Meglio alfabetizzare all’Infanzia o alla Primaria? Il metodo globale è collegato all’aumento dei casi di dislessia? Ne parliamo con Antonio Calvani [INTERVISTA]
Tra le questioni che accomunano il mondo della scuola e quello della genitorialità, come e quando si debba insegnare ai bambini a leggere e a scrivere è certamente tra le più centrali e dibattute. E alle discussioni si accompagnano spesso le proposte, come quella appena licenziata da Carocci col titolo Imparare efficacemente a leggere e scrivere, in cui gli autori Antonio Calvani, Paola Damiani e Luciana Ventriglia ci segnalano i vantaggi di una nuova metodologia operativa, il programma ALFABETO140, validata mediante la comparazione di più sperimentazioni e la realizzazione di meta-analisi. Prendendo marcatamente le distanze da molte pratiche correnti, il volume propone un metodo di alfabetizzazione per bambini di 6-7 anni basato sulla centralità della corrispondenza grafema-fonema, sulla consapevolezza fonologica, sulla necessità di una progressione fonologica sistematica. Ne abbiamo parlato col Prof. Antonio Calvani, direttore della collana Le evidenze della ricerca in educazione in collaborazione col SApIE.
Professor Calvani, in questo volume vengono passati al setaccio alcuni luoghi comuni dichiarati infondati sul tema dell’apprendimento e dell’insegnamento della lettura e della scrittura, per esempio il fatto che sia meglio far arrivare i bambini in prima elementare senza alcuna infarinatura relativa a grafemi e fonemi.
In effetti una delle misconcezioni didattiche più diffuse è quella secondo cui si dovrebbe ritardare l’incontro dei bambini con le operazioni di decodifica e codifica che costituirebbero una sorta di violenza arbitraria, in particolare se richieste in età prescolare (ma se ne conservano le tracce anche a inizio della scuola primaria, dove si perde molto tempo iniziando l’alfabetizzazione con racconti, disegni, “sfondi integratori” e altro); si è costruito un castello di teorie prive di fondamento scientifico che produce un ritardo per tutti i bambini e risulta dannoso per quelli a rischio DSA.
Un esperimento, che si aggiunge ad una lunga fila di testimonianze, come quello compiuto da Vittorio Midoro del CNR di Genova, dimostra come i bambini possano arrivare a leggere, sviluppando anche una alta motivazione, prima di entrare nella scuola primaria solo se sollecitati da adulti accorti, con approccio ludico, gradualizzato ed evitando il rischio di essere troppo esigenti.
Questo non vuol dire che, anche se lo si potrebbe fare, sia necessario insegnare a leggere e scrivere compiutamente nella scuola dell’infanzia, su una decisione del genere vanno fatte anche altre considerazioni di ecologia educativa, ci sono infatti altri aspetti che la scuola dell’infanzia deve primariamente salvaguardare. Però a questo livello dovrebbe essere iniziato il percorso di educazione metafonologica e di corrispondenza grafema-fonema fino almeno ad accertare che il bambino in uscita sia al di fuori della zona del rischio di dislessia.
Viene fatta anche una condanna senza appello del metodo globale.
Sì. Sul piano scientifico la questione è stata chiusa da molti anni. S. Dehaene, il maggior neuroscienzato che si è occupato della lettura (vedi I neuroni della lettura, Cortina), sostiene che è “criminale” continuare a propagandare metodi globali o ideovisivi dietro la giustificazione della libertà d’insegnamento.
Esiste una responsabilità del metodo globale nell’ aumento esponenziale dei casi di dislessia degli ultimi decenni? Ho letto che nella sperimentazione condotta il programma ALFABETO140 ha ottenuto risultati nettamente migliori rispetto alle pratiche correnti, in particolare con gli allievi a rischio dislessia.
Non siamo in grado di fornire statistiche precise sui grandi numeri. Possiamo però affrontare il problema in modo diverso; con la neuroimmagine si è mostrato come il metodo globale attivi circuiti diversi da quelli propri dei lettori esperti e come, sul versante opposto, dopo un valido intervento didattico si vengano ad attivare anche in questi soggetti circuiti adeguati, parallelamente ad un superamento delle soglie minime dei risultati ai test che misurano la dislessia (per queste sperimentazioni vedi sempre Dehaene).
