Quanto è importante studiare la filosofia nell’era digitale? Ne abbiamo parlato con il professore Nicola Donti. INTERVISTA

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Nell’era digitale quanto è importante studiare la filosofia? Ne abbiamo parlato con il Professor Nicola Donti, Docente di Filosofia del linguaggio e Filosofia della Scienza. Formatore e consulente in comunicazione e crescita personale per aziende pubbliche e private.

Professor Donti, vorrei iniziare da un suo aneddoto nel quale racconta l’incontro con il professore di filosofia all’ultimo anno del liceo che poi l’ha spinta verso gli studi filosofici. Partendo da questo episodio, quanto è importante per uno studente incontrare docenti in grado di motivare?

Direi che è determinante. L’incontro non è mai con una materia, è sempre mediato da una figura, che sia quella del professore o del maestro. Noi abbiamo un debito straordinario in termini di importanza nei confronti delle persone che hanno svolto quella funzione straordinaria di medium. Considero questa funzione un onore, un privilegio, ma anche una responsabilità, perché il sapere in gran parte è, passatemi il termine, morto, nel senso che parliamo di un passato, e il compito del medium è restituirgli la vita, o, se vogliamo, mantenerlo in vita, evitargli la morte attraverso un’operazione di prosecuzione, di tramandare questa funzione.

Per me il docente è il più importante responsabile di questa operazione, perché altrimenti lo potremmo tradurre in un semplice trasmettitore di nozioni, invece non è così, ciò che viene trasmesso è una passione, ammesso che questa ancora nel docente ci sia. Veniamo forse a una delle difficoltà più grandi, quella legata al fatto che non sempre la passione alberga i nostri insegnanti e questo è un peccato, perché se muore la vita della passione in chi la deve trasmettere c’è poco da fare. L’entusiasmo non si insegna, si trasmette ed è determinante questo rapporto allievo-maestro che di fatto si concretizza in gesti di amore, amore per la materia, amore per il sapere, che viene trasmesso in una sorta di magia all’allievo.

Oggi viviamo in una società digitalizzata che offre molte opportunità ma spesso ci limita, basti pensare al dibattito sul digitale che ci limita a scegliere tra quello proposto, come in un menù, anziché decidere, nel senso creativo del termine. In questo contesto quanto è importante studiare la filosofia?

È importantissimo, perché mai come oggi, soprattutto con l’avvento dell’intelligenza artificiale, si ripone il problema di capire, prima che artificiale, cosa è intelligenza e la filosofia sono secoli che si interroga su cosa significhi essere intelligente. Ma il dibattito non è limitato solo la filosofia, coinvolge anche la psicologia e la pedagogia, ed è un tema ancora ampiamente dibattuto.

Noi abbiamo oramai censite più di 50 tipi di intelligenze e quindi non è così facile dire cosa sia intelligente. Infatti questo tema dell’intelligenza artificiale ha molto a che fare con un equivoco nel nome stesso, l’intelligenza artificiale. Quello che oggi è determinante è imparare ancora di più ad utilizzare il pensiero critico, perché in un mondo che accelera e che surroga la funzione della scelta e della ricerca a un apparecchio elettronico, mantenere la guida e il controllo almeno delle proprie scelte e del filtro della conoscenza dovrebbe rimanere in capo all’essere umano e in questo momento io la definirei una vera e propria emergenza.

Basti pensare ai giovani con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, come ad esempio ChatGPT, in cui si illudono di conoscere Sant’Agostino piuttosto che la realtà che li circonda, oltre che la storia o la letteratura, solo perché ne hanno ottenuto un riassunto da ChatGPT.

Ecco, per vincere ancora una volta le illusioni, le facili illusioni della tecnologia che tendono a renderci troppo facile la vita, rimane il baluardo della conoscenza, in particolare del pensiero critico che insegna la filosofia, dove ci ricordiamo che è importante sapere come, quando, dove, con chi, ma soprattutto è importante sapere perché e la filosofia oggi restituisce quella potenza di senso alle nostre vite che mai come in questo mondo virtuale rischia di venire smarrito, soprattutto per le nuove generazioni che nascono immersi in questa “Infosfera”, come la chiama il filosofo della scienza Luciano Floridi che si occupa di etica e di intelligenza artificiale.

