Progettare l’orientamento, quali sono le “competenze orientative”? Didattica disciplinare attiva e partecipativa per coinvolgere gli studenti. Ne parliamo con Simone Giusti

A fronte dell’assertività e della chiarezza dei provvedimenti che le hanno introdotte, le nuove figure del tutor e dell’ orientatore normate dal decreto ministeriale 63 del 5 aprile 2023 destano ancora molte perplessità interpretative nel personale scolastico. Ne abbiamo parlato con Simone Giusti, docente di Didattica della Letteratura all’Università di Siena, in un discorso che affronta almeno due o tre luoghi comuni sul concetto di orientamento e sul suo diritto a rivestire un ruolo di primissimo piano nell’educazione democratica.
Professor Giusti, nella scuola sono entrate da diverso tempo attività a forte potenziale orientativo ben distinte dalla didattica ordinaria, mentre in un suo recente intervento pubblico ad Arezzo lei si è focalizzato sulla didattica orientativa. Una buona didattica – pensiamo ai paradigmi della ricerca-azione per esempio – non è sempre e comunque orientativa?
La didattica è orientativa quando è intenzionalmente rivolta allo sviluppo di competenze orientative e alla promozione, in ogni studente, di un approccio all’esperienza che viene definito di auto orientamento, che sappia cioè continuare in autonomia a individuare i propri obiettivi e le risorse necessarie al loro raggiungimento. Mi sembra difficile praticare una didattica simile “per caso”, e neanche credo che sia una pratica egemone nella scuola italiana, nota semmai nel mondo per i suoi tassi di dispersione, per gli abbandoni e per la sostanziale passività che sembra produrre (il numero delle persone cosiddette Neet ne è testimone). Sono convinto che per ottenere i risultati che ci si aspettano da una didattica orientativa occorra un cambiamento radicale in direzione della maggiore partecipazione delle e degli studenti, soprattutto durante il tempo dedicato agli insegnamenti disciplinari, grazie al ricorso ad approcci, metodi e tecniche didattiche attive e partecipative.
Quali sono, allora, queste competenze orientative?
La nostra legislazione in proposito è abbastanza chiara – e per fortuna almeno in questo caso ci è stato evitato di dover fare i conti con nuovi repertori di competenze, come nel grottesco caso dell’educazione civica – e al momento ha stabilito che le competenze orientative di base coincidono con le otto competenze chiave di cittadinanza, che già vengono certificate (senza alcun senso del pudore) alla fine dell’obbligo di istruzione: imparare a imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire ed interpretare l’informazione. Personalmente, rifacendomi alla lezione di Jerome Bruner e di quanti si sono dedicati allo sviluppo di approcci narrativi all’educazione, ritengo che si tratti fondamentalmente di competenze narrative, che hanno a che fare con la capacità di assumere il controllo sulla propria esistenza attraverso il linguaggio.
Mi incuriosisce molto l’accenno polemico alla certificazione delle competenze, rivedrebbe qualcosa?
È giusto chiarire la mia posizione: sono molto favorevole alla presenza di una certificazione delle competenze e ritengo che le Linee guida per la certificazione delle competenze alla fine del primo ciclo del 2017 siano uno dei migliori documenti prodotti dal nostro Ministero, e tuttavia trovo assurda e dannosissima la proliferazione di repertori di competenze e di relative certificazioni che non si parlano tra di loro. È mai possibile che esista una certificazione delle competenze di fine obbligo che non tiene conto né delle competenze chiave dell’UE né tantomeno delle certificazioni rilasciate alle fine della primaria e della secondaria di primo grado? E che addirittura usa una descrizione dei livelli diversa e assolutamente originale? Eppure è un documento che ha valore legale, introdotto in modo subdolo come un adempimento del consiglio di classe ma non supportato da un processo di individuazione, verifica e valutazione delle competenze. Poi non ci lamentiamo se alcune delle frange più reazionarie dei detrattori della scuola parlano di “burocratizzazione”.
Nel sentire comune il concetto di orientamento si porta dietro quello di scelta lavorativa: l’apprendimento non viene così caricato di un’altra motivazione estrinseca?