Per quanto riguarda la nostra sperimentazione, abbiamo verificato che dei bambini che all’ingresso in prima risultavano a rischio di dislessia, ricontrollati in uscita, rimanevano nella “zona rischio” uno su due per il gruppo di controllo, uno su cinque per il gruppo sperimentale. Ma anche altre ricerche sperimentali specifiche sul rischio dislessia hanno portato risultati che vanno in questa stessa direzione.
Tutto questo porta a ritenere ragionevole che, con una lingua trasparente come l’italiano, il problema “dislessia”, potrebbe essere ridotto ad un livello prossimo allo zero se le scuole riuscissero ad organizzare dei percorsi integrati e continuativi, con interventi precoci di attivazione delle abilità carenti, tra i quattro e gli otto anni.
In un punto del testo si allude al fatto che il metodo globale debba la sua diffusione in Italia all’attivismo pedagogico. Ci vuole spiegare meglio questo legame?
Come noto, l’attivismo è stato un movimento dei primi decenni del secolo scorso che ha cercato di rendere la scuola più rispondente ai bisogni del bambino. Alcuni dei principi di riferimento erano il rispetto della spontaneità e della globalità nell’apprendimento. L’attivismo ha rappresentato un tentativo generoso di cambiare una scuola troppo rigida e autoritaria, ma non è rimasto immune da diverse ingenuità. Così ha diffuso l’idea che i bambini potessero imparare a leggere in modo naturale, nello stesso modo in cui imparano a parlare, senza l’intervento di qualcuno che mostri le corrispondenze grafema-fonema. In realtà, imparare a leggere è strutturalmente diverso da imparare a parlare. Come dice V. Wolf, “Non siamo nati per leggere”.
Il volume non nasconde un atto di accusa esplicito verso la quasi totalità dei testi in adozione nella prima classe della primaria, colpevoli di accogliere al loro interno un vero e proprio ‘potenziale distrattivo’ e di disconoscere alcuni assunti fondamentali dell’approccio fonosillabico.
I testi in circolazione ignorano i fondamenti basilari della ricerca scientifica sulla lettura: riproducono i difetti dei tradizionali metodi globali o ideo-visivi basandosi per lo più su giochi grafici a indovinello, in un contesto sovraccarico di grafica che aumenta dispersione e distrattività. La dimensione fonologica e la sua necessaria progressività sono quasi ignorate.
In una sintesi estrema e con le dovute cautele, si può dire che ALFABETO140 segni quasi un ritorno alla tradizione? Come si legge proprio nel vostro volume, i programmi dell’Italia neounitaria prescrivevano un metodo sintetico e fortemente graduale: “Molta attenzione era dedicata alla gradualità, con il passaggio dalle forme più semplici a quelle più complesse, con uno sforzo tendenziale al riconoscimento di una progressività fonologica”. (p. 98)
Questo è vero in parte. La tradizione aveva ragione nel perseguire un metodo alfabetico, sintetico, procedendo dal semplice al complesso, in qualche caso mostrando anche una certa attenzione alla progressività fonologica.
Ci sono però alcune differenze. I metodi fonosillabici odierni si avvalgono di una conoscenza più approfondita, in particolare sulla progressività fonologica. Il concetto di consapevolezza fonologica, globale ed analitica, ha rappresentato una svolta importante avvenuta solo negli ultimi decenni del secolo scorso.
Così, un errore ricorrente dei metodi tradizionali era quello di pretendere di far pronunciare le consonanti da sole, sottovalutando il punto di appoggio offerto dalla vocale nella sillaba, o di insegnare a leggere e scrivere usando contemporaneamente tutti gli allografi, ignorando i rischi del sovraccarico cognitivo su cui teorie più recenti ci hanno reso decisamente più consapevoli.
Ma al di là di questo, la differenza di fondo è di natura culturale ed educativa, si lega al contesto scuola in cui l’alfabetizzazione è da sempre situata; in passato l’insegnamento della lettura e della scrittura, dalle classiche “nerbate” delle scuole mesopotamiche sino a qualche decennio fa, era l’emblema di una scuola rigida, ripetitiva e punitiva, dove l’errore era pesantemente sanzionato, era lo stigma del fallimento.
Ora si può aprire una strada nuova. Tutti gli insegnanti possono verificare come apprendere a leggere e scrivere, trasformando la classe in un laboratorio fonologico, possa diventare un’avventura divertente e motivante per tutti i bambini, in un contesto ludico in cui non solo si accetta l’errore ma dove l’insegnante si mette in gioco e si diverte anch’egli a sbagliare.