DAD solo per non vaccinati e danni psicologici, ne parliamo con Daniele Novara
Il Governo ha varato le nuove norme sulla gestione delle quarantene per i bambini che frequentano la scuola primaria distinguendo tra vaccinati e non vaccinati. Questi ultimi in caso di positivi in classe, pari o superiori a 5 in una classe, andranno in didattica a distanza.
Regole che lasciano diversi dubbi: Genitori e Dirigenti scolastici hanno già espresso le loro perplessità, un aspetto particolare riguarda la gestione della classe dal punto di vista pedagogico. Ne parliamo con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
Professor Novara, lei ha da tempo affermato che la scuola ha bisogno di una maggiore visione pedagogica. Le scelte adottate in questi anni di pandemia, purtroppo, non sono andati in questa direzione, o solo marginalmente. Le nuove norme legate alla pandemia in ambito scolastico rischiano di spacchettare la classe tra studenti vaccinati in presenza e studenti non vaccinati collegati a distanza. Questo aspetto mette in grossa difficoltà i docenti che si trovano a dover gestire una classe non omogenea. Sono molti i dubbi sulla effettiva partecipazione di tutti gli studenti alla lezione, con il rischio di “perdere” alcuni studenti, in particolare quelli collegati in remoto. Ci aiuta a capire come potrebbero essere gestite queste classi?
La scuola ha già dato abbondantemente, si è sacrificata molto in questo periodo. La scuola italiana è fra quelle che in Europa ha subito maggiormente il lockdown, le chiusure, avendo restrizioni più forti di tutta l’area europea e questa nuova delibera del governo lascia ancora una volta gli insegnanti, i genitori e specialmente gli alunni in una condizione veramente difficile se non precaria. Non è assolutamente facile, in contemporanea, gestire la classe divisa tra alunni in presenza e alunni a distanza in DAD.
Non esiste una formazione, da questo punto di vista, dei docenti né tantomeno dei dirigenti scolastici. Prendiamo ad esempio la Primaria, ad oggi sappiamo che il tasso di vaccinazione tra i 5 e 12 anni è di circa il 30%, vuol dire che se dovesse succedere una situazione del genere praticamente resterebbe in classe meno della metà della classe mentre la maggioranza andrebbero in DAD, una situazione parossistica. Viceversa, alla Secondaria, sia di primo che di secondo grado, la percentuale dei vaccinati è molto più alta, a cui dobbiamo aggiungere quelli che hanno ottenuto il green pass attraverso la guarigione dalla malattia, e quindi ci attestiamo attorno al 90%. In entrambi i casi la normativa appare incongruente perché alla primaria manderemmo a casa quasi tutta la classe, mentre nella scuola secondaria una minoranza.
C’è un evidente equivoco nella gestione di questa situazione, in altre parole ancora una volta sul piatto della bilancia vengono messe solo e unicamente le ragioni precauzionali legate alla sicurezza puramente medico/sanitaria, piuttosto che un concetto più ampio di salute che tenga in considerazione tutto. La scuola è salute, non dimentichiamolo, andare a scuola è un elemento di prevenzione. Andare a scuola fa bene, l’ho detto tante volte e non sono il solo a pensarla così.
Non fa bene restare a casa, che sia in DAD o non in DAD. L’elemento casalingo, portato all’estreme conseguenze, è un elemento che richiude i nostri bambini e i nostri ragazzi in un alveo di accudimento materno, li riporta nella tana materna, creando forme di isolamento che poi si pagheranno negli anni successivi. Si stanno creando problemi seri per i nostri ragazzi e a questo punto mi chiedo se ne valga la pena questa gestione di una minoranza di adolescenti e, viceversa, della maggioranza dei bambini alla primaria, ritengo assolutamente che non sia il caso perseverare su questa linea.
Un altro aspetto che ha suscitato diversi dubbi è il rischio di discriminare gli studenti, in DAD andranno i non vaccinati. Qual è il suo giudizio da un punto di vista pedagogico, quale imprinting rischiamo di lasciare ai nostri studenti in così tenera età?
Le risposte sono note, nella primaria, la fascia dai 6 a 10 anni circa, i bambini sentono molto la dimensione dell’appartenenza. Restare a casa mentre i loro compagni sono a scuola, quindi non tutti in DAD come per le quarantene pure e semplici, ha per loro un unico significato, quello dell’abbandono. A quell’età il bambino è ancora molto dipendente dalle figure degli adulti, che siano genitori od insegnanti, e quindi nel momento in cui gli viene detto di stare a casa, mentre i compagni stanno in classe, è come quando non vengono invitati al compleanno del loro compagno di classe, viene avvertito come un abbandono. In questo caso, però non è il compagno di classe che non ti invita, è proprio l’istituzione, il mondo degli adulti, che gli dice di stare a casa.