Premesso che la nostra Repubblica si proclama “fondata sul lavoro”, direi che la norma è molto attenta a considerare il lavoro come una dimensione fondamentale della vita sociale: si parla espressamente della necessità di affrontare consapevolmente la vita lavorativa e il mondo del lavoro e non di scegliere il lavoro o peggio di selezione per il lavoro. Semmai viene da dire che in un sistema scolastico progettato espressamente in piena epoca fordista per selezionare le persone affinché andassero “nel posto giusto” – ovvero perché siano tenute al loro posto – l’orientamento è un antidoto necessario all’implicito segregazionismo che costringe ancora oggi a scegliere l’ordine e l’indirizzo di scuola a 13-14 anni di età. Il vero problema è che usiamo la parola “orientamento” attribuendole un significato che non ha più da almeno quarant’anni, e che tendiamo quindi a pensare che si tratti di una pratica selettiva o direttiva, mentre a oggi possiamo dire che la scuola in genere è selettiva e direttiva – gerarchicamente ordinata e segregazionista – mentre l’orientamento vorrebbe e dovrebbe coincidere semplicemente con il diritto della persona a ricevere un’educazione sensata.
Il tutor dell’orientamento diventa ‘consulente’ per lo studente e per la famiglia: ancora una volta il lessico economicistico la fa da padrone.
Il “consulente di orientamento” esiste da quando si parla di orientamento, è il “counselor” in inglese, il “conseiller d’orientation” in francese: un termine che nasce semmai nell’alveo della psicologia. Il termine è più che adeguato a rappresentare un ruolo che mi piace pensare di servizio. D’altronde, ribadisco, l’orientamento è un diritto dello studente e il/la consulente dovrebbe saper offrire il supporto necessario ad accompagnare e supportare la persona nel suo percorso scolastico e poi lavorativo.
Il cuore della didattica orientativa dovrebbe essere nella co-progettazione e nella verticalità dei curricoli, attività che richiedono un lavoro paziente e in cui gli insegnanti stessi hanno bisogno di essere guidati. Ci saranno secondo lei risorse a disposizione per questo? O si lascerà tutto, come sempre, alla buona volontà dei singoli?
Il concetto di “buona volontà” mi è completamente estraneo: io credo che oggi nessun insegnante possa fare un lavoro dignitoso senza cooperare con colleghe e colleghi della sua istituzione scolastica per progettare e realizzare un curricolo. Ho sempre sostenuto che in Italia abbiamo avuto la fortuna di vedere all’opera un modello funzionante, che è quello della scuola del tempo pieno e poi dei moduli, che ogni docente di scuola secondaria dovrebbe guardare con invidia. Va detto che se dei politici di bassa lega hanno potuto smantellare quel sistema impunemente, significa che in questo Paese l’odio per i minori è assai più diffuso di quanto si pensi comunemente.
Un’affermazione molto cruda.
Come interpretare i continui tagli ai servizi per i minori, e il sostanziale disinteresse per la loro voce, totalmente assente dal dibattito sulla scuola? È solo perché non votano? Ma allora cosa significano le recenti norme che si accaniscono sui più giovani, e cosa pensare delle reazioni scomposte di tanti adulti – anche docenti – di fronte a pratiche valutative di tipo formativo e alla didattica attiva? A questo punto penso che sia ragionevole e anche opportuno pensare male, in modo da mettere in guardia i più giovani e dare un nuovo impulso a quelle pratiche e alle teorie che danno rilievo alla voce delle studentesse e degli studenti e che cercano di conferire loro maggiore potere.
Sono tutte battaglie di retroguardia quelle dei docenti – in qualche caso parliamo di interi collegi – che si sono opposti all’introduzione delle nuove figure del docente orientatore e del tutor dell’orientamento?
Penso che esista un solo motivo valido per rifiutare le risorse normative e finanziarie dello Stato: evidentemente l’istituzione scolastica autonoma che ha preso questa decisione è già in grado, con risorse proprie, di erogare un servizio di orientamento migliore e completo di quello che realizzerebbe con risorse aggiuntive.
L’articolo 1 della “Direttiva sull’orientamento delle studentesse e degli studenti” (487/1997) è una pietra miliare della storia dell’orientamento in Italia: «L’orientamento – quale attività istituzionale delle scuole di ogni ordine e grado – costituisce parte integrante dei curricoli di studio e, più in generale, del processo educativo e formativo sin dalla scuola dell’infanzia. Esso si esplica in un insieme di attività che mirano a formare e a potenziare le capacità delle studentesse e degli studenti di conoscere se stessi, l’ambiente in cui vivono, i mutamenti culturali e socio-economici, le offerte formative, affinché possano essere protagonisti di un personale progetto di vita, e partecipare allo studio e alla vita familiare e sociale in modo attivo, paritario e responsabile». Siamo sicuri che sia questo il presente – già passato da oltre venticinque anni – che deve far paura alla scuola italiana?