“Le scuole non statali non sono diplomifici, facciamo un servizio di qualità importantissimo. Da 15 anni finanziamenti bloccati”. INTERVISTA a Roberto Pasolini, Rettore dell’Istituto Europeo Leopardi

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“Molti vedono le scuole gestite da privati come diplomifici, ma è facile mettere la maglietta a tutti per far scendere il livello del competitor. La verità è che la scuola paritaria ha fatto un servizio di qualità poiché offre una complementarità importantissima. L’augurio è che prima o poi ci sia un comune e sinergico lavoro nell’interesse delle famiglie, e soprattutto degli studenti”.

Roberto Pasolini dirige l’Istituto Europeo Leopardi di Milano, una scuola paritaria di grande livello che comprende tutti i gradi di istruzione, dall’infanzia ai licei. Punta molto sulle lingue ma non ha voluto che la sua scuola si trasformasse in una scuola internazionale: “Amo dire che la mia è una scuola italiana e me ne vanto – afferma lui – Mi sono sempre rifiutato di fare un intervento robusto nella direzione di un cambiamento radicale nella scuola primaria come vuole la cultura di Cambridge. Ho sempre opposto un No, grazie! Tuttavia, se voglio bene ai miei ragazzi, devo dare loro gli strumenti indispensabili, e la padronanza dell’inglese, piaccia o non piaccia, è determinante. Se non sai l’inglese ormai non lavori, sei tagliato fuori da molti ambiti di lavoro, di studio, di ricerca, sei destinato a perdere molte opportunità. Ma lei mi spiega perché devo togliere ai miei ragazzi queste opportunità?”

Rettore dell’Istituto Europeo Leopardi, Roberto Pasolini, ha quasi 81 anni ma resta sempre giovanissimo nello spirito e nella passione per l’istruzione e per l’innovazione. Si occupa di scuola dal 1969. Ammette di sentirsi “molto fortunato di aver potuto intraprendere una professione che gli ha permesso di vivere con i giovani per aiutarli a crescere e a saper sognare per costruirsi un futuro”. Ripete spesso: “la professione più bella del mondo”. Da sempre impegnato per l’ottenimento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e per la pari dignità delle istituzioni non statali, è stato tra i fondatori della Conferenza Permanente delle Autonomie, Segretario Generale del Comitato Politico Scolastico, è dirigente nazionale di ANINSEI (Associazione Nazionale Istituti Non Statali di Educazione e di Istruzione) è consulente parlamentare. E’ stato negli anni coinvolto in molte commissioni tecniche ministeriali.

Pasolini è molto orgoglioso della scuola che dirige: l’Istituto Europeo Leopardi. L’Istituto offre servizi educativi dalla Scuola dell’Infanzia fino alla Secondaria di Secondo Grado: Scuola dell’infanzia, scuola primaria, Scuola secondaria di primo e secondo grado. Quest’ultima comprende Liceo Scientifico, Liceo Scientifico Sportivo, Istituto Tecnico Economico Quadriennale (ITE) – Indirizzo Amministrazione Finanza e Marketing, Liceo Linguistico Quadriennale, Liceo delle Scienze Umane, Liceo Europeo – Indirizzo Giuridico-Economico, Liceo Europeo Linguistico – Indirizzo Linguistico Moderno. Vi lavorano tanti insegnanti che al loro fianco hanno altri giovani docenti che svolgono tirocinio attivo durante gli ultimi anni accademici “per apprendere dagli insegnanti della scuola il nostro pensiero educativo, il nostro stile. Spesso loro diventano, una volta abilitati, i nostri nuovi insegnanti, avendo la fortuna di non dover seguire una graduatoria, come nelle scuole statali”. Nei giorni scorsi abbiamo riferito di una maestra appena andata in pensione dopo avere trascorso 45 anni consecutivi nella scuola, “di cui gli ultimi 20 presso il nostro istituto”, segno del buon clima che vi si respira. Questa maestra è stata già sostituita con una giovane maestra che svolgeva da tempo attività di supplenza.

