Nuove indicazioni nazionali, Ianes critico: “Sono piene di paura … della globalità del mondo, della stranità, del superamento delle barriere delle discipline”. INTERVISTA

WhatsApp
Telegram

Delle Nuove Indicazioni Nazionali ne abbiamo parlato con Dario Ianes, già docente ordinario di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’Università di Bolzano, Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento per il quale cura alcune collane, autore di vari articoli e libri e direttore della rivista «DIDA».

Professor Ianes, l’11 marzo è stato pubblicato il testo delle Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e primo ciclo dell’istruzione 2025. Cosa cambia in particolare rispetto alle precedenti?

Cambia tutto, forse non è così per qualcuno più cinico che pensa che poi la fine del mondo della scuola non arrivi, se non una spinta culturale regressiva che poi verrà ignorata, come sono state ignorate per alcuni anche quelle del 2012, ma in realtà io non la penso così. Io, invece, penso che cambi molto, perché cambia chiaramente la cultura di governo e l’approccio politico alla scuola, perché le indicazioni sono importanti, non possono essere trascurate.

Le indicazioni del 2012 ci facevano respirare un orizzonte di globalità, di complessità, c’era dietro Edgar Morin quale ispiratore di quelle indicazioni, per cui ci aprivano un orizzonte di mondialità, di planetario, di complessità, di epistemologia anche complessa dei saperi, una visione globale della persona e della cultura. Queste invece sono indicazioni molto paurose, poi se vuole approfondirò il tema della paura, sono molto autoritarie, piene di controllo, piene di paternalismo. Su questo permettetemi di annunciare che è finalmente disponibile il nostro libro “Credere obbedire insegnare”, dove ho raccolto 17 colleghi, non solo colleghi universitari, ma anche colleghi dirigenti e persone di scuola, e abbiamo scritto ognuno un capitolo bersagliando in modo critico queste nuove indicazioni.

Siete usciti subito con questo volume, con molte firme prestigiose, nel quale vengono analizzate e portate a luce le criticità delle nuove indicazioni nazionali, indicazioni il cui testo, però, nasce, a detta della Commissione, dall’analisi di tre studi preliminari, anche a carattere pedagogico, e da circa 120 audizioni. Perché tutto ciò ha portato al risultato che lei e gli altri autori del volume ritenete insufficienti?

Permettetemi di banalizzare un po’, ma se come impianto culturale hai un tuo impianto forte, che è quello della destra di governo, le audizioni che fai sono audizioni anche inconsciamente pilotate, di fatto governate, e il risultato è scontato. È come se io portassi in audizione Muti e gli chiedessi se è importante la musica, e credo che lui mi dica che lo sia, a quel punto posso dire che con la musica spacchiamo perché abbiamo Muti.

Detto questo, io giro molto nelle scuole e il mondo della scuola non si è accorto di questa consultazione, non so se lei se n’è accorto, ma nessuno si è accorto che ci fosse questo lavoro di coinvolgimento dal basso, perché il basso, cioè i docenti, i dirigenti e tutte le associazioni scientifiche delle varie discipline, sono tutti contro, sono tutti delusi e preoccupati. Allora se ci fosse stata una vera e profonda consultazione che dal basso crescono nuove indicazioni, perché adesso sono tutti contro? O erano pazzi prima o lo sono adesso.

Tornando al lavoro che abbiamo fatto, le persone che ho coinvolto sono persone chiaramente orientate dal punto di vista pedagogico e culturale, per cui eravamo tutti pronti a contestare queste nuove indicazioni, e qui, tra l’altro, si apre un problema di metodo non indifferente. Quando Valditara e Perla hanno cominciato a parlare della Bibbia, piuttosto che del latino o di altre cose come poesie alla memoria, raccontini della piccola vedetta lombarda eccetera, ne hanno cominciato a parlare con interviste sul giornale, senza che nessuno di noi vedesse un testo vero e proprio.

