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Per diventare “geni” bastano 21 giorni, anche a scuola. A dialogo con Massimo De Donno

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L’apprendimento è continuo oggetto di studio, capirne i meccanismi per strutturare metodologie sempre più efficaci dal punto di vista didattico è l’obiettivo non solo del mondo Scuola, esistono tante realtà che collaborano quotidianamente con i vari enti di ricerca per dare le risposte a questi interrogativi. Ne abbiamo parlato con il Dott. Massimo De Donno ideatore del metodo “Genio in 21 giorni”.

Dottor De Donno, lei è stato uno studente eccellente, laurea con il massimo dei voti, poi durante un master, che ha coinciso con un’esperienza lavorativa, si è accorto che il tempo non bastava e da lì ha iniziato a lavorare al suo metodo. Ci spiega in cosa consiste “genio in 21 giorni”?

“Genio in 21 giorni” è il titolo di un manuale pubblicato da Sperling nel 2012, del quale sono coautore, dove abbiamo cercato di sintetizzare lo stato dell’arte sulle tecniche di apprendimento efficace in modo da mettere a disposizione questo sapere a quante più persone possibili. A mio avviso rappresenta una vera e propria cassetta degli attrezzi per ogni persona che abbia voglia di studiare, parliamo di tecniche di memoria, di lettura veloce, di lettura strategica, mappe concettuali, tecniche di concentrazioni, insomma tutta una serie di strumenti che possano aiutarci a creare un metodo di studio efficace. Successivamente alla pubblicazione di questo libro, che ha avuto un grande successo ed è stato tradotto in diverse lingue, abbiamo deciso di dare lo stesso nome ai nostri corsi sulle tecniche di apprendimento che permettono ai nostri allievi di personalizzare il proprio metodo di studio in base allo specifico stile cognitivo e di apprendimento. In pratica li aiutiamo a capire come piace apprendere al proprio cervello in modo da strutturare un metodo che permetta loro di rinnamorarsi dello studio.

Oggi si parla tanto di scuola, la crisi pandemica l’ha messa al centro dell’attenzione sia dal punto di vista sanitario che dal punto di vista dell’apprendimento. La DAD è stata una sperimentazione che ha permesso la continuità didattica per le attività non in presenza, ma che ha portato a galla diverse problematicità soprattutto dal punto di vista metodologico. Alla luce di queste nuove esperienze, secondo lei cosa significa apprendere e come si può individualizzare l’apprendimento.

La domanda tocca uno dei temi che mi sono più cari e che ho cercato di approfondire negli ultimi anni. La scuola, per come la conosciamo noi, è fondamentalmente incentrata sull’insegnamento. Insegnamento e apprendimento le possiamo rappresentare come le due facce della stessa medaglia. L’insegnamento è l’attività che fa capo al docente, mentre l’apprendimento è l’attività tipica dell’alunno. Queste attività devono necessariamente integrarsi. I ricercatori parlano di insegnamento visibile affermando che la scuola fondamentalmente funzionerebbe bene se l’insegnamento fosse visibile agli alunni e l’apprendimento fosse visibile agli insegnanti, sembra una frase un po’ criptica ma in realtà ha un significato molto profondo. Penso che la didattica a distanza, e in generale l’utilizzo della tecnologia e dei nuovi dispositivi, possa aprire delle opportunità gigantesche per l’apprendimento. In definitiva tutti i percorsi di apprendimento che si possono svolgere online hanno il grande vantaggio di poter seguire i ritmi e l’andamento progressivo nel miglioramento delle competenze, di ogni singolo studente, senza che ci sia quell’obbiettivo/incubo di dover portare un gruppo eterogeneo di persone, anche se della stessa età, da un punto “A” ad un punto “B” tutti insieme. Questo rappresenta la grande difficoltà che incontrano gli insegnanti in qualunque classe e che ancora di più si è evidenziata nel dover seguire i ragazzi a distanza venendo a mancare il contatto, la presenza e quell’influenza che sono state importanti e che in molti casi abbiamo avuto modo di apprezzare. Ultimamente sto collaborando come capoprogetto di un’importante fondazione, che è dedita all’educazione, ad un progetto di riforma della scuola dove fondamentalmente gli insegnanti vengono istruiti per diventare dei veri e propri tutor di apprendimento, quindi delle persone capaci di riconoscere quali siano gli stili cognitivi dei propri studenti ed essere in grado di aiutarli a superare le difficoltà che di volta in volta si presentano. L’obiettivo è quello di creare una scuola dove sia possibile crescere rinnamorandosi dello studio, una scuola con un sistema valutativo non basato sul voto numerico, dove la classe assuma un ruolo diverso e più costruttivo. Quello che voglio dire è che bisogna approfittare di questo vento di cambiamento che ha portato il lockdown e di cui la scuola necessita, non dobbiamo perdere questa occasione. La DAD è stata una sperimentazione molto impegnativa che però ha permesso un’accelerazione che forse non avremmo avuto neanche in dieci anni. Dobbiamo cambiare prospettiva e non pensare a quello che stiamo perdendo ma a quello che noi vorremmo che la scuola sia, dove i docenti devono avere un ruolo assolutamente centrale.

