Luigi Berlinguer, la sua ultima grande battaglia

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Arturo Marcello Allega, dirigente scolastico e membro del Comitato per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica, in un articolo, ricorda la figura di Luigi Berlinguer, scomparso lo scorso 1 novembre. 

Berlinguer, figura emblematica nel panorama politico e culturale italiano, lascia un’eredità indelebile nel settore dell’istruzione. Nota la sua visione di una scuola inclusiva e accessibile a tutti, Berlinguer ha dedicato la sua vita a trasformare questo ideale in una realtà tangibile.

Luigi Berlinguer. La sua ultima grande battaglia.

di Arturo Marcello Allega

Di Luigi Berlinguer, del suo pensiero, dei suoi interessi e della sua storia, si dice molto e molto ancora diranno amici e conoscenti. Che sia stato un uomo di grande spessore politico è indubbiamente riconosciuto anche da chi lo ha sempre osteggiato.

Qui, vogliamo onorare la sua passione dominante: la scuola. La scuola era la sua vera passione, la scuola di tutti, la scuola per tutti, la scuola dove ognuno potesse crescere secondo le sue inclinazioni e le sue aspettative, la scuola dove sognare ed amare fossero il motore di tutti gli apprendimenti possibili.

Ecco perché quando l’azione politica diretta come deputato, senatore, ministro ed eurodeputato cominciava a venir meno costituì due importanti Comitati, l’uno per l’apprendimento pratico della musica e l’altro per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica, organi consultivi del Ministero dell’Istruzione.

Il Comitato per la musica aveva come obiettivo introdurre la musica (ma oggi diremmo ogni forma d’arte) all’interno della scuola di ogni ordine e grado. Si è fatto molto per la musica, molto meno per l’arte. Comunque, la musica era considerata l’ariete per spezzare le catene che imprigionano l’arte in spazi “fuori” dagli apprendimenti di tutti.

Il Comitato per le scienze e le tecnologie aveva il compito di lottare contro quell’ostracismo tutto italiano che ha sempre considerato le scienze come fanalino di coda dello sviluppo nonostante le nostre eccellenze presenti in tutto il mondo. Le attività proposte e condotte per favorire la diffusione dello studio delle scienze e delle tecnologie aveva portato il Comitato ad affrontare alcuni nodi di fondo per tentare di capire le ragioni alla radice delle difficoltà intrinseche all’apprendimento delle scienze. Una via delle nostre ricerche iniziava a divergere da quelle tradizionali che assegnavano le cause di queste difficoltà quasi esclusivamente al retaggio tutto italiano del pesante soffocamento indotto dal dominio della cultura umanistica di stampo crociano e liberarsi di questo fardello per condurci a quello che sarebbe poi divenuto l’interesse più travolgente per il padre dell’autonomia scolastica.

Nessuno sa o, comunque, pochi sanno che Luigi Berlinguer, negli ultimi anni, aveva lucidamente capito quali fossero i limiti della sua importante riforma sull’autonomia scolastica e, per questa ragione, aveva colto, sostenuto, contribuito, e più volte illuminato e fortemente spronato, l’ennesima ‘grande sfida’ rivoluzionaria lanciata da un piccolo manipolo di suoi ricercatori e collaboratori del Comitato per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica.

A dispetto dei molti detrattori (generalmente provenienti da ambienti estranei alla scuola), noi, donne e uomini della scuola ‘viva’, siamo sempre stati perfettamente consapevoli che la Riforma dell’autonomia scolastica è stata l’unica importante riforma seguita a quella Gentile, perché l’autonomia scolastica, a fronte dei molti tentativi reazionari di riportare la scuola a ‘come eravamo’, ha introdotto un ‘nuovo paradigma’: una scuola autonoma è una scuola di tutti e per tutti, una scuola dove il diritto all’apprendimento è un ‘diritto reale’ di tutti, nessuno escluso, e che l’eccellenza non è di pochi ma è di tutti, a patto che tutti possano contribuire a ‘costruire’ l’apprendimento. Come sappiamo, però, nonostante tutte le buone intenzioni iniziali, l’autonomia scolastica si è arroccata sull’autonomia organizzativa (orario flessibile, progetti, reti,…) e finanziaria (sistema di deleghe che ha caricato le scuole di grandi responsabilità senza un quadro di sviluppo dove capire come spendere i fondi ricevuti). Pertanto, l’ostacolo enorme (‘la trave nell’occhio’) che aveva impedito all’apprendimento di essere un diritto universale era, al tempo stesso, il limite macroscopicamente e spaventosamente visibile a chiunque lo volesse vedere: la totale e rumorosa assenza di un modello culturale dell’autonomia didattica. Proprio così, l’autonomia didattica non era e non è mai stata concepita e l’autonomia scolastica era stata sbriciolata in mille rivoli organizzativi e finanziari per gestione di persone, ambienti e strumenti, spesso confluiti nella scontata e capillare diffusione della tecnologia.

