Presenze e distanze. Tappe, passaggi, salti e svolte al tempo del coronavirus. Lettera

Inviato da Mariangela Clemente – È da alcuni giorni che ci penso.
Penso al grembiulino di mio figlio che è rimasto al nido, quel pomeriggio del 4 marzo. C’è rimasto insieme al cambio, alla tovaglietta, al suo ultimo dipinto messo lì ad asciugare, al menù affisso per il giorno dopo…
Nessuno sapeva che dall’indomani non ci sarebbe stata più scuola… fino al 15 marzo… poi fino al 3 aprile… poi fino al 13 aprile… ora fino al 3 maggio e poi chissà…
Ed è così che, senza cerimonie, senza pensarci, senza neppure saperlo, mio figlio (e io con lui) ha vissuto il suo ultimo giorno di nido… per avviarsi -attraverso un tempo inconsapevole, anticipato e fulmineo e, insieme, lento e sospeso- al prossimo anno scolastico e a un’altra tappa del percorso: la Scuola dell’Infanzia.
Ed è per questo che da giorni il mio pensiero va pure a quei bambini di 5 anni che il 4 marzo hanno lasciato libri aperti e disegni da completare e colori pronti all’uso nella loro Scuola dell’Infanzia e che, quando torneranno a scuola, lo faranno probabilmente da scolaretti della Scuola Primaria.
E penso ai bambini di Quinta Primaria, che torneranno a scuola e si ritroveranno, come sempre accade, a chiamare per un po’ di giorni “maestro” il professore e ad esser a loro modo “grandi” in un’aula di Scuola Secondaria, senza aver avuto il tempo di continuare ad esser bambini nella scuola dei bambini…
E penso ugualmente ai ragazzini di 13 anni, che saranno in un attimo, a settembre, liceali e alunni di Istituti d’istruzione superiore…
E penso anche ai ragazzi “di maturità” che si ritroveranno all’università senza aver vissuto a piene mani quei “timori e tremori”, quei pensieri e quelle risate e quelle ansie e quei pronostici degli ultimi mesi… e senza aver potuto contare insieme, per giorni, i giorni e, per minuti e secondi, i minuti e i secondi che li avrebbero separati dalla loro ultima campanella.
Ed è fermandoci a pensare a queste età solenni e importanti, queste età di svolte e di passaggio che, forse, comprendiamo più nel profondo come la scuola sia fatta per tutti di respiri comuni e di esistenze condivise; di bus che ci conducono ai cancelli e ai portoni; di biro prestate e mai restituite; di tempere del compagno finite sulla nostra maglia; di panetti di pongo da dividere, senza deleghe, con le MIE mani in tante parti quanti sono i bambini in aula; di dizionari sul banco durante la versione di latino; di collaboratori che bussano alla porta con circolari di carta da firmare mentre, a turno, si è impegnati a leggere i versi della Divina Commedia; di mani alzate volontarie e di “No prof, non posso, ho dimenticato il quaderno a casa”; di voci sovrapposte e di sguardi complici, di tutto questo e di molto altro ancora… di “carne e sangue” se vogliamo esagerare citando di nuovo Kierkegaard.
Ed è lì e allora che non possiamo più fingere di non accorgerci che “DaD” è solo nulla più che un ossimoro.
Magari un ossimoro necessario, sì;
l’unico forse percorribile in questa situazione di emergenza, come continuiamo da giorni a ripetere tutti, certo;
un ossimoro funzionale e, volendo fare di necessità virtù, forse anche dai risvolti positivi, ok…
…ma pur sempre solo e nulla più che un ossimoro, una stridente contraddizione in termini che nulla o quasi nulla può contro l’inesorabile e incolmabile mancanza di una scuola vera, che è appunto vera solo perché… fatta di presenze vere.