Con la Professoressa Lucangeli abbiamo parlato delle tre fasi dell’apprendimento, da fuori a dentro, da dentro a dentro e da dentro a fuori. La fase da dentro a dentro risulta poco attenzionata nel mondo della scuola incentrata sulla prima fase, che rappresenta il lavoro del docente, e l’ultima che è il ritorno fornito dall’alunno all’insegnante. Le vostre metodologie come si relazionano con queste fasi?

Innanzitutto mi trovo pienamente concorde con l’analisi della Professoressa Lucangeli. Il 90% dei nostri corsisti, ne abbiamo circa 3000/4000 nuovi ogni anno, ha dei punteggi nella capacità di elaborazione bassi o molto bassi. E’ un dato significativo che si correla anche con il dato relativo all’analfabetismo funzionale. In pratica non siamo stati sufficientemente abituati a prendere un testo, o ad ascoltare una lezione, e riuscire a riassumerla, sintetizzarla, nei concetti chiavi per poi rielaborare questi concetti con parole nostre in maniera chiara e precisa. Questo lavoro di rielaborazione o non viene svolto o viene svolto in maniera superficiale. Nel mio percorso di ricerca mi sono imbattuto in un team del Consiglio Nazionale delle Ricerche che da più di vent’anni stava svolgendo ricerche proprio sulla comprensione e sulle capacità di esposizione dei concetti che ha messo a punto alcune strategie estremamente efficaci al punto da definirle fondamentali dell’apprendimento. Questi fondamentali servono proprio per poter lavorare sulla comprensione ed elaborazione delle informazioni, ovvero la capacità di acquisire un dato attraverso il modello dell’esperienza oppure mediante l’uso delle parole, della lettura e dell’ascolto della lezione, per poi trasformare questo approccio in una vera e propria conoscenza. Indipendentemente dalla modalità di acquisizione dell’informazione, la cosa importante è quella di avere allenati quei meccanismi che ci permettono di approcciare correttamente l’argomento e di farlo nostro. Il termine fondamentale richiama un po’ il mondo dello sport dove i fondamentali sono quei movimenti su cui strutturare e far crescere l’attività sportiva e che nessun campione si sognerebbe di non allenare. La stessa cosa vale per i fondamentali dell’apprendimento.

Restiamo sui fondamentali, in un nostro precedente confronto lei aveva posto l’attenzione al fatto che la promozione in una materia con la sufficienza significasse il trascinarsi di lacune che possono diventare ostacoli per l’apprendimento futuro. Qual è il giusto approccio da sostenere in questi casi.

