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L’infanzia tra realismo e utopia

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La formulazione del tema “Infanzia tra realismo e utopia” insinua una distanza tra ciò che dovrebbe essere il mondo dei bambini, a partire dalle acquisizioni storico-culturali e legislative, e quello che purtroppo continua ad avvenire sia vicino a noi, sia in tante parti del mondo.

La tematica dell’infanzia non può che essere di carattere interdisciplinare, dato che chiama in causa la possibilità di diversi approcci disciplinari e di diverse prospettizzazioni della problematica; la presente riflessione, restando aperta agli apporti di tutte le scienze afferenti, si muove soprattutto nell’ambito culturale. Essa consta di tre momenti; il primo è di carattere linguistico, il secondo di carattere storico-culturale, il terzo di carattere antropologico.

Breve indagine etimologica dei termini con cui noi designiamo i bambini

Offriamo alcuni dati iniziali di una breve indagine etimologica dei termini con cui noi designiamo i bambini. Nelle lingue analizzate (greca, latina ed anglosassone), il termine “bambino” é quasi sempre un termine al negativo. Bambino viene da bambaino – “balbettare”, e onomatopeicamente designa il non saper parlare; parimenti, infante o enfant (da phari-parlare con la negazione) designa “uno che non parla”. La prima connotazione che emerge é quella che identifica il bambino per ciò che inizialmente non sa fare; egli è inabile a parlare, laddove, però, per parola si intende quella dell’uomo adulto ed, a sua volta, non sembra che venga data importanza alla molteplicità dei linguaggi dei bambini.

Altri termini come puer, in latino, simile a pauper (“piccolo”, “povero”) o paulus hanno la stessa radice, che esprime la pochezza del bambino; egli è “poco” perché è “piccolo”; sembra una connotazione di tipo quantitativo; anche qui emerge un implicito riferimento al mondo dei ‘grandi’, rispetto al cui confronto egli viene pensato.

Il termine greco pais, (da cui paideia ed i derivati pedagogia e simili) significa figlio ma può significare anche “servo”; ad esso corrisponde il termine latino famulus (da cui “famiglia”), con le ambiguità comprese tra figlio-servo padre-padrone.

In tedesco (das Kind) o in inglese (Child) il termine bambino é di genere neutro, ad indicare la sua condizione iniziale di non sessuato; anche qui c’è una qualificazione sospensiva, in vista di una caratterizzazione (sessuata) che ancora non c’è.

Perché richiamiamo l’attenzione su questo primo dato? Perché dietro le parole emerge quella stratificazione culturale che tradisce una certa comprensione della ‘cosa’; da questo punto di vista, ci sembra che non disponiamo ancora di un linguaggio corretto che designi in maniera adeguata il mistero della vita umana che, fin dalla sua origine, si va dispiegando al positivo in ogni bambino che nasce e che si fa strada in mezzo all’umanità. Nel linguaggio tradiamo quella rimozione del bambino osservabile nell’arco della storia; mentre restiamo in attesa che sia trovato quel lessico capace di evocare il “balbettante bambino” nella sua identità, riconosciuto, amato ed accolto per quello che egli già è, non in vista di ciò che dovrà diventare quando, liberato da quella inutile condizione di non-parlante, avrà finalmente introiettato il linguaggio ben strutturato dell’adulto!

Il bambino: la fantasia, la creatività, l’invenzione

In verità, abbiamo bisogno della poesia e dei poeti per dire quella sorpresa instancabile che ogni bambino è con la sua fantasia, la sua creatività, la sua invenzione, il suo gioco, la sua tenerezza, la sua spontanea libertà; infatti, in ogni bambino che nasce il mondo si riaccende come se la Creazione non fosse ancora compiuta e avesse bisogno di quel piccolo che reintroduce il novum.

Se insistiamo sul linguaggio è perché dietro le parole si tradisce la nostra falsa coscienza; non abbiamo riconosciuto il diritto all’infanzia, non soltanto dell’infanzia e del bambino, ma in primo luogo il diritto a essere bambino in quanto bambino. La stessa formulazione “diritto dell’infanzia” rischierebbe di essere fuorviante se in primo luogo non indicasse il diritto ad essere come si è all’origine, nel momento in cui nascendo si viene alla luce in questo mondo e si dà luce a questo mondo, proprio in quanto bambini.

