il fatto che in quel poema c’è davvero tutto ciò che serve all’educazione dei ragazzi”.
Del resto l’Odissea tocca e approfondisce tantissimi temi e aspetti che hanno a che fare con l’educazione e con la crescita culturale e umana. Eppure pochi anni orsono, in nome della cancel culture, l’Odissea è stata bandita una scuola del Massachusetts per i temi trattati, Omero sarebbe stato, secondo i fautori di quella purga letteraria, un razzista e un sessista. Ma i temi trattatati dall’Odissea sono l’amore, la gelosia, il tradimento, la morte, le tante vicende di popoli diversi, la guerra, la famiglia, la partenza, il ritorno, l’avventura, la lealtà, il rapporto tra un padre e un figlio, il rapporto tra i genitori e i figli, l’amicizia, la patria, il ruolo della donna, la figura di una moglie che attende il marito in nome dell’Amore.
“In un’epoca di relazioni usa e getta – ha scritto Guendalina Middei, insegnante e scrittrice – vi diranno che Penelope è un modello femminile obsoleto. Perché l’amore che travalica il tempo e lo spazio e che sopravvive perfino alla lontananza è incomprensibile in una società che ha fatto della superficialità e dell’assenza dei legami una moda. Come è diventata una moda in nome del modernismo sputare in faccia alla nostra cultura”.
Avevamo già intervistato Picciano in altre occasioni, in merito alla necessità, che lui avverte, di dedicare tanto tempo in classe al lessico, vista la penuria di parole che caratterizza il bagaglio culturale degli studenti di oggi, e al tema della bellezza: “Uno studente che maturi i fondamenti della percezione estetica, l’amore per la bellezza oppure il rispetto per i tesori della cultura – ci aveva spiegato – difficilmente maltratterà le persone o le cose”- Oggi proviamo a riprendere con lui alcuni passaggi importanti dell’Odissea che più si prestano a catturare l’attenzione, l’interesse e la passione degli adolescenti verso la lettura (integrale) dei classici e delle opere che contano.
“Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto vagò…”. Con quel che segue. Professor Stefano Picciano, partiamo intanto dalla sua scelta. Far leggere integralmente l’Odissea è certamente inusuale. Una sola opera da portare avanti durante tutto il corso dell’anno scolastico. Perché?
“Scegliere una lettura integrale – o quasi – necessariamente comporta l’eliminazione di altri contenuti. Ma poco male, se si pensa che non di rado il programma finisce per essere quella sorta di spezzatino di letteratura che, strappando pagine in qua e in là dal nostro patrimonio letterario – Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?, si sente dire Dante nel Canto XIII dell’Inferno – maltratta le grandi opere senza per questo appassionare gli studenti. Anzi li annoia, perché nessuno può amare un libro di cui ha letto solo una pagina, né può immedesimarsi in personaggi che non ha frequentato”.
Perché proprio l’Odissea?
“Perché quei versi parlano di noi”.
A volte sembra sia meglio dare spazio a una narrativa con tematiche più vicine al nostro tempo…
“Vedo spesso attorno a me la ricerca del nuovo, ma ciò non deve indurci a dimenticare che la tradizione in realtà ci offre tutto ciò di cui abbiamo bisogno per educare i ragazzi. I classici vengono definiti tali perché rappresentano ciò che nell’essere umano è eterno: per questo sono sempre nuovi e attuali. La sistematica frammentarietà proposta da tante antologie mi appare inadeguata e incapace di appassionare gli studenti. Certamente ci sono tante pagine preziose da incontrare, penso a tante novelle del Novecento, alla poesia…, ma affiancarvi un’opera da leggere integralmente funziona, perché lo studente vi si coinvolge, vi si affeziona e, entrando in quel mondo, si lascia da esso cambiare”.
L’idea dunque è quella di privilegiare la qualità rispetto alla quantità. E’ così?