Voglio sottolineare che il bambino non è in grado di fare un ragionamento che lo porti a comprendere che si resta a casa per il rischio del contagio, al massimo lo potrebbero fare i bambini dell’ultimo anno della scuola primaria, anche se lo assimilerebbe come un senso di colpa. Non dimentichiamo che a quell’età i bambini credono ancora a Babbo Natale e la stessa Liliana Segre ha sconsigliato di far vedere immagini dell’olocausto ai bambini della primaria, questo per dire che siamo in una fase della vita molto delicata e molto sensibile nella quale i temi dell’abbandono sono veramente importanti. Invece nel ragazzo adolescente accentuiamo gli aspetti conflittuali, è come mettere altra benzina sul fuoco. Questa minoranza di non vaccinati sono quelli che già non possono fare nulla, quindi non possono fare sport o danza, non possono frequentare i laboratori musicali, non possono andare ad un bar e via dicendo, ed è una situazione già di per se molto pesante. Per questo 10/20% di ragazzi andare ad aggravare ulteriormente la situazione che stanno vivendo con questo intervento giuridico appare un ulteriore carico che definirei discriminatorio, non trovo altri termini, perché di fatto vengono discriminati non potendo stare in classe.
Comprensibilmente i ragazzi che vivono una situazione di questo tipo sentono il peso e arrancano, si trovano in difficoltà, e si ritrovano a passare il tempo nel mondo virtuale, tra DAD e videogiochi, e non è il massimo, anzi è l’anticamera di una serie di possibili disturbi. Qualcuno potrebbe dire che se la sono cercata, facciamo attenzione, perché comunque stiamo parlando di minori, non è che la decisione sia dei ragazzi. Non dimentichiamo che questa pandemia colpisce in maniera più pericolosa prevalentemente le persone di una certa età, non c’è mai stato, dal punto di vista scientifico, nessun allarme né sui bambini né sui ragazzi, quindi non mi sembra il caso di voler fare i primi della classe nella sicurezza sanitaria o presunta tale.
Se vogliamo guardare il problema, nel suo complesso, ogni giorno sui giornali leggiamo di allarmi sulla condizione dei giovani e dei bambini. Vogliamo costruire una sicurezza, relativamente alla salute, oppure ci interessa semplicemente fare un po’ di demagogia, tanto per tenere l’opinino pubblica tranquille. Di certo tranquilli non sono i genitori che da tempo protestano per questa situazione. Certo esistono anche genitori che si sentono tranquilli perché quelli non vaccinati se ne stanno a casa con la mamma, però la società deve fare un discorso complessivo, le autorità devono fare un discorso complessivo, lasciare miglia di ragazzi in questa condizione è rischioso per loro e per il nostro futuro. Abbiamo bisogno di evitare che si incancreniscano nell’isolamento, quella presa a me sembra una decisione eccessiva, fuori misura, su cui non sono state valutate le conseguenze in maniera attenta, nella loro globalità, nella loro complessità. Quando si prendono determinate decisioni ci vorrebbe più attenzione, più prudenza. Giocare con i bambini e con i ragazzi vuol dire giocare con il nostro futuro.
Lei ci ha parlato di allarme per i nostri ragazzi, di recente una docente con funzione strumentale all’inclusione ha scritto alla nostra redazione che negli ultimi anni, anche in conseguenza dell’emergenza pandemica che stiamo vivendo, ha constatato una preoccupante diffusione di patologie legate all’ansia, alcune delle quali arrivano ad assumere la forma grave del rifiuto di partecipare alle lezioni. Cosa ci può dire in merito a questa situazione ed in particolare come affrontarla.
Su questo le idee che stanno girando nei contesti mediatici, e non solo, sono idee di accentuare la neuropsichiatrizzazione dei bambini e degli adolescenti, nel senso che se hanno disturbi di ansia li curiamo: esiste la neuropsichiatria infantile, esiste la psicoterapia ed esistono gli psicofarmaci. A me sembra che tutto ciò sia assolutamente equivoco, inquietante e imbarazzante. Non è che oltre al danno possiamo offrire ai ragazzi anche la beffa, ovvero non è colpa loro se sono stati isolati due anni ed adesso vanno in ansia, che colpa ne anno? È una situazione che tutti ci siamo trovati a vivere, per un quarantenne starsene in casa in smart working non comporta grandi problemi, ma i ragazzi hanno bisogno di uscire dal nido materno, se non esce sta male.
