Maltrattamenti a scuola: quali sanzioni amministrative seguono alla sentenza

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Mentre a scuola impazzano i casi di presunti maltrattamenti da parte delle maestre a carico dei bimbi, giungono a sentenza i primi casi: si spazia dalle assoluzioni per non aver commesso il fatto (Treviso) alle condanne esemplari come i quattro anni e mezzo di reclusione subito “appellate” (Partinico).

Il disaccordo tra gli stessi giudici, in legittima difficoltà quando si entra in un campo a loro sconosciuto come l’ambiente scolastico, è palpabile e palese: prova ne sia il caso milanese in cui il GIP è contro il PM, il Tribunale del riesame contro il GIP, mentre il PM insieme al Procuratore Generale si appellano contro la sentenza del giudice di primo grado. Più volte ho messo in evidenza i limiti giudiziari nello svolgimento delle indagini che in ordine di importanza sono: a) il mancato contingentamento dei periodi di videoregistrazione attuando la cosiddetta “pesca a strascico” da parte degli inquirenti; b) la visione e  l’analisi dei soli trailer negativi, cosa che è in contrasto con quanto afferma il principio di diritto della Suprema Corte che pretende dagli inquirenti una valutazione d’insieme dell’operato dell’insegnante indagato; c) la trascrizione in atti delle videoregistrazioni da parte di personale non specializzato in educazione/insegnamento/assistenza. E molto altro ancora, ma qui mi fermo per esigenze di spazio.

Tutto ciò premesso desidero affrontare un nuovo capitolo che riguarda il provvedimento amministrativo assunto dall’USR (Veneto nella fattispecie) a seguito della sentenza di due maestre passata in giudicato a seguito di un patteggiamento. Nel caso in esame, accusa e difesa avevano patteggiato una condanna minima di 40 giorni di reclusione che ha chiuso definitivamente il caso. Il patteggiamento infatti non equivale ad ammissione di colpevolezza (Sent. Cass. N° 4170/16) e può essere richiesto per innumerevoli motivi quali ad esempio il contenimento delle spese giudiziarie e dei tempi processuali, la difficoltà a reperire prove della propria innocenza, il desiderio di sottrarsi in fretta alla gogna mediatica e via discorrendo.

L’USR aveva sottoposto a sospensione cautelare le due maestre fino alla chiusura del processo giudiziario in attesa di assumere un provvedimento amministrativo in linea con la sentenza definitiva. Tuttavia le intenzioni dell’USR nel caso in esame non lasciavano ben sperare in quanto rigettavano senza appello il succitato principio di non colpevolezza attribuito dalla Cassazione al patteggiamento. L’USR motivava il proprio atteggiamento adducendo sentenze di segno opposto seppure meno recenti. Il rischio era pertanto di incorrere in un licenziamento per giusta causa che avrebbe posto fine (ignominiosa) alla carriera professionale delle due attempate maestre rispettivamente di 60 e 66 anni.

Occorre qui riproporre una decisiva riflessione sull’avanzata età delle due insegnanti che, secondo l’accusa, avrebbero tenuto comportamenti poco ortodossi solo negli ultimi tempi. Si escludeva pertanto la presenza di un’indole malvagia delle maestre che avrebbe condizionato e caratterizzato il loro rapporto con la giovane utenza per l’intero arco della carriera professionale. L’unica ipotesi plausibile dunque è che l’usura psicofisica della professione può aver indotto in talune occasioni alla perdita del controllo degli impulsi. In questo caso però la scuola avrebbe dovuto provvedere ad un’attività di monitoraggio e prevenzione dello Stress Lavoro Correlato ai sensi dell’art. 28 del DL 81/08. Ma di questa attività non vi è traccia alcuna agli atti della scuola, nonostante il precedente governo abbia riconosciuto come lavoro usurante quello di maestra della scuola dell’infanzia. Il perché di questa non trascurabile mancanza è ben noto: il Miur non finanzia, né l’USR controlla l’attività di prevenzione dello Stress Lavoro Correlato; il dirigente scolastico a sua volta non la attua essendo sprovvisto di risorse e formazione in merito; l’insegnante vede inapplicata la tutela della propria salute per il non riconoscimento delle malattie professionali e la loro prevenzione.
In ultima analisi è l’insegnante a pagare tutto, proprio perché è l’ultimo anello, più fragile e indifeso, della catena.

Sarà unicamente per la pena minima comminata alle due maestre (vi deve sempre essere una proporzionalità tra provvedimento giudiziario e amministrativo) che per le due insegnanti non è stato previsto il licenziamento, ma voglio sperare che si tratti soprattutto di un’assunzione di responsabilità da parte dell’USR che resta di fatto responsabile, insieme al Miur, della mancata prevenzione dello Stress Lavoro Correlato dei docenti. Assunzione di responsabilità che deve però costituire il punto di partenza, e non d’arrivo, per recuperare tutto il tempo perso finora in materia di tutela della salute degli insegnanti, perché tale normativa è vigente dal 1° gennaio 2011.

Le due maestre potranno quindi tornare al lavoro – per quel po’ di tempo che resta loro – ma esclusivamente in un ruolo amministrativo, senza più avere contatto con i bambini. In altre parole non sono più ritenute idonee alla mansione di maestre, non più capaci di svolgere quel lavoro cui hanno dedicato la vita. Davvero un triste e ingrato epilogo che nemmeno le innumerevoli lettere e attestati di stima di genitori riusciranno ad alleviare. Eppure, se si eccettuano i casi di assoluzione, quello presente è uno di quelli finiti meglio: niente carcere, nessuna famiglia costituita come parte civile al processo, nessun danno da risarcire etc. Il risultato è comunque negativo e lascia nelle due donne uno strascico depressivo se non una vera e propria Sindrome Post Traumatica da Stress. Soprattutto perché gli atti processuali da me visionati finora hanno confermato che nella assoluta maggioranza dei casi si è trattato di una tempesta scatenata in un bicchier d’acqua, cui si è pensato erroneamente di contrapporre una soluzione giudiziaria: come sparare a una mosca col bazooka.

Colgo quindi l’occasione per ringraziare tutte le maestre che mi hanno dato accesso agli atti processuali per poter studiare da vicino il fenomeno dei presunti maltrattamenti. Riaffermo con rinnovata convinzione che la via giudiziaria non è certamente quella corretta per porre fine a un fenomeno la cui radice risiede nell’assenza dell’istituzione (Miur) e nelle riforme previdenziali operate al buio dalla politica, senza cioè valutare preventivamente la salute dei lavoratori in termini di malattie professionali, genere, età, anzianità di servizio. Il tutto in barba al DL 81/08.

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