Quanto programma abbiamo svolto? Quanti voti abbiamo messo? Quante interrogazioni? Come superare la regola del “quanto” a scuola. Intervista al docente Mimmo Aprile

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La regola del “quanto” impera nelle nostre scuole come nelle nostre famiglie. Ed è senza limite alcuno. Per esempio, QUANTA storia bisognerebbe studiare per essere davvero capaci di non essere fuori contesto e fuori dal mondo? QUANTA filosofia occorre mandar giù per esser certi di non equivocare e, invece, comprendere il senso di una frase o di un pensiero? Poi c’è chi crede che elaborare serie storiche mediante un software sia demandare tutto alla macchina…o che nemmeno riesca a capire che la cooperazione interdisciplinare non significa che io possa parlare di filosofia senza conoscerla (o, peggio, googlando)…Beh, non ci possiamo fare nulla.

Nessuna conoscenza disciplinare – scrive Mimmo Aprile – ci salverà mai dalla ignorante sapienza. Come operare senza “quanto”? Di  che scuola abbiamo bisogno. Ne parliamo con Mimmo Aprile, leccese, una laurea in Ingegneria Informatica, doppio Master Universitario (in Ingegneria Gestionale e Programmazione comunitaria e sviluppo territoriale), PhD in “Sistemi Avanzati di Produzione” non sono serviti a tenerlo lontano “dalla scuola, dagli studenti, dal sacro fuoco della didattica”.

Insegna Informatica dal 2001, attualmente presso il Liceo Scientifico “Fermi-Monticelli” – European High School di Brindisi.

Professore, possiamo dire che stiamo vivendo nella società del “quanto”?

«In realtà dovremmo essere nella “società della conoscenza”. Abbiamo a disposizione (e, spesso, accesso) a una gran mole di dati. Il che non sarebbe un male, anzi! Il problema però è che questa Infosfera (per citare il Prof. Luciano Floridi) facciamo fatica a governarla facendola diventare infodemia, ossia un abnorme flusso di informazioni che genera quello che in comunicazioni elettriche si chiama “rumore” e determina distorsione di informazione, perché non abbiamo (ancora) accettato la sfida di essere onlife (sempre citando Floridi) e di far parte di un mondo in trasformazione. In sintesi, non abbiamo capito che il dato è un fatto oggettivo ma non autoconsistente, spesso esprimibile con un numero (quantitativo, dunque), mentre una valutazione è una analisi ragionata dei dati. E quando dico “ragionata” intendo che bisognerebbe avere gli strumenti, anche e soprattutto cognitivi, per discernere e capire cosa è importante e cosa possiamo, invece, trascurare (il “rumore”, appunto). Per fare una valutazione, non è mica detto che “più dati ho, meglio è”. Dipende dalla qualità dei dati, dall’obiettivo dell’analisi. Se applico lo stesso metodo in contesti diversi potrei ottenere risultati sbagliati, come ad esempio ritenere che l’interpolazione lineare sia sempre l’unico metodo previsionale: e se i dati sono sparsi? Che errore di stima commettiamo (grande, ovviamente)? A scuola impera la descrizione della classe suddividendo i ragazzi in “fasce di livello” che, guarda caso, sono sempre 3-4. Ma così otteniamo sempre una “gaussiana”. Però poi sappiamo bene che la classe 1X è diversa dalla 1Y, perché son diversi i ragazzi, ciascuno di loro. Noi pretendiamo di catalogarli in uno schema preconfezionato».

Ma non si era detto che la qualità era meglio della quantità?

«Ah beh, questo lo sentivo dire sin da piccolo. Dai miei genitori. Perfino dai miei professori (almeno alcuni). Ma essendo in un contesto che tende a quantificare ogni cosa (il numero di followers, il dato auditel, le statistiche sportive, il numero di elettori) si finisce, anche inconsciamente, per pensare che “più si ha, meglio è”. Può sembrare giusto ma proviamo a riflettere. Ad esempio: quando andiamo in un ristorante, ci accontentiamo di avere portate quantitativamente sostanziose o pretendiamo di avere qualità, magari anche a discapito di un po’ di quantità?; quando andiamo da un medico, ci accontentiamo di uscir fuori con i risultati numerici delle analisi e un numero di ricette mediche di prescrizione di medicinali/esami, oppure ci interessa una diagnosi (qualitativa) fatta bene?; quando facciamo la spesa in un supermercato, ci accontentiamo del prodotto a bassissimo costo o cerchiamo qualcosa che abbia una maggior qualità, magari comprando quantitativi inferiori?; quando andiamo allo stadio a vedere la partita, ci accontentiamo di aver avuto il possesso palla dalla nostra o, oltre a vincere, vogliamo divertirci e dire “abbiamo giocato bene”? E potremmo continuare all’infinito, con vari esempi. Quindi, in sintesi, non credo ci sia un “meglio” ma un maggior equilibrio non guasterebbe».