Ci sono voluti un paio di mesi poi. Allora questo secondo me non è corretto per i cittadini o per la persona di scuola, perché se tu cominci a parlare di una cosa dammi il testo in modo che lo possa leggere. Invece abbiamo ragionato, però ci siamo scaldati su quelle considerazioni. Quando abbiamo avuto il testo in poche settimane abbiamo fatto uscire il libro.

Restiamo sul tema della valutazione, che è un aspetto importante dell’educare, tant’è che c’è una branca specifica che la studia e sviluppa metodologie sempre più curate, ovvero la docimologia. Perché allora tanto contrasto su questo tema che porta ad un continuo cambiamento?

Il capitolo sulla valutazione l’ha curato Cristiano Corsini, dell’università Roma 3, che, a mio avviso, è attualmente in Italia la persona più esperta su questo tema. Parliamo di valutazione che non sia la valutazione sommativa, quella che dà il voto ma non aiuta per niente ed è solo un atto amministrativo, e Corsini sostiene, così come tanti di noi, che la vera valutazione efficace sia quella formativa, quella che forma non solo l’apprendimento, che aiuta l’apprendimento degli alunni, questo è evidente, ma quella che plasma anche la didattica. Questo accade perché se monitoro l’andamento il mio alunno, ecco che in base a quello modifico la mia didattica.

Allora, la valutazione formativa, che è dichiarata un pochettino all’interno di queste, ma sostanzialmente non è incarnata a fondo, perché in realtà dentro la visione di queste indicazioni c’è il voto, comunque la classificazione, l’aspetto sommativo, non tanto quello formativo. Come esempio a me piace molto richiamare un’immagine legata al mondo della cucina, perché quando il cuoco assaggia la minestra, l’assaggia continuamente per sentire e aggiustare, e quello sta facendo è una valutazione formativa, perché vuole fare una buona zuppa e vuole migliorare sempre di più le sue tecniche culinarie.

Quando invece il cliente mangia la zuppa al tavolo, fa una valutazione sommativa, perché alla fine di tutto mangia solo la zuppa. Allora possiamo dire che c’è una visione classificatoria, selettiva della scuola che si pone dal punto di vista del cliente: io mangio una zuppa e classifico, allo stesso modo io vedo il tema o la verifica del mio alunno e lo classifico. In questa maniera non aiuto molto l’apprendimento, non modifico molto la didattica e soprattutto in molti casi creo ansia da prestazione ed emotiva, deprimo, come sappiamo benissimo adesso accade.

Il tema della valutazione è un tema strategico, importante, però non si potrà mai fare una valutazione veramente formativa se non sei disposti a cambiare la didattica. Se il cuoco dicesse io cucino sempre in quel modo e non sono permeabile a nessun tipo di informazione che mi viene dalla zuppa che sto facendo, è chiaro che non ha senso che assaggi, perché deve assaggiare, intanto sa che è buona e lascia tutta l’onere al cliente.

Mi voglio soffermare sul discorso che sta facendo, la differenza tra valutazione sommativa e formativa, perché è una semplificazione che spesso anche il governo ha utilizzato per giustificare il ritorno al voto, come se fosse più semplice da capire, più facile da comprendere anche per genitori e ragazzi. Spesso ci accomuna questo modo di ragionare per cui l’obiettivo finale della verifica non diventa più valutare le competenze e le conoscenze, ma è il voto. Gli studenti cercano escamotage per cercare di prendere il voto migliore, lo abbiamo fatto anche noi quando eravamo a scuola, e i genitori la prima cosa che chiedono al figlio è quale voto ha preso. Perché questo modo di ragionare va cambiato?