Il nostro Istituto – ci spiega oggi il Rettore Roberto Pasolini – è stato fondato nel 1947 e da settantasei anni condivide la passione educativa con un corpo docente motivato e altamente qualificato. La scuola è nata dal desiderio educativo, dalla capacità e dalla visione di due famiglie. Oggi abbiamo definito il posizionamento della nostra scuola: Italian International School. Crediamo e siamo orgogliosi della nostra cultura italiana – con la C maiuscola – che abbiamo arricchito con una visione e una didattica internazionale. Crediamo nella padronanza linguistica, nel primato della persona, insegniamo valori, suggeriamo percorsi, guidiamo con attenzione verso un futuro complesso menti giovani e aperte, con il desiderio di anticipare il futuro con una costante e continua innovazione didattica. Crediamo e lavoriamo affinché si instauri una relazione personale tra studenti e docenti. Una prova della correttezza del nostro agire educativo è la felicità del bambino e del ragazzo. Loro siano al centro del nostro agire”.

Rettore Roberto Pasolini, lei entrò a scuola nel 1969. Com’era la scuola nel 1969?

“Il ’69 arrivava dopo il ’68. E’ chiaro che nel momento di mio ingresso la scuola tutta ma anche la mia Leopardi stava vivendo una situazione di tensione, di analisi delle problematiche legate ai temi cari al ‘68 e alla ventata di rivoluzionaria innovazione, alla riflessioni, alle rotture degli schemi, al ruolo della famiglia e della scuola, ai valori di riferimento. Ho trovato una scuola dove era importante ricostruire valori attraverso una relazione personale con gli studenti, con la volontà di aiutare i ragazzi a crescere in una forma positiva e con una buona capacità critica. La scuola era messa in gioco in maniera forte perché si era all’inizio di un percorso che il ‘68 ha portato avanti per anni e anche oggi devo dire che qualche sessantottino ha lasciato il segno…”

In questi decenni sono stati tanti i tentativi di innovazione didattica e di riforme. Lei, che ha lavorato attivamente per l’autonomia della scuola, come li ha vissuti?

“Vi ho partecipato nella convinzione che la vera innovazione fosse proprio l’autonomia scolastica. Purtroppo, non si è mai più completamente realizzata per centomila motivi: per vincoli, resistenze, interessi di posizione. Anche oggi, a volte si propone a scuola questo o quel progetto nuovo, ma la vera autonomia, quella che si vive e che è una realtà in altri Paesi, è per noi solo una chimera, manca l’autonomia finanziaria, manca la possibilità di assunzione diretta dei docenti, e, dato c l’autonomia mette in relazione il problema della responsabilità personale di chi opera, manca la valutazione dei docenti ”

E questo che cosa vuol dire?

“Più di un ministro è caduto sul tentativo di organizzare la valutazione per i docenti e i dirigenti scolastici, basta ricordare il “quizzone” dell’allora Ministro Berlinguer. Siamo un Paese molto bloccato e, per quel che mi riguarda, continuo a lottare per l’autonomia delle Istituzioni didattiche, oggi diventato anche dettato costituzionale. L’ultima esperienza è stata un mio tentativo, tre anni fa, quando sono stato chiamato a far parte di un Comitato tecnico scientifico per la revisione delle Indicazioni dell’istruzione tecnica nel quale ho proposto, inascoltato, di utilizzare il metodo di programmazione avviato con i quadriennali: dare l’indicazione degli obiettivi di conoscenze, competenze ed abilità finali e lasciare piena autonomia alle scuole sull’organizzazione dell’attività didattica utile al loro raggiungimento. Una revisione delle indicazioni per l’Istruzione tecnica ha tempi burocratici ci circa un paio d’anni, mentre la tecnica ormai si innova velocissimamente con il risultato che, a indicazioni approvate le competenze definite rischiano di essere diventate già obsolete e/o superate. Credo la scuola debba essere nel mondo e non possa prescindere dalla velocità del cambiamento per rispondere alle esigenze della società. Purtroppo, oggi la riforma degli istituti tecnici è ancora in fase di definizione, come lei sa”.

La sua scuola è riuscita ad attivare la realtà degli istituti quadriennali. A conti fatti, è stata una buona innovazione?

