Perché uno sciopero della scuola per il clima

Il modo di produzione, distribuzione e consumo del sistema capitalistico globalizzato del terzo millennio sta mettendo a repentaglio la sopravvivenza stessa del pianeta e di chi lo abita.
Un capitalismo sfrenato e predatorio, quello attuale, che dopo aver saccheggiato le risorse naturali, dopo aver trasformato l’uomo in forza-lavoro da sfruttare brutalmente, dopo aver mercificato ogni aspetto dell’esistenza di tutti gli esseri viventi, oggi non esita a penetrare nelle nostre sfere più profonde, a frugare nella nostra intimità, a catturare i nostri sentimenti, le nostre attitudini, la nostra attenzione, per trasformare ciascuno di noi in un insieme di dati da comprare o da vendere. E, in ultima analisi, per manipolare molecolarmente la nostra vita individuale e sociale.
Ma non si tratta più solo di un problema economico, né politico, né culturale.
Viviamo nella barbarie. Nella barbarie delle tante guerre capillarmente diffuse sul globo terrestre; nella barbarie dell’ingiustizia economica e sociale a Occidente come in Oriente, nel Nord come nel Sud del mondo: basta pensare alle grandi città, ovunque abitate da un manipolo di benestanti e una massa indistinta di subalterni che premono, così come premono ai confini dei Paesi che, per secoli, li hanno depredati. Siamo nella barbarie culturale dell’analfabetismo, totale o funzionale, della sopraffazione sul più debole, dell’individualismo, dello sfruttamento, della competizione sfrenata, dell’etica mostruosa del mors tua, vita mea, del respingimento e del disconoscimento dell’Altro.
Ad amplificare tutto questo oggi c’è l’emergenza ambientale, di cui finalmente, in Italia, sembrano essersi accorti anche i politici, i sindacati, i media. Un’emergenza che non arriva imprevista, perché è la somma, il prodotto, il risultato inevitabile di quelle scelte di sopraffazione economica e sociale, di quell’ingiustizia, di quegli squilibri, di quel modello di sviluppo basato sullo sfruttamento senza limiti dell’uomo e della natura di cui solo poche voci, clamantes in deserto, hanno fino ad ora dato conto. Inascoltate.
‘Produci, consuma, crepa’ non riguarda più solo gli individui ma riguarda il pianeta, sull’orlo del collasso.
Forse è già troppo tardi. Forse già non bastano più la riduzione dell’uso della plastica, la diffusione della raccolta differenziata e del riciclaggio, gli accordi dei potenti sulle emissioni inquinanti. A che servono questi provvedimenti se continuiamo a produrre e acquistare oggetti tecnologici per i quali milioni di schiavi senza nome muoiono ogni giorno in Africa nelle miniere di coltan? A che serve, se in tanta parte del mondo si continua a praticare il fracking, la fratturazione idraulica delle rocce, per estrarre petrolio e gas naturali? A che serve, se non si abbandona il mantra sviluppista mondiale delle ‘grandi opere’ e non ci si dedica alle piccole, preziose opere di manutenzione, di riassestamento idrogeologico, di riconversione ecologica, di ritessitura sostenibile della circolazione, del recupero degli spazi urbani, del potenziamento delle aree verdi?
Ma noi non possiamo arrenderci all’impotenza, all’idea paradossale e disperata di Mark Fisher che sia “più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. E non possiamo arrenderci all’idea che il nostro agire come insegnanti, ancorché costantemente marginalizzato e mortificato nella sua capacità di trasformare l’esistente, non sia sempre profondamente e incisivamente politico.
Alla giustizia ambientale è profondamente legata la giustizia sociale, la redistribuzione economica, la parità di genere e l’accoglienza dell’Altro. Alla giustizia ambientale è profondamente radicata l’etica. Nel nome del rispetto della natura e dell’uomo si può ricominciare a credere e a praticare il concetto fondamentale del ‘bene comune’, la sua proprietà collettiva e il suo profondo valore civico. E’ questo quello che ogni giorno insegniamo ai nostri studenti.
Ed è per questo che scioperiamo insieme a loro il prossimo 27 settembre.