Perché questo non aiuta realmente nell’apprendimento, perché l’apprendimento migliora. Allora c’è un’altra metafora sempre culinaria che mi piace raccontare, ovvero che l’apprendimento è il frutto di un menù a due portate, c’è il primo e il secondo. Il primo che ti arriva è l’input che ti dà l’insegnante, che deve essere di assoluta qualità per chiarezza, informazione, molteplicità, universalità, laboratorietà, motivazione, cioè il primo deve essere di assoluta qualità e così io mi nutro.

Il mio apprendimento si nutre del primo, ma si nutre anche del secondo, perché il secondo è l’informazione di ritorno che tu docente dai a me., perché quando io faccio un tentativo, faccio un qualcosa come scrivere, leggere, oppure creare qualcosa, ho bisogno, per nutrire il mio apprendimento, del secondo, cioè del ritorno che tu insegnante mi dai. Allora questo ritorno più è veloce, più è immediato, più è descrittivo, e più mi fa capire effettivamente quello che ho fatto giusto o di sbagliato, perché sto crescendo in termini di competenze, come si diceva. E questo è l’alimento al mio apprendimento, il primo e il secondo. Se non mi dai il secondo e mi aspetti al varco le settimane successive con una verifica sommativa, tu fai solo un atto amministrativo, un atto di classificazione o addirittura di selezione, non mi cucini un ottimo secondo perché io possa imparare.

Ma poi c’è un’altra questione che dà rilevanza fortissima alla valutazione formativa, ovvero che il docente ha bisogno dell’azione dell’alunno per modificare la propria azione. Nel senso che come docente devo plasmare la mia strategia in funzione degli esiti che vedo, per cui devo monitorare tutti i giorni l’alunno, non faccio un’interrogazione solo perché mi serve per darti un voto, per avere sul registro una serie di voti. Poi nella sua domanda c’è un aspetto interessante, ovvero che i genitori chiedono al proprio figlio quanto ha preso, identificando il valore del figlio o della figlia col voto. Ma non si fermano qui, chiede anche gli altri cosa hanno preso e crea subito un meccanismo competitivo, un meccanismo che produce enormi disagi nei nostri alunni.

Il discorso che facciamo sulla valutazione non è perché non bisogna valutare, anzi bisogna valutare tanto, perché è il secondo del menù, è il ritorno che mi serve per l’apprendimento. Ma allora se tu docente ti poni dalla mia parte come un bravo coach di atletica, perché vuoi che io migliori il risultato, tu mi valuti molto, mi dai molti feedback, mi dai molto supporto, mi cucini un ottimo secondo. Se invece tu non mi dai questo nutrimento e mi aspetti al varco come un giudice che mi dà una sentenza una volta al mese, allora questo è un altro discorso, lì diventa un classificare per selezionare che è un’altra idea di scuola.

Torniamo a quanto mi dice in apertura, perché lei ci ha parlato di paura e ha detto che è un aspetto che dobbiamo approfondire, perché c’è questo tema di base su questa nuova valutazione. Perché la paura?

Ci sono tante paure in queste nuove indicazioni. Faccio alcuni esempi di tutte queste paure, la prima è il corpo dell’alunno, educazione sessuale e affettiva, benessere, relazioni, soft skills, questo è tutto messo in ombra, come se stiamo parlando di ragazzi che arrivano alla fine della secondaria di primo grado, molto sessualizzati. Allora come si fa a non mettere questa cosa al centro se pensiamo ai fatti di cronaca, all’educazione sesso/affettiva che manca? Seconda paura, la paura della testa ben fatta dell’alunno o dell’alunna, perché se sono autonomi, critici, molto capaci, mi fanno paura ragazzi e ragazze così. Poi questa grande paura si riverbera in un’altra paura, la paura che il docente sia autonomo, sia critico, faccia delle scelte. Ma perché nell’indicazione del 2012 non si citava nemmeno un autore e in questo del 2025 è pieno di autori e di cose da fare? Perché è la paura che facciano delle cose di testa loro e allora ci infilo dentro le cose in modo che arriviamo al controllo autoritario.