La grande sfida era, quindi, dare valore all’autonomia, a suo tempo introdotta e lasciata nel caos in seguito all’abbandono dei governi successivi, con la definizione di un modello culturale dell’autonomia didattica. Una battaglia nuova, più difficile di tutte le altre ma in grado di aprire tutti i portali di un mondo nuovo per la società e per gli apprendimenti. Questo modello culturale avrebbe dovuto unire nella didattica tutto ciò che è diviso, includere tutto ciò che è caoticamente distribuito dentro e fuori la didattica, fornire nuovi strumenti di lavoro e di studio, soprattutto, fornire una nuova visione della didattica e per essa degli stessi apprendimenti.

Perché la battaglia più difficile?

Ogni modello culturale è caratterizzato da almeno due aspetti essenziali, due quesiti necessari ai quali deve poter rispondere: perché e come.

Sul perché è stato scritto. L’autonomia spezza la rigida formula della scuola come “gerarchia” e la trasforma in “comunità partecipata”; spazza via l’autoreferenzialità incommensurabile e la sostituisce con una professionalità responsabile che si mette sempre in gioco e si valuta, auto-valuta (in gruppo e per confronto), migliora e cresce; abbatte il muro della lezione frontale e imposta una didattica partecipata; rimuove i confini fisici e mentali della didattica isolata nelle classi e apre l’istruzione ad una dinamica “dentro-fuori” che coinvolge e non rigetta. Tutte buone ragioni del perché questo modello e non altri.

Ma, come? Come si rompono tutti questi schemi così cristallizzati nel tempo da poter resistere alle riforme degli anni ’70 del secolo scorso e a tutti i tentativi di cambiamento avvenuti negli ultimi cinquant’anni? In fondo, nonostante tutti questi perché, gerarchie, autoreferenzialità, lezione frontale, gruppi classe chiusi, sono rimasti inalterati, sono rimaste sempre le stesse. Gli apprendimenti non migliorano e l’inserimento al lavoro giovanile non cresce, le categorie concettuali e le misure di riferimento sono fuori contesto rispetto alle analisi sociali (analfabetismo funzionale, spesso anch’esso di ritorno) e i risultati della psicologia cognitiva (ruolo e dinamica delle intelligenze di base).

E, allora, nonostante tutti i perché e le loro motivazioni, l’autonomia non funziona e non ha mai funzionato perché non si è mai capito “come” realizzare un’autonomia didattica, cioè una didattica con quegli elementi necessari e sufficienti da poter impostare una procedura di senso che garantisse ogni tipo di apprendimento (dalle scienze alle arti e alle lettere) a tutti.

Questo piccolo gruppo di ricercatori ha, quindi, infine, proposto un modello culturale dell’autonomia didattica sinteticamente rappresentato in  L. Berlinguer, A. M. Allega, V. Fedeli e F. Rocca “Manifesto dell’Autonomia Didattica” (Anicia 2020). E poiché una delle certezze di Luigi Berlinguer è sempre stata la necessità di sottoporre ogni idea nuova al confronto con una larga platea di persone operanti nella comunità di riferimento, per verificare la bontà del Modello, e con il sostegno dell’ex Ministra V. Fedeli, Luigi Berlinguer, spinse per una sperimentazione nazionale, coinvolgendo oltre un migliaio di docenti e dirigenti scolastici. I risultati furono stupefacenti e sono stati raccolti in una trilogia di volumi dedicati al Modello, all’epistemologia della didattica e degli apprendimenti, con il contributo di molti docenti, dirigenti e di Franco Cambi, Paolo Orefice e Silvano Tagliagambe, rispettivamente per le tre prefazioni. Luigi Berlinguer non poteva credere ai suoi occhi. Migliaia di docenti e dirigenti intensamente impegnati a lavorare su questo modello con la passione e l’amore che ha sempre contraddistinto questo atipico mondo del lavoro. Fianco a fianco, in giro per tutta l’Italia, per ogni Regione del paese, appagati dalla soddisfazione di osservare sul campo insegnanti della scuola, trasformati in autentici ricercatori della didattica che, senza freni, non avevano più una misura del tempo.

Il punto di svolta di questo Modello è stato, ed è, tutto insito nel semplice fatto di spostare il modo di concepire la didattica da un ‘sistema di comunicazione’ a un ‘sistema di ricerca’. La didattica non è solo comunicazione (incluso il limite di quella trasmissiva e frontale) ma è soprattutto ricerca insieme, ricerca condivisa, dove ognuno è protagonista e il ‘risultato della ricerca’ è l’obiettivo comune.

La ricerca, dal canto suo, ha molti obiettivi, tutti correlati dalla profonda necessità di attivare le principali intelligenze a fondamento dello sviluppo della persona, consapevole e professionale.

Un cittadino democratico non è un cittadino manipolabile, privo di strumenti per capire la realtà che lo circonda. Un cittadino democratico è un cittadino che apprende. Apprendere è essenziale per non essere dipendenti dall’opinione altrui, dalle decisioni altrui.

In tutto questo si è tradotta la sua ultima battaglia.

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