Lei scrive “La regola del “QUANTO” è come la mamma (o il papà, o la nonna, o il nonno…insomma ci siamo capiti…) che ti chiede “Hai mangiato?”. “Si”. “Non importa, mangia ancora!”. “Ma io sono sazio, prima digerisco questo!”. “Non importa, mangia!”. “Ma quello che ho mangiato mi basta, se continuo non riesco nemmeno a muovermi!”. “E tu non muoverti! Mangia!” È così, professore?

«Questa cosa mi fa sorridere ancora, dopo averla scritta. Si, è così. È un retaggio culturale difficile da scalfire, soprattutto al Sud (ed io sono orgogliosamente “terrone”, senza alcuna offesa), dove la ruralità del dopoguerra significava, spesso, vivere in condizioni disagiate, rendendo la cena o il pranzo una sorta di “miracolo quotidiano” (penso a mio nonno che a tavola, a fine pasto, esclamava “ed anche oggi abbiamo mangiato!”). Il problema è che anche questa eredità la abbiamo amplificata: quando prendo i miei figli da scuola, la prima cosa che guardiamo noi genitori è il foglio su cui c’è scritto cosa e quanto hanno mangiato! E, diventati più grandi, prendendoli da scuola chiediamo “che cosa hai fatto a scuola? Sei stato interrogato? Hai fatto compito? E QUANTO hai preso?” Questo, di riflesso, ce lo portiamo anche nella vita di tutti i giorni, in quello che facciamo, qualsiasi cosa sia».

Cosa accade nelle nostre scuole? Quanto programma abbiamo svolto? Quante pagine dobbiamo lasciare? Quanti voti abbiamo messo? Quante interrogazioni hanno i nostri alunni? Quanto di qua e quanto di là… è così?

«Fuor di metafora dell’alimentazione, è la realtà del QUANTO. Dopo oltre 20 anni di Legge sull’autonomia, facciamo fatica a pensare in termini diversi dal “programma”. I decreti sulle indicazioni nazionali per il curricolo, in più punti, esplicitano alcuni concetti: il “programma ministeriale” non esiste più (“cataloghi onnicomprensivi ed enciclopedici” li bollano, in un certo senso, i decreti stessi), al massimo ci sono alcuni “nuclei fondanti ed imprescindibili” attorno ai quali i docenti, esercitando la libertà di insegnamento, devono “progettare percorsi scolastici innovativi e di qualità, senza imposizioni di metodi o di ricette didattiche” (testuale); ciò che importa non è il contenuto, la “procedura” ma il “successo educativo”. Questo significa andare a briglia sciolta? No, al contrario, significa avere la libertà di progettare percorsi innovativi, anche sul piano metodologico, individuando i contenuti adeguati allo sviluppo delle competenze. Nella mia scuola abbiamo inserito nelle progettazioni dipartimentali le competenze del DigComp 2.2 da sviluppare in relazione ai contenuti della Unità didattiche di Apprendimento (UdA). Ecco, non c’è alcuna dicotomia tra competenze e conoscenze. E’ un falso problema. Ma la progettazione non può partire dal contenuto bensì dalle competenze da sviluppare attorno ai contenuti che, in base anche alla metodologia didattica, verranno trattati. E, allora, se l’obiettivo di competenza è, per esempio, sviluppare la logica di programmazione, poco importa se lo faccio utilizzando il linguaggio iconico (Scratch), la programmazione dei robot o il Python o il C++. E, come è ovvio, la scelta tra questi non è indipendente dall’indirizzo di studio, dal livello di partenza dei ragazzi e neanche dalla metodologia e ambiente di apprendimento (setting d’aula)».

“I miei alunni non conoscono, ancora, bene, …”; ma è possibile mai che in una società come quella che stiamo vivendo pensiamo di fornire un futuro credibile e in cui scommettere a partire da queste sterili “conoscenze” che nel giro di qualche anno hanno (e abbiamo) già dimenticato?