Questa domanda tocca un tema che mi è molto caro, ovvero il tema della valutazione che nel nostro sistema è basato sui voti. La maggior parte degli studiosi oggi considera questo sistema obsoleto e per certi versi negativo. Studiare per il voto significa alimentare un tipo di motivazione estrinseca che non è quella che in realtà spinge verso un’acquisizione naturale della conoscenza. Il sistema di valutazione con i voti è fallimentare per due motivi, il primo perché generalmente insieme al voto si riceve un’etichetta che spesso, nei casi di valutazione negativa, può essere un elemento disincentivante per l’automotivazione. Sia la nostra immagine interna che esterna subiscono questa etichetta e uno studente che riceve un’insufficienza deve lavorare per ricostruire la sua immagine nei confronti dei propri compagni di classe ma soprattutto nei confronti dei propri genitori. Molti conflitti familiari nascono da valutazioni negative. Quindi, quando un voto è negativo produce inevitabilmente dei danni, quando invece è positivo non sempre significa che la persona abbia realmente delle competenze, a volte è sufficiente ripetere una lezione imparata a memoria, ma questo non significa di avere acquisito le giuste competenze da potere poi utilizzare in altri domini. Per fare questo bisognerebbe cambiare il modello di valutazione e su questo stiamo lavorando per la Fondazione San Michele Arcangelo proprio per mettere a punto un sistema di valutazione efficace. Da quanto stiamo sviluppando abbiamo compreso che è necessario partire identificando un livello base dove l’alunno viene identificato come la persona alla quale affiancare un mentoring, un facilitatore che lo aiuti ad ottenere un risultato, fino ad arrivare ad un livello massimo dove lo studente è assolutamente indipendente nell’utilizzare una competenza acquisita ed è addirittura in grado di fare collegamenti con altre discipline. In sostanza tutti partiamo da un determinato livello che poi, crescendo nel nostro percorso formativo, ci permette di acquisire maggiori livelli di autoregolazione, e quindi di capacità, che ci permettono di acquisire una maggiore consapevolezza delle nostre necessità per utilizzare un determinato strumento di apprendimento. In questo senso i fondamentali dell’apprendimento fanno un grande lavoro perché ci permettono di andare a colmare dei buchi che si sono creati nel nostro passato proprio a causa del sistema di valutazione con votazione. Superare una prova in maniera sufficiente ti porta ad avere delle lacune di conoscenze che successivamente rappresenteranno degli ostacoli per l’acquisizione delle competenze successive. Ausubel, che è stato l’ideatore delle mappe concettuali, diceva che in definitiva l’elemento più importante nella comprensione di una lezione fossero le cose che uno studente già sapeva rispetto ad un argomento. Quindi se si arriva ad una lezione senza avere conoscenza pregressa ben consolidata e strutturata, quella lezione fondamentalmente non solo è inutile, ma probabilmente diventa anche frustrante. La nostra metodologia, oltre ad un riconoscimento dell’identità dello stile cognitivo dello studente, passa proprio attraverso l’aumento delle strategie degli strumenti a disposizione per poter fare un lavoro di miglioramento delle conoscenze pregresse e quindi un miglioramento della costruzione di quelle nuove.

Restiamo sul tema dell’aspetto valutativo. Oggi a scuola esiste una forte competizione generata proprio dal sistema valutativo improntato sui voti che porta inevitabilmente ad una comparazione. Capita anche che molti ragazzi considerati bravi crollino al primo inciampo, alla prima valutazione negativa. Inoltre riscontriamo poca collaborazione, poca valorizzazione dell’intelligenza emotiva per il superamento delle difficoltà. Nel vostro metodo sono valorizzati questi aspetti?

Uno dei modi più semplici ed efficaci per aiutare i ragazzi nell’acquisizione di queste importantissime competenze, che noi chiamiamo soft skills e che si tratta di abilità trasversali che riguardano veramente tantissimi aspetti del come facciamo le cose, tra cui la capacità empatica ovvero l’intelligenza emotiva, è quello di riuscire a mettere insieme lo studio, l’apprendimento e il miglioramento delle competenze con l’intelligenza di tipo relazionale. Questo approccio lo definiamo come “mentoring peer to peer” che consiste nell’aiutare i propri compagni. Aiutare i propri compagni, ad esempio nel superamento di un livello di studio in qualsiasi materia, produce dei risultati estremamente positivi. Si parte dalla rielaborazione delle conoscenze acquisite da dover poi spiegare all’altro. Questo porta ad una conoscenza più profonda delle informazioni acquisite perché si è costretti a farne una nuova rappresentazione da adattare alla metodologia di ragionamento del proprio compagno. Questo approccio ci porta, inoltre, a lavorare sulla propria intelligenza emotiva dovendo creare quell’empatia necessaria per una corretta collaborazione. Dall’altra parte la persona che chiede, e che quindi esprime un bisogno, a sua volta si mette in gioco uscendo dall’area di confort. Con un pari questa operazione potrebbe risultare più facile, ma non è scontata. La bontà di questo approccio non è da sottovalutare, conosco molte persone che non sono in grado di esternare le proprie rimostranze in maniera assertiva e a volte hanno anche difficoltà a far capire le proprie necessità alle persone che hanno attorno. L’esprimere un bisogno è qualcosa che ci mette fuori dalla nostra zona di confort perché in qualche modo dobbiamo manifestare una certa vulnerabilità, però è anche un aspetto fondamentale nelle relazioni. Mettere i ragazzi a lavorare insieme, in un contesto nel quale ci sia una collaborazione costruttiva, li fa crescere nell’ambito dell’intelligenza emotiva e dello spirito di collaborazione. Ma quello che è più importante, soprattutto per la figura del tutor, è il fatto di crescere dal punto di vista metacognitivo perché lo costringe a fare uno sforzo sull’individuazione dei processi di pensiero in grado di aiutare il proprio compagno.

