Quando i genitori fanno gli insegnanti (e sbagliano ruolo). Lettera

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Inviata da Simone Billeci – Di fronte all’allarme lanciato dallo psichiatra e sociologo Paolo Crepet circa i “genitori invadenti”, parole riportate recentemente dal Corriere della Sera e riprese da Orizzonte Scuola, sentiamo la necessità di aprire una riflessione ampia, pedagogicamente fondata, su questo fenomeno, andando oltre la facile demonizzazione del comportamento genitoriale per coglierne le radici profonde.

È innegabile che oggi assistiamo a un incremento della presenza talvolta inopportuna e disfunzionale di madri e padri nella vita scolastica dei figli. Tuttavia, per comprendere fino in fondo la natura di questa invadenza, occorre leggere tali comportamenti non solo come interferenze, ma anche e soprattutto come sintomi. Sintomi, appunto, di un malessere più profondo, di una frattura tra la dimensione educativa familiare e quella scolastica, spesso generata da dinamiche di assenza quotidiana e, più in generale, da un senso di colpa sommerso che accompagna molti genitori della contemporaneità. Viviamo in un’epoca segnata da un forte disorientamento educativo. Il modello genitoriale tradizionale si è progressivamente sgretolato, ma in molti casi non è stato sostituito da un nuovo paradigma capace di integrare le trasformazioni sociali, culturali e lavorative. I genitori di oggi — spesso oberati da impegni professionali, immersi in dinamiche esistenziali frenetiche o smarriti nella complessità del mondo contemporaneo — si trovano frequentemente a sperimentare una vera e propria assenza educativa.

Non si tratta necessariamente di un’assenza fisica — i genitori, infatti, possono anche essere presenti materialmente in casa — ma di un’assenza qualitativa: una carenza di ascolto autentico, di sguardi condivisi, di tempo dedicato all’educazione dei figli nella sua accezione più profonda, quella fatta di dialogo, confronto, crescita comune. Questa assenza si trasforma, spesso inconsapevolmente, in senso di colpa. Ed è proprio questo senso di colpa che si traduce in un comportamento compensatorio: il tentativo, maldestro e disfunzionale, di recuperare tale mancanza proprio laddove i genitori percepiscono un vuoto da colmare, ossia nella scuola. La scuola diventa così il teatro su cui riversare ansie, aspettative, frustrazioni, desiderio di controllo. Non si tratta dunque solo di “invadenza”, quanto piuttosto di proiezione: la scuola è percepita come l’ultima possibilità di riscrivere ciò che nella relazione educativa quotidiana non si è riusciti a costruire. Questa dinamica nasce anche da un equivoco diffuso: l’idea, profondamente errata, che sia possibile delegare l’educazione. Il sistema scolastico ha il compito fondamentale di istruire, di offrire competenze culturali, di stimolare pensiero critico e autonomia; ma l’educazione affettiva, etica, relazionale — quella che forma la persona prima ancora dello studente — è e rimane primariamente compito della famiglia.

Quando questa consapevolezza viene meno, la scuola viene caricata di funzioni che non le competono: non solo deve insegnare, ma deve anche riparare le fratture familiari, sopperire alla povertà educativa relazionale, compensare l’assenza dei genitori. Da qui nasce quel meccanismo per cui il genitore, in modo paradossale, si fa presente dove non dovrebbe (nelle dinamiche didattiche, nelle valutazioni, nei colloqui perentori con gli insegnanti) e assente dove dovrebbe (nella relazione quotidiana con il proprio figlio, nell’accompagnamento paziente e costante dei suoi processi di crescita). L’invadenza genitoriale è spesso un tentativo disperato di recuperare il controllo su un processo educativo ormai percepito come sfuggente. Dietro l’interferenza, spesso autoritaria o lamentosa, si cela il timore di aver “perso” il proprio figlio, o almeno di aver perso il proprio ruolo nella sua crescita. È un gesto dettato dall’ansia: un’ansia sociale, certo, ma anche esistenziale. L’insegnante viene così vissuto non più come alleato educativo, ma come ostacolo o nemico, come figura su cui proiettare frustrazioni e paure.

Questa dinamica genera inevitabilmente conflitto e allontana la possibilità di costruire una vera alleanza educativa, quella che, pedagogicamente parlando, rappresenta l’unica via efficace per accompagnare i giovani nel loro percorso di crescita. Piuttosto che fermarsi al giudizio superficiale sul comportamento “invadente”, è urgente proporre percorsi di consapevolezza e di formazione per i genitori stessi. La scuola non deve solo difendersi dalle ingerenze, ma ha anche il compito di educare gli adulti a educare. È necessario costruire spazi di confronto reale, occasioni di dialogo in cui la famiglia possa riscoprire il proprio ruolo senza sentirsi giudicata, ma accompagnata verso un’autentica corresponsabilità educativa.

Pedagogicamente parlando, occorre passare da una logica verticale (il genitore che pretende o il docente che impone) a una logica orizzontale, dialogica, cooperativa. Dove non si tratta più di “chi ha ragione”, ma di come accompagnare insieme, pur da ruoli diversi, lo sviluppo integrale del bambino e dell’adolescente. Se vogliamo realmente rispondere al disagio odierno, non basta difendere la scuola dalle invadenze: serve una rivoluzione culturale che rimetta al centro la relazione educativa primaria, quella tra genitori e figli. Formare i figli significa, prima di tutto, formare i genitori a essere educatori consapevoli, presenti, autenticamente coinvolti nella quotidianità, ben prima che nelle riunioni scolastiche.

L’invadenza genitoriale non è un problema da reprimere, ma un sintomo da comprendere e un’occasione da trasformare. Solo in questo modo, dalla frattura potrà nascere una nuova alleanza: non più genitori invadenti, né genitori assenti, ma genitori partecipi, capaci di essere il primo e più solido pilastro educativo nella vita dei propri figli.

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