Il diritto all’infanzia deve essere considerato non come una fase di passaggio (da superare al più presto possibile) dal non parlare al parlare, dall’essere bambino-balbettante al diventare bambino capace di fare finalmente i discorsi da grande. Povero mondo se togliessimo la voce e i discorsi dei bambini! Dietro quel balbettare, infatti, non c’è soltanto e soprattutto la ricerca della parola in quanto superamento del balbettare, piuttosto c’è la condizione originaria che ogni parola è tanto più significativa e sensata quanto più sarà intesa come un balbettamento verso la realtà ed il mistero.

La dinamica storico-culturale

L’analisi storica della condizione dell’infanzia indica come questa sia cambiata profondamente nei secoli, subendo modifiche ora lente e progressive, ora brusche; nel corso del tempo, essa ha risentito delle trasformazioni sociali e culturali, delle tensioni e delle esigenze della società del momento. A modo suo, lo studio della condizione dell’infanzia è un punto di osservazione privilegiato per cogliere non soltanto il clima culturale di un’epoca, ma ancora più le scelte di fondo oggettivate nell’organizzazione sociale. Scandiamo la nostra ricostruzione per temi, modelli e istituzioni secondo la dinamica culturale.

Temi relativi all’interpretare la condizione dell’infanzia

L’antichità non ha elaborato temi particolarmente perspicui nell’interpretare la condizione dell’infanzia. Prevale l’idea di un mondo infantile di inettitudine e di incapacità pratica, caratterizzato dall’essere in-fans, cioè dall’essere come chi, non parlando, non dispone di quel logos, che è condizione preliminare per accedere al livello della consapevolezza e della conoscenza umana; il possesso della parola-logos da parte dell’uomo adulto è il paradigma di riferimento per il senso dell’umano.

Il bambino, in quanto tale, è inetto ed incapace e non è ritenuto portatore di valori autonomi. Rimane in un’oscurità assoluta perché “fisicamente precario, economicamente non produttivo, moralmente non imputabile” , non è considerato come soggetto di diritti propri, viene valutato solo in relazione al suo avvenire di adulto per il quale viene intensamente preparato; così, lo Stato, la famiglia, gli educatori pongono su di lui le speranze di trarre un cittadino onesto, giusto e cosciente dei suoi doveri; in questo modo, egli realizza fin da piccino il suo dovere civile.

Aristotile accenna nell’Etica Nicomachea alla condizione infantile, definendola come un’età imperfetta perché ancora incapace di compiere azioni nobili. Ciò giustifica lo stato di non felicità del bambino. Tuttavia, sembra anticipare i tempi quando sostiene che lo scolaro apprende per via sperimentale e logica; il maestro gli accelera e semplifica il cammino. Parimenti, privi di arte oratoria, nell’età romana gli infantes (non parlanti) sembrano quasi identificati agli animali, esclusi dalla vita degli adulti; si caratterizzano per la loro fragilità sia fisica che mentale come le donne, i vecchi e i pazzi. Però, proprio verso questo stato assolutamente “naturale” del bambino i romani elargiscono un insolito e singolare sentimento di sacralità legato alla stessa condizione di inferiorità del bambino. È come se questa incapacità, riconosciuta come purezza, avvicinasse agli dei.

Il cristianesimo introduce una mentalità profondamente diversa. Soprattutto due nuovi concetti sono destinati ad avere un’influenza straordinaria nei secoli futuri. Secondo i cristiani, in continuità con la cultura veterotestamentaria, va riconosciuto il valore positivo della natura dell’uomo a partire dall’atto creativo di Dio; in questo senso, il valore prioritario è riconosciuto all’uomo in quanto fin dall’origine è una persona e come tale merita rispetto e attenzione. Inoltre, tutti gli uomini non soltanto sono creature di Dio ma, in forza dell’incarnazione e del mistero pasquale, sono chiamati alla dignità della filiazione divina. In particolare, alcuni testi del Nuovo Testamento aprono un orizzonte nuovo quando, parlando del singolare rapporto Dio-uomo, esso viene evocato come rapporto di abbandono del piccolo verso il Padre nella relazione Figlio-Padre; e, parimenti, parlando del regno di Dio, viene individuato nel bambino l’atteggiamento migliore della sua accoglienza.