Dottor De Donno, in un’intervista lei affermava che il vostro metodo sarebbe utile anche per l’integrazione scolastica. Ci spiega come?

Il fatto di avere un metodo di studio efficace rappresenta una chiave importante per aprire una serie di porte che per chi ha delle difficoltà di integrazione a scuola rimangono spesso chiuse o addirittura blindate. Dico questo perché a volte un elemento che ostacola la comunicazione è semplicemente la difficoltà ad usare una lingua. Il nostro metodo è stato declinato alle lingue, che sono un tipo di apprendimento molto specifico, e permette a chi incontra delle difficoltà ad apprendere una lingua straniera a riscoprire un’abilità innata del cervello umano. Noi nasciamo predisposti all’acquisizione del linguaggio, ognuno di noi è portato all’apprendimento delle lingue, ma questo non significa che tutti riescano ad ottenere degli ottimi risultati, a volte perché la didattica utilizzata per l’insegnamento delle lingue non è estremamente efficace. La conoscenza della lingua è il primo strumento di comunicazione che ti mette in relazione con i compagni, con gli insegnanti e ti permette di riuscire ad esprimerti al meglio e rappresentare i propri bisogni. Le persone che hanno difficoltà ad esternare i propri bisogni, a spiegare le loro ragioni, inevitabilmente diventano più aggressive, si chiudono in loro stessi e decidono di rinunciare ad avere delle relazioni profondi. Se ci pensiamo bene la prima caratteristica di ogni relazione dipende dalla qualità della comunicazione. Se non siamo in grado di instaurare un dialogo efficace con l’atro ci sentiremo inibiti, probabilmente frustrati, e quindi non capaci di esprimerci, di dire quello di cui abbiamo bisogno, di rappresentare le nostre richieste. Il primo intervento da attuare in questi casi è quello di dare allo studente gli strumenti che gli permettano di accelerare l’apprendimento della lingua. Oggi queste situazioni le viviamo spesso nella scuola dove abbiamo classi molto eterogenee nelle quali arrivano ragazzi che nelle proprie famiglie non parlano mai la lingua italiana e quindi il loro livello di interazione è molto complicato. Aiutare questi ragazzi semplicemente da questo punto di vista fa già la differenza, poi possiamo affiancare tanti altri strumenti per migliorare l’apprendimento e di conseguenza l’integrazione.

Chiudiamo con un’ultima domanda, voi collaborate con un gruppo di ricerca del CNR, questa sinergia nelle ricerche che effettuate come si tramutano come benefici per chi insegna e deve relazionarsi quotidianamente con i ragazzi nelle classi.

Noi abbiamo avviato questa collaborazione perché abbiamo bisogno innanzitutto di formare il nostro personale sui fondamentali dell’apprendimento, di cui abbiamo parlato prima, per poi condividere queste informazioni con quante più persone possibili per una efficace divulgazione scientifica. Da quando abbiamo imparato questi strumenti come “Genio in 21 giorni” abbiamo creato tre appuntamenti, che fanno parte del nostro corso ma sono aperti anche al pubblico, dove insegniamo i fondamentali dell’apprendimento con lo scopo di una diffusione ampia. Nella nostra mission abbiamo tra gli obiettivi quello di combattere l’analfabetismo funzionale e l’abbandono scolastico, temi cruciali a livello sociale, che spesso sono collegati con il fatto che agli studenti manchi un metodo di studio. Quando ti rendi conto che qualsiasi sforzo tu faccia non produca risultati, ti viene da pensare che forse sia meglio fare qualcosa di diverso rispetto ad andare a scuola. Le evidenze ci dicono che ancor più della media scolastica, dei voti che uno prende, di quello che uno studia, uno dei fattori che ha il maggiore impatto nella vita degli studenti è il numero degli anni che si trascorrono a scuola. Più sono lunghi questi anni, più impattano sui livelli medi di benessere, di felicità e di salute nella vita. Se siamo consapevoli di questi presupposti, ci rendiamo conto di quanto sia importante tenere i ragazzi a scuola, ma non inchiodandoli sul banco con l’obbligo, bisogna motivarli a frequentare la scuola grazie al fatto di poterli fare rinnamorare dello studio. Questo significa impattare a 360° nella vita di una persona che avrà fondamentalmente più benessere in assoluto.

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