“Abbiamo partecipato anni fa al bando di seconda generazione, vincendolo. Il vincolo ministeriale non era più quantitativo ossia appesantire i quadri orari per svolgere in quattro anni tutto il monte ore previsto per i quinquennali, ma qualitativo ossia che gli studenti dei percorsi quadriennali avrebbero dovuto sostenere lo stesso Esame di Stato previsto per i percorsi quinquennali. Una garanzia sia del raggiungimento delle stesse competenze, conoscenze ed abilità sia per il titolo di studio che lo stesso valore legale del percorso quinquennale. L’utilizzo dell’autonomia didattica ci ha permesso di predisporre un percorso a conclusione del quale abbiamo raggiunto l’obiettivo il livello di preparazione richiesto. Gli studenti hanno già sostenuto due Esami di Stato con ottimi risultati, uno con la media di 82/100 e uno di 83/100. Non posso, quindi, che affermare che è stata una buona innovazione che ha dimostrato quanto sarebbe possibile far diventare quadriennali tutti i percorsi di studio poiché una buona organizzazione permette di ottenere i livelli di apprendimento richiesti, di proporre quadri orari sostenibili agli studenti, di permettere la frequenza a tutti gli studenti anche a quelli con disagio dell’apprendimento, offrendo il vantaggio di avviarsi un anno prima al lavoro o di anticipare la frequenza del percorso universitario o di Istruzione Tecnica Superiore”.

Quanto è stata importante in questi decenni per il nostro Paese e per la scuola italiana la realtà delle istituzioni scolastiche non statali?

“Io faccio parte del gruppo che nel 1997 ha organizzato la grande manifestazione che viene ricordata “del PalaVobis” con l’intento di avere una legge di parità dell’istruzione non statale. Ho vissuto tutto quel periodo di grande passione democratica espressa dalla gente, oggi un po’ spenta: il mio pensiero è che solo dove si lavora con sinergia tra pubblico e paritario si raggiungono ottimi risultati”.

Risultati apprezzabili?

“Sì. Dove si è lavorato senza pregiudizi i risultati sono stati e sono ottimali. È vero che le organizzazioni sono diverse, il privato è più flessibile del pubblico ma le esperienze reciproche hanno sempre creato benefici per entrambi. Bisogna pensare alle famiglie ed è importante creare situazioni tali che consentano alle famiglie di scegliere il tipo di istruzione. Alla manifestazione del ‘97 c’erano diecimila persone all’interno del PalaVobis, altrettante erano fuori. L’allora ministro, il compianto Luigi Berlinguer, da avversario di allora è poi diventato il pioniere della parità. E da quei ventimila siamo poi passati ai duecentomila in piazza san Pietro nel ‘99, alla fine nel marzo del 2000 è stata approvata la legge sulla parità”.

Lei sa che, quando si parla di scuola privata, molti pensano ai diplomifici…

“Molti vedono le scuole private come diplomifici, ma è facile mettere la maglietta a tutti per far scendere il livello del competitor. La verità è che la scuola paritaria ha fatto un servizio di qualità poiché offre una complementarità importantissima. L’augurio è che prima o poi ci sia un comune lavoro nell’interesse delle famiglie, e soprattutto degli studenti. Credo e ho sempre creduto in una scuola di qualità e innovativa che consenta di aprire futuri possibili alle nuove generazioni”.

Le maggiori contestazioni concernono i finanziamenti pubblici alle scuole private

“Se si va a vedere la questione dei finanziamenti sul piano storico, si scopre che nell’ultima Legge di bilancio dello Stato sono stati stanziati 500 milioni per le scuole paritarie, tanto quanto i 500 milioni stanziati 17 anni orsono, solo che nel frattempo l’inflazione ha eroso il cinquanta per cento del potere d’acquisto di questi finanziamenti. E va sempre ricordato che i contributi vanno quasi esclusivamente alla scuola primaria e alla scuola dell’infanzia dove la scuola statale è carente. In Lombardia il 50 per cento delle scuole dell’infanzia non è statale e, in questo caso come in molte altre Regioni, la scuola paritaria serve a dare alle famiglie un servizio pubblico che lo Stato non riesce a garantire. Allo Stato costa in effetti molto meno dare qualche contributo, anziché istituire ex novo servizi di istruzione. Si parla di finanziamenti ai diplomifici ma dove sono questi diplomifici? Le risulta che le scuole dell’infanzia rilascino diplomi? Si tratta di slogan che non riflettono situazioni reali”.

Nella scuola Leopardi che lei dirige l’inglese è entrato fin dagli anni “80, eppure voi avete voluto fortemente evitare di diventare una scuola internazionale. Perché?