L’infosfera è una sfera digitale che ormai pervade tutte le cose e comincia a dettare le regole non solo della nostra identità, ma in particolare le nuove regole ontologiche, ridisegna la nostra conoscenza e quindi il nostro rapporto con il mondo, con noi stessi, in poche parole ridisegna la nostra identità.

Proseguiamo da questa sua ultima affermazione, per gli adolescenti l’identità è importante ed è un tema che lei affronta nei suoi incontri pubblici, ci dice come cambia la visione di sé tra virtuale e reale?

L’identità si costruisce, come oramai sappiamo, dall’incontro con l’alterità. Quando l’alterità è presenza, l’identità si costruisce a partire da una presenza fisica reale e quindi da una dignità che potremmo dire anche corporea. Quando questo incontro non è più mediato attraverso i sensi ma diventa virtuale, le modifiche possono essere significative e quindi, di conseguenza, l’incontro non è più con una realtà, è un incontro-scontro.

Pensiamo a Lévinas e all’importanza che il volto dell’altro riveste per la scoperta di sé, ma addirittura per l’apertura verso la trascendenza, l’epifania del volto la chiamava Lévinas, in questo scontro con l’altro che mi interroga, mi inquieta, e che in qualche modo però mi definisce, cioè mi dà dei contorni, da cui poi parte l’epica e tutto il resto. Che cosa avviene se quella presenza viene sostituita da un’assenza, ovvero da una presenza mediata da uno strumento? Lo dicevamo prima a proposito della conoscenza e a proposito dell’importanza del docente, ovvero che il medium è fondamentale per la percezione della realtà e quindi di sé stessi.

Il medium, diceva Marshall McLuhan, è il messaggio, cioè non esiste un medium che sia neutrale. Noi diciamo che tutto dipende da come usiamo quella tecnologia, ma non è vero, basta usarla perché già questo rapporto ci modifica nella relazione con noi stessi e con il resto del mondo. Le faccio un esempio che porta a Marshall McLuhan a proposito del libro piuttosto che dell’orologio partendo da una domanda, un orologio può cambiare il nostro rapporto con il tempo? Apparentemente no, ma nella sostanza sì, perché cominciamo a pensare il tempo in termini di lancette, minuti, secondi, eccetera; allo stesso modo il libro è una grande conquista, in “La galassia Gutenberg” McLuhan, facendo riferimento alla stampa a caratteri mobili, afferma che il libro ha modificato definitivamente il nostro rapporto con la conoscenza, nel senso che un tempo questa veniva trasmessa per via orale ed era un evento unico ed irripetibile che coinvolgeva l’ascoltatore in un processo multisensoriale non soltanto visivo, ma soprattutto impegnava la sua memoria, mentre con il libro tutto questo non è più necessario, il messaggio si standardizza ma soprattutto non devo fare ricorso alla memoria, perché se mi sfugge qualcosa con il libro posso sempre tornare indietro, il che indubbiamente è un vantaggio. 

Questo per dire che la tecnologia offre dei vantaggi, ci fa capire quando il mondo possa essere più grande, ci porta a conoscenza di cose che prima non sapevamo, quindi è chiaro che non rappresenta solamente un problema, ma come tutti i problemi è anche una risorsa, si può trasformare in una risorsa che però modifica, ci cambia, e lo abbiamo visto con la didattica a distanza quando credevamo di tenere sotto controllo la situazione. 

A tal proposito ricordo la proposta di Galimberti che suggeriva di far ripetere l’anno scolastico ai ragazzi e veniva visto da tutti come un qualcosa di inammissibile. Però adesso capiamo le conseguenze della didattica a distanza, che sicuramente per certe cose può essere utile ma fondamentalmente serve per una banale trasmissione di nozioni, non certo per coinvolgere lo studente in quel processo a 360 gradi che è un apprendimento che può avvenire solo e soltanto in classe, cioè in presenza, perché ci sono delle competenze trasversali che non rientrano in un decalogo o in un elenco di nozioni.

