G. Imparzialità e indipendenza
G. Imparzialità e indipendenza
Nello Statuto albertino del 1848 la magistratura dipendeva direttamente dal Re, cui spettava la nomina dei magistrati (l’art. 68 prevedeva infatti: “La giustizia emana dal Re ed è amministrata in Suo nome dai giudici che Egli istituisce”).
Il regime non esitò ad eliminare i magistrati “scomodi”, “non allineati” o “incompatibili” mentre oggi l’art. 101 della Costituzione stabilisce che i giudici sono soggetti solo alla legge. Emergono così i caratteri tipici della Magistratura: l’imparzialità e l’indipendenza. Piero Calamandrei, padre costituente, vedeva i giudici come “sacerdoti che dicono messa” e “non possono permettersi il lusso della fantasia”, perché i loro orizzonti sono “segnati dalle leggi”. Li dipingeva solitari nell’ultimo tavolo dell’unica trattoria del paese, avendo “come unica commensale l’indipendenza”.
I principi che garantiscono l’imparzialità e l’indipendenza dei giudici sono:
- l’assunzione per concorso pubblico;
- l’inamovibilità (poiché la minaccia di un trasferimento potrebbe inquinare la serenità del giudizio, essi possono essere rimossi o trasferiti ad altra sede solo su decisione del Consiglio superiore della Magistratura);
- l’assenza di gerarchie interne (i giudici pur con funzioni diverse, sono tutti di pari rango).

L’immagine della dea bendata esprime imparzialità, necessaria “cecità” rispetto al giudizio: i due piatti dapprima perfettamente in equilibrio, dopo che i fatti saranno esaminati, penderanno a favore e a torto delle due parti. Nessuno a priori è colpevole. Tutti devono potersi difendere dinanzi ad un giudice equidistante (terzo).