Quindi oltre a questo malessere, che a mio avviso è stato gestito male, perché le scuole in Italia sono state chiuse eccessivamente e con restrizioni eccessive, adesso l’unica cosa che siamo in grado di offrirgli è una bella diagnosi neuropsichiatrica, dei bei psicofarmaci, degli ansiolitici. Qualcosa non torna nel conteggio di questi eventi e di queste evenienze. I bambini ed i ragazzi hanno bisogno di tempo per riprendersi da questa tragedia, io stesso ho bisogno di tempo, a volte mi capita di ripensare ai convegni che facevo nei teatri, anche due volte a settimana, prima della pandemia e poi di colpo tutto sospeso. Sono tornato in un teatro poco tempo fa ed è stato bellissimo, come un ragazzino che torna a salire su un albero in primavera, erano due anni che non andavo in un teatro.
La vita ci è scivolata tra le mani in questi due anni, non è semplice rimettere in piedi una normalità, per cui il problema credo che non sia quello di sostenere chi si occupa dei disturbi dei ragazzi, ma dovremmo adottare due operazioni in particolare, la prima è quella di ripristinare al più presto possibile ogni forma di normalità per i ragazzi, la scuola, lo sport, le frequentazioni, dobbiamo riaprire tutto perché è la normalità che li cura e non gli psicofarmaci; la seconda è quella di sostenere le famiglie, penso ai bonus dati a pioggia a tutti e mi domando come mai le istituzioni e la politica non abbiano mai pensato ad un bonus alla genitorialità, che poi sono quelli che si devono occupare dei figli appena c’è una chiusura. Sappiamo bene che una parte di donne non sono riuscite a ritornare al lavoro perché sono mamme che non sono più riuscite a risintonizzarsi, non hanno più avuto la possibilità. È un fatto molto grave, perché il lavoro delle donne è molto importante, non è soltanto un problema di emancipazione, è un problema di qualità sociale della nostra vita e di qualità delle relazioni tra genitori e figli. Il genitore che lavora è un valore aggiunto per i figli, non una diminuzione.
Mi appello, per l’ennesima volta, al Governo e a tutti quanti possano intervenire in questo senso, affinché si pensi ad un bonus educativo, perché l’anello mancante non sono le terapie neuropsichiatriche, con tutto il rispetto per chi fa questo lavoro e a cui va tutta la mia stima, ma è l’educazione. In questi due anni fra le mura domestiche, dove ci sono genitori e bambini, ne sono successe di tutti i tipi. Ci sono bambini specializzati nel tiro degli oggetti ai genitori, oppure nel tirare calci, ci sono bambini arrabbiatissimi, adolescenti che si sono chiusi in una stanza e non ne sono più usciti, oppure che passano 7/8 ore al giorno davanti alla realtà virtuale. Il rapporto genitori figli è diventato quasi un rapporto di gioco, un rapporto alla pari, e dove non si è riusciti in questo intento ci sono solo urla.
È difficile riuscire a convivere tra le mura domestiche senza la scuola, le attività sportive e tutti i rinforzi che la società ha sempre messo a disposizione delle famiglie e che in questi due anni si sono semplicemente interrotti. Quindi il bonus educativo è necessari e deve essere speso in sport, musica, attività laboratoriali, sostegni psico-pedagogici, parent counseling, scuole genitori, letture di libri. Un po’ come si fa per i docenti con il bonus docenti. Oggi fare i genitori è diventata un’impresa titanica, le statistiche ci dicono che un figlio nel primo anno di vita costa in media 7.000€, circa un terzo di uno stipendio medio annuo, poi ci domandiamo come mai c’è il calo demografico. Dobbiamo dare rinforzi, supporti ai genitori.
In questi due anni i basilari educativi sono andati random, al fai da te totale. I genitori hanno bisogno di informazioni ma anche di spazi gioco, sport e che la giornata dei loro figli abbia spazi esterni all’ambito familiare. Abbiamo già un primato europeo per le neurodiagnosi in ambito scolastico, ne vogliamo aggiungere ancora? Forse è meglio che i nostri bambini e i nostri ragazzi tornino il prima possibile alla normalità e che i genitori siano aiutati nell’educazione ai figli. Abbiamo bisogno di coraggio e non di piagnistei sui nostri giovani.