L’esperienza, come ho detto fin dall’inizio, è importante, lei ha fatto riferimento al mio professore di filosofia che per me è stata un’esperienza a 360 gradi che non mi ha dato soltanto nozioni, ma mi ha dato un metodo e soprattutto mi ha dato fame e sete di conoscenza, e questo è possibile farlo se siamo in presenza, nessuna virtualità sarà, almeno per ora, capace di riprodurre questo incontro/scontro con l’alterità di un individuo che però deve essere reale e non virtuale.

Nuove sindromi dilagano, tra cui la più famosa è quella della FOMO (fear of missing out), ed è possibile solo in un mondo virtuale. In un mondo reale non hai la possibilità di porti il problema di essere contemporaneamente in più luoghi perché, a meno che nel frattempo qualcuno non abbia scoperto il dono dell’ubiquità, noi siamo costretti in una dimensione, in un tempo e in uno spazio e questa costrizione alimenta la nostra ricerca, ma anche il nostro desiderio di espansione e di crescita.

Quando siamo in più mondi contemporaneamente perché la virtualità, la tecnologia, polverizza lo spazio e il tempo, come le immagini che avevamo registrato anni fa su Facebook che vengono riattualizzate, porta delle conseguenze per cui il nostro cervello ancora non sappiamo come e se riuscirà a gestirle e che tipo di identità ci restituirà. Quello che vediamo è che il rischio sia un’identità molto fragile ed estremamente vulnerabile, per carità la fragilità è costitutiva dell’essere umano ma lei sa meglio di me come la luce nasce dal buio, il giorno dalla notte e come questa noia che scacciamo come veleno dalla mente dei nostri ragazzi sia in realtà il presupposto per la creatività, questo non sentire un Io ipertrofico, ma ogni tanto costretto, è alla base anche dell’etica.

Quando i confini saltano, in maniera ovviamente virtuale e non reale, ecco che siamo di fronte ad un cambiamento epocale di cui come al solito non abbiamo il governo e come al solito già usiamo tecnologia e frequentiamo virtualità senza sapere quali possano essere le conseguenze di tutto questo.

Oggi essere docenti è sempre più difficile, spesso oberati dalla burocrazia si perde di vista l’obiettivo principale dell’educare. L’ultima indagini PIAAC svolta dall’OCSE sulle competenze cognitive degli adulti ci colloca diversi punti sotto la media. Alla luce di tutto ciò, quali consigli si sente di dare perché si possa passare da istruire ad educare?

Partiamo dal concetto che istruire, secondo me, non è mai stato una prerogativa né della scuola né dell’università, fornire istruzioni lo ha voluto la società, lo ha sempre desiderato la società, ma chi ha insegnato sa perfettamente che se tutto l’insegnamento si riducesse a passare delle istruzioni sarebbe davvero ben poca cosa. Educare significa tirare fuori, educere, ed è scommettere sul fatto che molte delle competenze che andiamo ad evocare nei nostri studenti in realtà in parte siano già presenti, in chi più e in chi meno, è una identità che deve essere scoperta.

Ricordo quello che diceva Michelangelo quando scolpiva, ovvero che lui non imprimeva una forma, ma aiutava a tirarla fuori, il suo scalpello lo aiutava a tirar fuori quella forma da dentro il marmo. L’immagine è un po’ questa e non è un cambiamento di poco conto, perché se imprimiamo, cioè insegniamo, lasciamo il segno, vogliamo fare in modo che addirittura vengano impartite delle istruzioni, il colpo che sferreremo a quello scalpello, l’urto del martello, sarà di un’estrema violenza, ma se sappiamo che dentro quel marmo c’è celata una forma, allora la delicatezza del nostro tocco sarà fondamentale e quindi il tocco dell’insegnante deve presupporre una forma già esistente per essere gentile e rigoroso allo stesso tempo, un buon mix di grazia e rigore. Ma soprattutto ci vuole la passione che non deve venire mai a mancare, ma anche quella deve essere temperata, come dice Galimberti ricordandoci gli antichi greci, deve essere “Katà Métron”, secondo la giusta misura, perché se esageriamo la “hybris”, la tracotanza, è sempre dietro l’angolo.