“Non multa, sed multum: perchè non seguire il suggerimento antico? La storia di Ulisse si presta al proposito per il suo carattere ricchissimo e al contempo essenziale. Omero, attraverso l’avventura di un uomo, ci spiega che cosa è l’uomo – anér, non a caso, è la prima parola dell’intero poema: L’uomo cantami, o Musa –, mettendo davanti ai nostri occhi quell’intreccio di nostalgia e desiderio di conoscenza che descrive in modo mirabile l’essere umano. Aspetti apparentemente opposti – il desiderio del ritorno da un lato, dall’altro l’inestirpabile curiositas che lo spinge a esplorare ogni luogo verso cui l’ostilità di Poseidone lo spinge – che convivono strettamente connessi nei dodicimila versi di cui l’Odissea si compone”.
Partiamo dal protagonista, Ulisse.
“Per comprendere la vicinanza di Ulisse ad ogni uomo è decisivo considerare la sua prima comparsa, che si fa attendere addirittura fino al quinto canto: non un prode guerriero colto in atteggiamento valoroso, non un eroe immortalato al vertice di qualche impresa, ma un uomo che piange. La fragilità è il primo elemento che emerge nell’immagine di uno sguardo rivolto alla vasta distesa del mare: Seduto sulla riva, con gli occhi sempre bagnati di lacrime consumava la vita sospirando il ritorno: V, 151-153. Ma ben presto si fa avanti il primo mistero, che in un enigmatico verso del proemio ci annuncia lo scopo del viaggio: per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni. Ai compagni – sembra dirci Omero – basta il ritorno, mentre ciò che c’è in gioco per Ulisse è ben altro: la vita stessa. È significativo il fatto che il termine viaticum significhi ‘ciò che è essenziale’, come se il viaggio non indichi appena uno spostamento da un luogo verso un altro, bensì qualcosa che mette a tema l’essenziale della vita”.
L’avventura del figlio Telemaco è una sorta di storia nella storia. Come potrebbe mai non piacere agli adolescenti?
“I primi quattro libri sono una lettura preziosissima per gli adolescenti. Telemaco aveva pochi mesi quando il padre è partito e ora, pur giunto ad un’età matura, non riesce a contrastare l’arroganza dei pretendenti. Ecco allora il ruolo di Atena, straordinaria presenza materna, che accende in Telemaco la scintilla della responsabilità (e le parole di lei – nota Werner Jaeger – gli dicono invero le stesse cose che la voce del suo cuore gli suggerisce): Non devi più avere i modi di un bimbo, perché ormai non sei tale (I, 296-297). Il dialogo con Atena conduce Telemaco a passare dall’infanzia all’età adulta: cercare il padre per trovare se stesso. Il viaggio a cui Telemaco è spronato, dietro lo scopo ufficiale di cercare notizie del padre, cela in realtà un obiettivo più grande: è la maturazione stessa del giovane racchiusa dietro la grande metafora del prendere il largo nel mare. Questi versi sono ideali per accompagnare i nostri studenti, perché ognuno di loro è nella stessa situazione di Telemaco: deve individuarsi, prendere il largo, trovare se stesso. La scuola, ancor più che insegnare loro tante cose, deve accompagnarli a scoprire chi sono”.
In queste pagine troviamo il tema dell’ospitalità.
“Il tema dell’ospitalità attraversa tutta l’opera e costituisce un altro spunto di riflessione attuale: la capacità di incontrare l’altro. Stupisce vedere la prontezza con cui, nel mondo omerico, il padrone di casa accoglie il viandante, ci pare avventata, irragionevole – il bagno, le vesti, il banchetto e solo infine la domanda sull’identità dell’ospite – finché poi comprendiamo una cosa: il viaggiatore – che necessita di acqua, di vesti pulite, di cibo, di un letto – non è l’unico ad essere bisognoso. Nelle necessità del viandante si riflette il profondo bisogno del padrone di casa, che riconosce anche lui una mancanza – non sono lieto a regnare su questi tesori, dice Menelao – ed è dunque costantemente pronto ad accogliere la novità che arriva alla sua porta. Tutto sta nella disponibilità a incontrare colui che non si conosce. Pensiamo alle relazioni, talvolta non prive di difficoltà, tra i giovani: questi passi ci suggeriscono l’idea che l’altro è una ricchezza, che merita la nostra attenzione e il nostro rispetto”.