«Stanislas Dehaene titolare della cattedra di Psicologia cognitiva presso il Collège de France, nel libro “How we learn” si chiede per quale motivo non nasciamo “precablati”, ossia con un cervello che ha già a bordo le conoscenze necessarie alla nostra sopravvivenza. Sarebbe eccezionale, no? Sappiamo già tutto e non abbiamo nulla da imparare.  La risposta è: perché sarebbe impossibile codificarlo nel nostro DNA. Non c’è abbastanza spazio! E lo spiega con dovizia di particolari in termini di codifica (binaria) dell’informazione: il nostro genoma ha una capacità inferiore a 1 GByte. E allora come facciamo a sopravvivere? Perché abbiamo la capacità di interconnettere, grazie ai neuroni. E questo significa adattamento al cambiamento, ossia processo di apprendimento, quindi imparare. Meglio, “imparare ad imparare”.Ora, cerchiamo di essere onesti: di tutto ciò che abbiamo imparato, QUANTO, davvero, ricordiamo? E non parlo solo di domini del sapere che non fanno parte del nostro percorso di specializzazione ma, anche, del nostro particolare. Ai ragazzi dico spesso che non chiederò mai loro di ricordare a memoria questo o quel metodo di una libreria software. Perché non ha senso. Non ha senso nemmeno sapere tutte (ammesso che sia possibile; e non lo è) le librerie software di un dato linguaggio: ciò che mi interessa è la abilità di ricercare la libreria giusta, scegliere il metodo giusto e la competenza nel risolvere un problema. Abbiamo imparato qualcosa? Sicuramente si. Ci servirà in futuro? Non lo so. Ma la competenza (ricerca, scelta, applicazione, soluzione del problema) quello non lo scordi più. Perché attiene al dominio del “saper fare” e “saper essere”».

Possiamo avere, nelle nostre scuole, un buon rapporto con le macchine, con la tecnologia, con la multimedialità? Nella società della velocità i nostri alunni fanno ancora compiti scritti?

«Stefano Moriggi, docente dell’Unimore (Università di Modena e Reggio Emilia), storico e filosofo, nel libro “Connessi (beati coloro che sapranno pensare con le macchine)” afferma che, fin dal pollice opponibile, la tecnologia ha sempre modificato spazi e tempi, in ogni ambito. Fin da Platone e il mito di Teuth, con la scrittura che minaccia l’oralità, dalla stampa di Gutenberg che minaccia la scrittura alla penna biro che rovina la bella calligrafia, sulla tecnologia abbiamo proiettato i giudizi relativi (spesso negativi), dimenticando che ogni tecnologia si porta dietro opportunità e rischi. Cogliere le prime senza affrontare gli altri non è possibile. La tecnologia esiste e va usata, perché la società la usa e la scuola deve essere al centro della società. Sul compito scritto, ho un approccio critico ma “laico”. La scrittura, la carta, sono tecnologie esse stesse, sebbene non siamo più abituati a considerarle tali. E, allora, va benissimo fare i compiti anche cartacei. Certo, questo determina un problema sulla gestione documentale, il workflow, l’osservazione di processo (il compito one shot non racconta la storia che c’è dietro, come lo studente c’è arrivato). Ma alcune cose mi risultano incomprensibili. Racconto un aneddoto. Qualche anno fa, da commissario esterno all’Esame di Stato, ho dovuto correggere i compiti di Informatica la cui traccia era, in sintesi, quella di sviluppare una e-community, costruendo anche il database, lo script lato client e lato server. Nulla di strano ma…in 6 ore? Su carta? Non avrebbe avuto più senso valutare i ragazzi assegnandogli un progetto e facendo loro usare un editor, un ambiente adeguato? Oppure avrei dovuto correggere i punti e virgola saltati nel listato? No, perché se volevo nascere debugger, nascevo software, facendo una battuta. E poi, dai…chiunque abbia scritto due linee di codice sa bene che si commettono una marea di errori sintattici che il compilatore individua e aiuta a correggere in un niente. Questo ha a che fare con la demonizzazione dell’errore e la competenza: non è più bravo chi non sbaglia perché sa tanto ma chi è in grado di correggersi imparando dai propri errori».

Mi può indicare strategie e metodologie per virare questo modo di essere, di fare e di atteggiarsi di certa classe docente che ha puntato sul “quanto” dimenticandosi del tutto dei nostri alunni?