Purtroppo lo abbiamo visto tra gli insegnanti ma lo si è visto anche tra gli scienziati. Oggi vanno molto di moda i divulgatori, a volte anch’io sono stato associato a questa figura, che divulgano la scienza, la fisica, la matematica, la filosofia, le materie letterarie e via dicendo, e nel periodo del Covid è avvenuta la stessa cosa per quanto riguardava i virologi ed abbiamo commesso un errore di cui dovremmo fare tesoro, ovvero mai anteporre se stessi alla materia, la materia deve essere il valore più importante e non noi, perché altrimenti c’è questa sorta di protagonismo, che abbiamo visto anche tra i virologi che andavano in televisione, che finisce per prevalere sull’informazione e questo non deve avvenire.

Noi dobbiamo essere medium di qualcosa di più grande, ma per essere dei buoni medium sicuramente dobbiamo fare ricorso alla passione, mai troppo perché sennò diventa hybris, diventa narcisismo, altrimenti ci si autocompiace della propria immagine e della propria retorica, dimenticando che siamo al servizio di qualcosa di più grande, cioè la materia che stiamo insegnando che è fatta di uomini e donne che hanno spesso dato persino la vita affinché quella materia diventasse nobile ed importante.

Quello dell’insegnante è un servizio e deve essere al servizio non solo della materia ma anche dei ragazzi, perché sono conoscenze così profonde che, mi verrebbe da dire, aiutano a far raggiungere i ragazzi quello che è stato scritto nell’articolo 3 comma 2 della Costituzione italiana, cioè che è compito della Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli di natura economica e sociale per il raggiungimento della piena e completa persona umana.

Questa immagine del raggiungimento della persona umana è forse l’obiettivo più importante di tutta la scuola, almeno di una scuola costituzionale. Alla fine insegniamo le nostre materie, alla fine educhiamo ad una materia, ma soprattutto dovremmo permettere agli studenti di raggiungere il bene più prezioso che è la conoscenza di sé stessi, perché il fine è rimasto, secondo me, sempre lo stesso, conosci te stesso per diventare quello che sei.

Un’ultima domanda. Lei in diverse occasioni ha ripreso un tema a cui tengo molto, ovvero quella della frammentazione della conoscenza in materie. Riprendendo la visione di Edgar Morin, quanto è importante il dialogo tra docenti e tra materie?

Importantissimo, diceva Socrate che solo nel dialogo si incontra la verità, questo per me è ancora vero, noi abbiamo bisogno di dialoghi. Il problema è che la nostra società ci sta abituando ai dibattiti e il dibattito ha come obiettivo non la verità ma l’affermazione della mia verità a discapito di quella dell’altro. Noi abbiamo come compito fondamentale quello di essere testimoni di dialogo tra le materie e chi coltiva la propria disciplina con passione in qualche modo quando incontra i limiti di quella materia ne è felice, perché gli dà l’autorizzazione a sconfinare nell’altra disciplina.

Però la deve coltivare con passione, se la coltiva con fanatismo il paradosso è che non ne vedrà mai il limite ed è un delirio narcisista, per cui molti docenti sono chiusi nell’autoreferenzialità di un pensiero che si è frammentato, come ha detto lei. Noi abbiamo più di 8000 specializzazioni di cui 67 solo in medicina e il problema è che stiamo perdendo di vista l’insieme. In realtà, diceva Gregory Bateson, bisognerebbe imparare ad abitare gli interstizi, le terre di confine, e fare di questi sconfinamenti una regola ed un esempio per i nostri studenti nel dialogo, così si incontra la verità.

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