C’è l’ospitalità, ma c’è anche il suo contrario.
“È ciò che accade sull’isola del Ciclope Polifemo, in uno degli episodi più celebri: qui abbiamo l’opposto simmetrico dell’ospitalità, l’arroganza e la hybris di chi basta a se stesso e non merita alcun incontro con l’altro. Non a caso Polifemo, all’atto di domandare il nome del suo prigioniero, sente rispondere che Nessuno è di fronte a lui. La perdita della assonanza in greco – Odysseus, Outis – che in traduzione non percepiamo non ci impedisce di cogliere l’efficacia dell’espediente di Odisseo quando gli altri ciclopi, interrogando Polifemo su chi gli facesse del male, sentono rispondere: Nessuno, amici, mi uccide ingannandomi (IX, 408). È la celebrazione dell’astuzia di Ulisse che pure, ripartendo, vuole svelare la sua identità. Più volte, nel corso dell’opera, Odisseo rischia di perdere la sua identità, dimenticando la sua missione – cioè di diventare davvero quel Nessuno – ma poi la sua nostalgia torna ad imporsi, come vediamo nelle diverse scene in cui Ulisse piange: l’uomo antico non ha paura di piangere, le lacrime di Ulisse sono il segno dell’ampiezza del suo desiderio. Anzi, saranno proprio l’occasione del lungo racconto ai Feaci che costituisce il cuore del poema. Questo è significativo: non bisogna temere la fragilità, perché proprio essa è l’occasione della ‘narrazione’ di sé, dell’emergere di sé”.
Quali sono, secondo il suo parere, gli aspetti più rilevanti della personalità di Ulisse? Quali quelli che potrebbero essere di insegnamento ai più giovani?
“Certamente la lealtà verso il proprio desiderio. Ulisse ha ben chiaro che non può tradire, non può rinnegare il desiderio del ritorno, e non lo farà nemmeno davanti alla più allettante tra le possibilità: la proposta che Calipso rivolge all’eroe apre il campo alla manifestazione di quale sia il suo vero desiderio, che non è appagato nemmeno dalla prospettiva dell’immortalità che lei gli offre. A che cosa aspira dunque il cuore di questo anér che rifiuta la possibilità di un tempo senza limiti su una splendida isola in compagnia della ninfa immortale? Le parole di Odisseo, con cui egli sceglie una vita mortale in compagnia di Penelope, risuonano attraverso i secoli come esempio di lealtà verso i propri desideri: So bene anch’io che la saggia Penelope è a te inferiore nell’aspetto, nella figura: lei è mortale, tu immortale e sempre giovane. Ma anche così io desidero e bramo tornare a casa e vedere il dì del ritorno (V, 215-220). Ulisse insegna ai giovani a osservare sé stessi, a saper riconoscere i desideri ingannevoli e cogliere ciò che si desidera davvero”.
Colpiscono decisamente anche le avventure che Ulisse vive con i suoi compagni.
“I viaggi di Ulisse ci offrono una serie di avventure – si pensi ai Canti IX-XII – una più avvincente dell’altra, nelle quali gli studenti normalmente si coinvolgono moltissimo. E lì emerge bene anche il tema della compagnia, dell’amicizia, per esempio quando Ulisse porta via a forza i suoi compagni dalla terra dei Lotofagi, o più tardi nel passaggio davanti a quei mostri chiamate sirene. Egli non vuole sottrarre alla sua sete di conoscenza il loro rinomato, irresistibile canto: sapeva che quell’ingannevole invito sarebbe stato seducente, ma non sapeva che avrebbe tentato di attirarlo proprio facendo leva sul suo desiderio di conoscenza: Qui, presto, vieni, glorioso Odisseo (…). Nessuno mai si allontana di qui (…) se prima non sente (…) dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, conoscendo più cose (XII, 184-188). Legato all’albero maestro Ulisse fa segno ai compagni di slegarlo ed essi non solo non gli obbediscono ma, recuperando altre funi, lo stringono ancora di più”.
