“Prof, se non sa cosa vuol dire cringe…”. Lettera

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Inviata da Simone Billeci – L’ho sentita l’altro giorno, mentre passavo tra i banchi. Una battuta lanciata a metà voce, tra il serio e il faceto: “Prof, se non sa cosa vuol dire cringe, chill, baggare, shoppare, shippare… allora è proprio boomer.”

Ora, chi insegna da qualche anno sa che frasi così non sono mai cattive. Sono quelle frecciatine affettuose che gli studenti scagliano come per tastare il terreno, per vedere se stiamo ancora al passo oppure se siamo ormai, diciamolo, finiti nel museo delle cere linguistiche.

Io, lo ammetto, un po’ ci ho riso su e un po’ ci ho pensato. Non tanto perché mi senta “boomer” (parola che ormai non indica più solo la generazione dei nostri genitori, ma chiunque appaia lontano dal mondo digitale dei ragazzi), ma perché la faccenda mi incuriosisce davvero.

Il linguaggio dei giovani — lo dico con tutta la sincerità possibile — è sempre stato una forma di rivoluzione silenziosa. Non serve urlare in piazza o scrivere manifesti per sentirsi parte di un gruppo: basta inventarsi parole che i grandi non capiscono. È sempre stato così. Solo che ora, con internet e i social, questa evoluzione è talmente veloce che anche un docente appena quarantenne rischia di trovarsi tagliato fuori nel giro di un paio d’anni.

“Cringe”, ad esempio, a me suona ancora strano. Eppure è entrato nell’uso comune tra gli studenti. Non vuol dire solo “imbarazzante”, ma proprio quel tipo di imbarazzo che ti fa contorcere, che ti fa venire voglia di coprirti gli occhi.

“Chill” è più semplice, è il vecchio “tranquillo” ma con un’aria più cool, più californiana.

“Baggare” viene dal mondo dei videogiochi, ma ormai lo si usa per qualsiasi cosa che non funziona come dovrebbe (e diciamolo: anche il registro elettronico bagga spesso).

“Shoppare” e “shippare” sono due verbi che non esistevano nel nostro vocabolario, ma che loro usano con una disinvoltura che lascia ammirati. Il primo riguarda gli acquisti — spesso digitali — il secondo è un curioso tifo amoroso per coppie vere o immaginarie.

E così via: stillare, gostare, skippare, dissare…

Una sfilza di parole che, ammettiamolo, hanno un suono anche simpatico. E che però ci ricordano, ogni giorno, che il nostro mondo e il loro, pur condividendo gli stessi spazi fisici, a volte scorrono su binari linguistici diversi.

E allora? Dovremmo imparare tutto a memoria per sentirci più giovani? Dovremmo sfoderare un “che chill questa lezione” per strappare un sorriso e sembrare aggiornati?

Io credo di no. Credo che il punto sia un altro. Non è questione di rincorrere i ragazzi nel loro linguaggio (sarebbe ridicolo, e loro se ne accorgerebbero subito). È questione di restare curiosi, di non chiudersi. Di accettare che, se oggi loro parlano così, è semplicemente perché stanno costruendo — come abbiamo fatto noi alla loro età — la loro identità. Un’identità che passa anche da come si nominano le cose.

E se ogni tanto non capiamo una parola, pazienza. Chiediamo. Senza paura di sentirci goffi. Loro, in fondo, amano quando mostriamo interesse sincero per il loro mondo. È un modo per accorciare le distanze senza forzature.

Anzi, vi dirò una cosa. Quando qualche mese fa uno studente mi ha spiegato con pazienza certosina cosa vuol dire “shippare”, io poi mi sono vendicato (bonariamente). Ho tirato fuori, durante una lezione di letteratura, un bel “sapete? Dante e Beatrice, secondo voi si shippano?”

Risate in classe. Ma anche un ponte gettato tra il loro lessico e il nostro contenuto.

Ecco: forse questa è la chiave. Non imparare tutto il loro dizionario, ma usare qualche parola per incontrarci a metà strada.

Perché le parole passano, cambiano, si trasformano. Ma la voglia di capirsi, quella, no.

E se essere boomer significa solo aver visto passare più mode linguistiche… tutto sommato, non è poi così male.

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