Con la diffusione dei principi cristiani, si cominciano a creare condizioni nuove di comprensione, le cui potenzialità solo lentamente saranno esplicitate e potranno essere portate a piena realizzazione.

Nella tradizione patristica e medievale da un lato sopravvivono alcune precomprensioni assunte dal mondo greco-latino, dall’altro si fa strada la nuova prospettiva evangelica. Se Sant’Agostino continua a considerare il bambino debole, avido di cibo, geloso, disobbediente, negligente, ladro e bugiardo, guardando all’infanzia (a partire da quella personale e della quale preferirebbe non mantenere alcun ricordo) come età di pene e di costrizioni. Una maggiore valorizzazione del bambino rispetto al modello agostiniano si trova, invece, a partire dal VI secolo con la tradizione monastica, che vede nel bambino la condizione migliore per aprirsi alla rivelazione di Dio. Tale modello culturale positivo dell’infanzia è sostenuto anche, da una forte devozione che comincia a svilupparsi nei confronti di Cristo bambino. Posizione intermedia è quella che si registra agli inizi della cultura post-classica: il piccolo viene visto come modello di spiritualità perché soggetto dolce, candido, semplice, sincero, ma nello stesso tempo è una persona della quale non bisogna fidarsi. Per tutto il Medioevo permane questa interpretazione ambivalente della figura del bambino; vi convivono due facce della stessa immagine.

Nel Medio Evo staccato dal seno materno e affidato ancora per un po’ alle donne, il bambino presto smette di essere tale e viene inserito nella vita dei grandi. Nelle classi popolari il momento di questo inserimento è segnato dall’acquisizione della capacità di rendersi utili in qualche lavoro o sbrigare qualche faccenda in casa, nei campi o al mercato. Il ragazzo passa, così, direttamente dall’allevamento materno alla vita produttiva. In una società contraddistinta da condizioni precarie la formazione infantile corrisponde alla socializzazione sviluppata dai normali modi di vita e di produzione.

Nella società umanistica si verifica qualcosa di nuovo: vengono scritti diversi trattati pedagogici il cui modello letterario più ricorrente è il dialogo scolastico. In esso il personaggio principale è proprio il bambino, il quale non è più carente di logos, ma acquisendo quel processo che porta alla parola, diviene il personaggio dei dialoghi scolastici; le parole ed i pensieri dell’infans trovano spazio in questi dialoghi.

Il tema dell’infanzia va richiamando sempre più l’attenzione in epoca moderna, anche se occorre fare una distinzione tra l’infanzia popolare e l’infanzia privilegiata, distinzione che giungerà fino al nostro secolo e nata paradossalmente proprio dal miglioramento delle condizioni socio-economico-culturali e dall’avanzata sempre più evidente di uno sviluppo economico legato al decollo delle classi sociali egemoni.

Un tema ricorrente nell’Ottocento è quello della produttività del bambino, che fa riferimento al drammatico quadro del lavoro minorile dell’infanzia povera. Purtroppo, un gran numero di bambini di questa epoca consumano la propria vita in fabbrica, in miniera, nei campi e per le strade, secondo l’ideologia diffusa che la fabbrica educa e istruisce; in verità arricchisce il mondo capitalista a svantaggio dei giovanissimi lavoratori.

Le rivendicazioni sociali dell’Ottocento portano ad una lenta emancipazione del bambino rispetto al mondo del lavoro, oltre che fanno maturare l’esigenza del diritto alla scuola che a poco a poco sarà acquisito come bene che compete a tutti e non soltanto alle classi abbienti ed ai maschi.

Nel mondo borghese, da un lato emerge una qualche centralità del bambino rispetto alla vita sociale, dall’altro, egli diventa anche destinatario di pubblicità sia per reclamizzare i vari prodotti, ma anche per diffondere un’idea di bambino ben vestito, bello, sazio, sano e felice; la sua immagine si diffonde, ma secondo uno stereotipo di perfezione e di bellezza che ne compromette il suo realismo.

Nel nostro secolo, il tema dell’infanzia assume grandi dimensioni, dando luogo a modelli culturali sempre meno adultocentrici con garanzie da parte delle istituzioni sia a livello nazionale che a livello internazionale; ciononostante, tutta la situazione resta da decifrare a causa delle forti ambiguità che le leggi di mercato e gli squilibri internazionali continuamente introducono.

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