Un amico del resto non si deve limitare ad accompagnarti…
“L’amico è certo quello che ti accompagna nel cammino, ma è anche colui che, al momento opportuno, ti ferma. E come non ricordare, poi, in quel tenebroso passaggio nel regno di Ade, l’incontro con la madre?C’è qui una celebrazione della figura materna. Ma volgiti in fretta alla luce, dice lei che, pur tra le ombre dell’Ade, continua ad essergli madre: non è posto per lui, ancora vivo, quel regno oscuro e dolente. Inverte le domande del figlio, mettendo il quesito che la riguarda all’ultimo posto – mentre la causa della sua morte era stata richiesta per prima – senza però nascondere la verità: il rimpianto di te, il tormento per te, l’amore per te la mia vita distrussero, o nobile Odisseo (XI, 202-203). È forse il momento più struggente dell’intero poema: quello in cui il figlio, ascoltate le sue parole, d’impulso si getta verso di lei per abbracciarla. Ma per tre volte, essendo lei solo ombra fuggente, fallisce…”
La fermo un attimo per chiederle: ma gli studenti come reagiscono?
“Raramente ho sperimentato in classe un silenzio come quello che di solito accompagna la lettura di questa pagina e mi piace immaginarlo simile al silenzio che regnava tra i Feaci durante i racconti di Ulisse: credo che nessuno studente, leggendola, esca da scuola uguale a quando era entrato”.
Andiamo avanti e veniamo ai personaggi femminili, che assumono di volta in volta sembianze molto differenti.
“La madre Anticlea, la moglie Penelope, persino una comparsa della bella Elena, e poi Circe, Calipso, la regina Arete, l’anziana nutrice Euriclea: i personaggi femminili rivestono un ruolo fondamentale nel poema che pone davanti al lettore la natura femminile in tutti i suoi possibili volti. Con quel vertice di delicatezza senza eguali che è riposto in Nausicaa, alla quale Ulisse appare naufrago, privo di vesti – e la nudità, come mancanza di ‘copertura’, può rappresentare l’identità ritrovata – che accompagna Ulisse alla reggia del padre per poi uscire di scena e riapparire solo al momento della sua ripartenza. Nausicaa è l’immagine della discrezione, specie quando, durante il cammino verso la dimora dei sovrani, esige che il naufrago la segua a distanza, per non incorrere nelle chiacchiere degli abitanti dell’isola. Lei stessa, tuttavia, appare consapevole della rilevanza del suo ruolo – quando sarai nella tua patria ricordati di me, perché a me per prima devi la vita – che viene subito confermato dall’eroe: Ti invocherò come una dea, ogni giorno, per sempre, perché tu mi hai salvato, o fanciulla (VIII, 461-468)”.
E grande valore, non solo simbolico, assumono la lontananza, la lunghissima attesa di Penelope, la fedeltà di lei.