«Non credo che la maggior parte della classe docente si sia dimenticata dei propri alunni. Il problema è che le generazioni cambiano, perché la società cambia e, in questa “società liquida” (per dirla con Bauman) la scuola non può restare ancorata a vecchi cliché. Perché altrimenti, poi, tutto ciò che è innovativo, ossia cambiamento, viene mal sopportato perché ritenuto esogeno rispetto al proprio agire, alla propria missione educativa. Nel gennaio 2021 IPSOS ha realizzato per Save the Children l’indagine “Riscriviamo il futuro”, nella quale gli studenti intervistati si esprimono chiaramente sui propri bisogni più urgenti: il 26% chiede una modalità diversa di fare didattica; inoltre manifestano interesse nei confronti delle attività laboratoriali (svolgere più ore nei laboratori il 16%), nei confronti dei viaggi di studio (14%) e delle uscite didattiche (13%) (IPSOS, Save the Children, I giovani ai tempi del coronavirus, homepage) Esistono strategie e metodologie ben codificate (ad esempio dall’INDIRE, in particolare dal movimento Avanguardie Educative), di cosiddetta “ricerca-azione”, quali il Problem/Inquiry Based Learning, Gamification, Storytelling, didattica collaborativa e laboratoriale che vanno nella direzione della scoperta guidata (l’Inquiry, ad esempio, ha 4 livelli di “autonomia”), dell’apprendimento per problemi, contestualizzato. L’astrazione non è un processo semplice e, soprattutto, non quello da cui partire. Del resto, Cartesio non mi pare abbia parlato di linearità ma di metodo che parte dall’osservazione, procede con l’enumerazione, quindi la formulazione della teoria e, infine, la verifica della teoria stessa. Perché ce ne siamo dimenticati (o, almeno, a volte così sembra)?»

Ed il voto?

«Il voto è quantitativo. E’ una misura. In assoluto non va demonizzato. Il problema è: come lo si considera quel numero? Da cosa deriva? Come ci si arriva? Faccio un esempio, per metafora: se mi sento la febbre, prendo il termometro e misuro. Mettiamo caso che ho 37.5: che faccio? Quel valore mi porta automaticamente, da solo, in modo autoconsistente, a fare una diagnosi medica? Oppure, invece, devo considerare la storia del paziente? Quindi, quella temperatura viene prima o dopo un 36.5 o un 39? Ho patologie pregresse? Sto già prendendo farmaci o no? Sarà (eventualmente) una infezione virale o batterica? Oppure ho solo preso freddo ed è una reazione anticoprale? Tutto ciò attiene al qualitativo, alla valutazione. Che non è una misura. Quindi no, il voto non è chiaro, diretto, autoconsistente. E’ un numero e, da solo, dice bene poco. Come dire che la temperatura è di 10°C. Fa freddo? Dipende. Essendo Gennaio può esser normale a Lecce ma non a Tampere, in Finlandia. E poi c’è un altro problema non trascurabile: il voto genera ansia da prestazione. Non lo dico io ma una indagine OCSE del 2015: il 56% degli studenti e studentesse italiane intervistate ha dichiarato di diventare nervoso nella preparazione di un test (media OCSE 37%); il 70%, nonostante si dichiari preparato, non nasconde l’ansia di fronte alla prova da superare (media OCSE 56%); l’85% è preoccupato di prendere brutti voti (media OCSE 66%). Nella scuola dove insegno, per volontà del Collegio docenti, stiamo sperimentando la valutazione formativa descrittiva, lasciando alla sommativa (al termine delle UdA) la valorizzazione numerica (che può comunque essere espressa anche in una verifica formativa). Per dire che qualcosa stia funzionando ci vogliono dati e valutazione degli stessi (ecco, appunto!) ma dai feedback dei ragazzi la sensazione è di una maggiore distensione e meno attaccamento al numero, più motivazione dal ricevere una descrizione dei punti di forza e di necessità di dove migliorare (e come, ossia di metodo di studio)».

Beh, alla fine, me lo lasci dire: ma quanto dobbiamo attendere per vedere cambiare davvero qualcosa?

«Questo non lo so, davvero. Non ho risposte, le certezze le lascio ad altri. Io mi pongo domande (“non men che saver, dubbiar m’aggrata” scrive Dante nel XI Canto dell’Inferno). Ad esempio: come possiamo preparare i ragazzi alle sfide di una società in rapida evoluzione pretendendo di lasciar fuori dalla scuola alcuni pezzi di questa società? Il cambiamento è possibile ogni giorno, nel nostro agire. Ed è quello che tanti docenti fanno, nelle proprie classi. Poi, però, l’effetto sistema non si ottiene soltanto con una azione dal basso: ci vuole una visione, una idea che diventi condivisa, permeante, diffusa. Qualcuno che mi conosce dice che sono troppo idealista e forse è vero. Ma per cambiare davvero non basta un piano quinquennale ma qualcuno che, da un palco, urli “I have a dream”, ben sapendo che non ci saranno soltanto battiti di mani ad attenderlo bensì difficoltà e ostacoli. Però una cosa la voglio suggerire: quando pensiamo alla scuola, chiediamoci come la vorremmo per i nostri figli (o persone a noi care). Magari ci stupiremo della nostra stessa risposta».

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