Poi c’è un’altra paura, la paura della complessità dei saperi dal punto di vista epistemologico, perché quando si parlava di complessità, di superare le barriere delle discipline, Morin e Ceruti nel 2012, avere una visione dei saperi al di là delle competenze, dell’interdisciplinarità, della transdisciplinarità, cioè questa complessità di sapere fa paura. Allora è meglio tornare alle discipline rigidamente, per cui Geostoria bisogna dividerla, bisogna mettere steccati. Poi c’è la paura della tecnologia, paura dell’intelligenza artificiale, che va presa con prudenza. Anche qui senti tra le righe la paura, ad esempio, delle autonomie delle scuole. Senti quella paura lì perché sfuggono al controllo.

Senti la paura della libertà di insegnamento, sfugge il controllo, mentre nel 2012 era assolutamente enfatizzata. Ma poi c’è la grande paura, su cui tanti hanno riflettuto, la paura della globalità del mondo, la paura delle stranità, la paura di qualcosa che non siamo noi Italia, noi Occidente, questa visione stretta. Ma perché c’è una visione stretta, molto italocentrica o occidentalocentrica? Perché il resto del mondo ti fa paura, fa paura l’altro, la complessità, le altre culture, allora ti chiudi, ad esempio, sulla storia.

È incredibile. Basta farli lavorare sulle fonti, perché chi sa mai cosa si inventano sulle fonti. Raccontiamogli la storia di Muzio Scevola, raccontiamogli la storia edificante dei martiri di Belfiore. Io immagino un ragazzino che sente a casa il telegiornale e sente parlare di Gaza, della Palestina, dell’Ucraina, dei dazi, di Trump e della Cina, sente tutta una globalità del mondo e lui a scuola ha sentito dei martiri di Belfiore, una piccola vedetta lombarda, ecco che poi non riesce ad avere gli strumenti per capire e stare nel mondo. Queste sono le grandi paure che si sentono, e quando c’è paura, tendi a irrigidirti, a chiuderti, a difenderti e a controllare. Chiaramente la personalità autoritaria fa così e ne escono fuori quelle indicazioni del 2025.

Chiudiamo con un’ultima domanda. Lei parlava dell’autonomia scolastica. In passato abbiamo visto che c’è stato un ampio uso dell’autonomia, in particolare nei casi delle scuole senza voti, oggi è possibile proseguire in questi termini, ovvero che le scuole riescono a trovare degli spazi di autonomia, o c’è un irrigidimento totale per cui non c’è più autonomia neanche per le scuole?

L’autonomia, che ha una lunga storia, non è stata sfruttata fino in fondo. Si poteva fare molto di più, perché l’autonomia vuol dire organizzativa, didattica e di ricerca. Puoi fare un sacco di cose se hai un dirigente o una dirigente che hanno fantasia e coraggio. Molte scuole fanno cose molto interessanti, appunto anche la questione dei voti. Si può tranquillamente continuare a fare, perché non pongono un divieto queste indicazioni, non enfatizzano questo, per cui è chiaro che non sostenendo una cosa, chi ha paura, chi è poco coraggioso, chiaramente si sente legittimato a fare più resistenza a qualche docente o qualche team che volesse sperimentare cose più innovative.

Io ho sentito in questi giorni, lavorando a questo libro con i colleghi e poi anche ad alcune presentazioni, che la quasi totalità dei docenti rimpiange le linee guida del 2012 e si pone con una netta critica nei confronti di queste del 2025. La mia speranza è che la scuola vera, quella che lavora, non le commissioni di esperti, ma la scuola vera, che tutti i giorni è in classe, che lavora con i ragazzi, le ragazze, le famiglie, i colleghi, eccetera, quelli continueranno a sperimentare e muoversi su un terreno innovativo.

WhatsApp
Telegram

Offerta Riservata TFA 2025: Abilitazione all’insegnamento da € 1.400 con Mnemosine