“Da vent’anni lei lo attende e sembra quasi che la presenza di lui sia ancora più forte ora che è assente. Con infinita pazienza Penelope fa fronte all’arroganza dei pretendenti i quali sanno che la regina dovrà scegliere uno di loro non appena avrà completato il suo lavoro al telaio. Quanta sicurezza – osserva qui Jaeger – nel contegno della stessa Penelope, così sola e abbandonata, di fronte allo sciame dei pretendenti che tumultuano protervi. La regina di Itaca diviene simbolo di quella lontananza che ognuno misteriosamente avverte nei confronti delle persone più prossime. La dolorosa lontananza tra Odisseo e Penelope diviene archetipo della distanza incolmabile che accompagna anche i rapporti più familiari e proprio in questa dinamica accade quello strano fenomeno per cui, proprio nella distanza, l’altro diviene ancora più presente. L’identità stessa di Penelope non è altro che attesa di Ulisse, come il peregrinare di lui è colmo della presenza della donna. È una ferita incancellabile, come la cicatrice che Odisseo porta su una gamba. Ed è significativo che il riconoscimento dell’eroe avvenga, nel finale dell’opera, non per la sua forza, bensì per una ferita: bisogno, mancanza, nostalgia sono elementi che definiscono l’identità dell’uomo”.
La vicenda del letto, nel finale dell’opera, è uno dei passi più noti del poema. Qui c’è davvero tanto su cui far riflettere i ragazzi.
“Per Penelope, infatti, il segno non sarà la ferita, ma il letto. Un letto che non può essere spostato – come astutamente richiesto dalla regina per mettere alla prova l’uomo – perché piantato in un tronco d’ulivo saldamente radicato alla terra: si noti che un tronco d’ulivo, albero sacro ad Atena, è lo strumento della vittoria su Polifemo, così come un ulivo è l’albero presso cui i feaci lasceranno l’eroe addormentato e ancora un ulivo è il letto nuziale di Ulisse, origine e meta dei suoi viaggi. Quello dei due sposi è un letto solido, fermo, come la pazienza di Penelope e come la determinazione di Ulisse. Saldo come il legame che li unisce e, pur nella lontananza, li ha accompagnati. È il segno dell’agnizione definitiva: Ora che mi hai descritto in modo chiaro il nostro letto (…) hai convinto il mio cuore (XXIII, 225-230). Colui che era stato Nessuno viene ora riconosciuto e, avendo obbedito alla propria nostalgia, riacquista la sua identità”.
Il tema del ritorno è altrettanto evocativo e avvincente. Ma c’è un colpo di scena, alla fine dell’opera, che sorprende il lettore.
“Finalmente, si direbbe, il ritorno. Eppure c’è altro, se il lettore ha colto la profezia svelata dall’indovino Tiresia: è il più grande mistero dell’opera, quello per cui, dopo dieci anni di viaggi e avventure e nostalgia, sconfitta la tracotanza dei pretendenti arroganti e superbi, Ulisse dovrà ripartire. Tutto scaturisce forse – scrive Maria Grazia Ciani – da una piccola crepa dell’Odissea, la profezia di Tiresia che accenna a un secondo viaggio (…). Proprio di qui nasce l’idea di una infinita erranza di Ulisse che abbandona Itaca in cerca di altre avventure. È certamente uno dei passi più misteriosi: con un coup de théâtre finisce l’Odissea”.
Che cosa rappresenta secondo lei, anche sul piano pedagogico, questo strano finale dell’opera?
“C’è una grande varietà di letture di questo passo, che ha generato molteplici sviluppi letterari. A me piace interpretarlo come un segno che allude a un desiderio sconfinato come il firmamento – non a caso gli antichi, nel coniare la parola de-siderio, vi posero dentro sidera, cioè le stelle – svelando – e torniamo ancora a un tema decisivo per la crescita dei giovani – la natura di una nostalgia che nemmeno il ritorno a casa può appagare. Potrebbe essere inteso come la somma rappresentazione del desiderio dell’uomo, dei limiti inscrivibili del suo animo, della sua costante nostalgia. Ed è lo spunto che darà vita alla meravigliosa pagina dantesca in cui la compagna picciola guidata da Ulisse compie il suo folle volo al di là delle colonne d’Ercole: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza: e qui siamo all’Inferno (If. XXVI, 119-120). Potremmo allora riprendere il primo verso: Narrami l’uomo, o Musa. Ma raccontandomi la storia di un uomo, mostrami che cosa è l’uomo. Così che possa comprenderlo o, quanto meno, indagarne il mistero”.