Chiudiamo con un’ultima domanda, questa confusione rischia di portare un ulteriore carico psicologico negativo sui nostri ragazzi, già logorati da due anni di pandemia. Parliamo sempre di un approccio positivo ai problemi, abusiamo nei vari contesti della parola resilienza, ma poi quando dobbiamo prendere decisioni ci lasciamo vincere dalla paura di correre rischi, questo accade principalmente nel nostro paese. Lei da tempo dice che la scuola è il luogo più sicuro per i nostri figli. Restano irrisolti altri problemi, come quello del trasporto, che rappresenta un contesto ben più pericoloso per la diffusione del virus rispetto alle nostre classi. Ci lascia con un suggerimento per aiutare i nostri studenti a crescere veramente più resilienti?
Concordo che occorre evitare la retorica. Alla scuola è stato chiesto troppo. Ad un certo punto le restrizioni scolastiche sono diventate superiori ad un reparto di pediatria in ospedale, questo non è giusto, semplicemente perché la scuola non può essere equiparata ad un ospedale. La scuola è una comunità di apprendimento, una comunità dove si interagisce, si condivide, altrimenti è normale che poi ci ritroviamo i bulli. In una scuola frontale i bulli si nascondono molto facilmente, se una classe deve solo ascoltare o le videolezioni o l’insegnante alla cattedra, è chiaro che può succedere di tutto, ma se la classe interagisce e si muove, si fa comunità, diventa tutto più fluido, si attivano i meccanismi di imitazione, di condivisione, di aiuto reciproco, di solidarietà e diventa quello che noi ci aspettiamo dalla scuola, cioè che la scuola aiuti i nostri ragazzi ad imparare a stare insieme. Quindi il problema è di evitare l’isolamento, non possiamo alzare l’asticella solo per la scuola.
La questione dei trasporti, ad esempio, non può essere usata come un alibi per accanirsi sulla scuola, bisogna cercare di fare il possibile per affrontare questo problema. Così come per il problema del sovraffollamento scolastico che non può essere usato per non mandare i ragazzi a scuola, bisogna fare in modo che le classi siano al massimo di 20 alunni, facendo attenzione a non andare nella direzione opposta, quella delle classi bonsai, che sono altrettanto deleterie. Bisogna trovare una dimensione pedagogica, se dal Governo mi chiedessero un’indicazione non avrei problemi a darle. Bisogna capire se si chiedono queste indicazioni ai tecnici oppure a chissà chi, perché in questi anni le figure che hanno dominato le scelte scolastiche non sono di certo le figure pedagogiche, che sono state sostanzialmente accantonate. I pedagogisti sono rari nei contesti scolastici, c’è bisogno di un riscatto da questo punto di vista proprio per restituire una connotazione pedagogica, educativa, alla scuola.
Voglio fare un esempio, dall’11 febbraio le mascherine all’aperto sono state abolite, ma se usciamo per le strade noteremo che ci sono persone, anche da sole, che continuano a girare con la mascherina. Questo non va bene, dal mio punto di vista, perché significa che in qualche modo abbiamo incorporato la restrizione e diventa un aspetto molto ansiogeno per i nostri ragazzi. Lo vedo anche con il mio nipotino che quando esce da scuola resta un’altra mezzoretta con la mascherina indossata anche se non ce ne sarebbe bisogno perché, ad esempio, va a fare attività motoria. Abbiamo la necessità di evitare ogni forma di “DPCM casalingo”, dobbiamo ritrovare maggiore tranquillità, perché la salute non è semplicemente metterci a protezione di un virus, ma è un concetto molto più complesso.
I ragazzi hanno bisogno di muoversi, di restare collegati tra loro, di incontrarsi, di evitare di passare troppo tempo sui dispositivi digitali, questo è un appello che mi sento di dare ai genitori, in particolare di evitare l’utilizzo di questi dispositivi di notte, è un grave attentato alla loro salute perché non dormono, ma è anche un grave attentato ad un normale risultato scolastico perché di fatto vanno “fuori uso” in queste condizioni. Bisogna tornare ad usare i parchi gioco perché sono centri di socializzazione.
Dobbiamo tornare a far vivere ogni esperienza ai nostri figli: sport, musica, giocare con gli amici, andare a trovare zii e nonni. Dobbiamo farli uscire di casa, la cosa più pericolosa per loro è proprio stare in casa, dobbiamo creare contesti che riportino i nostri ragazzi verso la normalità. Abbiamo necessità di messaggi positivi e bisogna abbandonare tutta quest’ansia, che è stata assorbita eccessivamente dai più giovani. C’è stato anche un eccesso di informazioni, sempre rivolte ad aumentare l’aspetto ansiogeno della pandemia, che i nostri figli hanno assorbito ma che non sono in grado di decodificare. Meglio leggere qualche fiaba che ascoltare i virologi. C’è bisogno di fare esperienza fuori casa, vivere la natura, vivere i compagni, vivere il gioco, vivere lo sport.