“Amo dire che la mia è una scuola italiana e me ne vanto. Mi sono sempre rifiutato di fare un intervento robusto nella direzione di un cambiamento radicale nella scuola primaria come vorrebbe Cambridge con uno sbilanciamento vero la cultura anglosassone. Ho sempre opposto un No grazie”. Tuttavia, se voglio bene ai miei ragazzi devo dare loro gli strumenti indispensabili, e la padronanza dell’inglese, piaccia o non piaccia, è determinante. Se non sai l’inglese ormai non lavori, sei tagliato fuori da molti ambiti di lavoro, di studio, di ricerca, sei destinato a perdere molte opportunità. Perché devo togliere ai miei ragazzi queste opportunità? Mi davano del matto quando più di quarant’anni fa ho inserito l’inglese fin dalla classe prima dell’allora scuola elementare. I ragazzi e le ragazze devono uscire da questa scuola con una buona padronanza delle lingue, non solo l’inglese, ma questa padronanza dev’essere sempre incardinata sull’impostazione culturale italiana che è unica. È vero che i nostri programmi sono più ricchi dei programmi scolastici degli altri Paesi. Gli inglesi, ad esempio, da anni hanno ridotto, dopo il primo biennio di scuola superiore, le materie utili ad acquisire “la maturità”, solo tre!. L’Italia ha mantenuto una solida struttura culturale che potrà andar rivista ed aggiornata con competenze cognitive e non cognitive, ma rimarrà solida, oserei dire “la più solida e completa del mondo!” I miei ragazzi escono al termine degli studi con un diploma che ha allegate le certificazioni linguistiche internazionali di tutte le lingue straniere studiate richieste dall’Università, dal mondo del lavoro e per le application utili all’iscrizione presso Università straniere. C’è un’apertura e una preparazione alla padronanza della lingua che sono e devono restare incardinate nelle radici della cultura italiana. Abbiamo avuto il desiderio di internazionalizzare la nostra scuola avvalendoci di metodologie didattiche utilizzate in Paesi stranieri, fornendo agli studenti padronanza linguistica in tutte le lingue studiate, avviandoli a studiare materie in lingua straniera, ma non tradendo e affondando le radici nella cultura italiana”.

Qual è secondo lei il valore aggiunto fornito dalla cultura italiana?

“Il riconoscimento è nel fatto che la lingua italiana è la quarta più studiata nel mondo e la divina commedia è letta nel mondo. Lo spessore della nostra cultura è apprezzato nel mondo. I saperi servono per la crescita. La cultura si trova in Italia e noi abbiamo la fortuna di vivere in un Paese così. I principi trasmessi dalla cultura italiana sono fondamentali. Nel nostro Liceo Europeo ad esempio il latino in terza, quarta e quinta diventa cultura e civiltà latina utile a trasmettere ai ragazzi le conoscenze della realtà dalla quale sono nate le radici del diritto occidentale, cioè il diritto romano”.

Perché nella scuola statale gli apprendimenti della lingua inglese non sono ottimali, secondo lei?

“Non è facile perché non mi piace parlare e giudicare gli altri, ma provo a rispondere. La rivoluzione che ho fatto più di 20 anni fa per migliorare la padronanza della lingua inglese ha comportato l’obbligo per tutti gli insegnanti di lingua inglese di adottare, quali testi per le lezioni curricolari, i testi indicati dagli enti certificatori per la preparazione agli esami per l’ottenimento della certificazione internazionale. Questo ha comportato il coinvolgimento positivo dei docenti. Credo che per il dirigente scolastico di una scuola statale sia una modalità complicata da ottenere visto che funziona solo se “tutti” aderiscono. Un’innovazione di questa portata che comporta anche una inevitabile formazione, diventa difficile da sostenere in una scuola statale”.

Lei invece come ha fatto?

“Ho incontrato i miei insegnanti, come detto, e li ho coinvolti, perché il loro coinvolgimento era fondamentale. Questa scelta portava anche ad una maggior garanzia di stabilità di lavoro per loro. Non è un mistero che le famiglie iscrivano i loro figli in una scuola paritaria che ha un costo se il progetto ne vale la retta da pagare. Ho sempre puntato sulla stabilità di lavoro che ha portato anche a stabilità di personale e continuità didattica. E posso dire che in tanti anni non ho mai dovuto dire a una persona: non ho più il posto da darti. Ho avuto da parte loro una grande collaborazione. Abbiamo modificato tutti i testi e le modalità didattiche per avere come focus comprensione e comunicazione come all’estero dove, prima di tutto, ti insegnano a comprendere e comunicare poiché è importante parlare bene e correttamente e poi, a mano a mano che si incontrano le questioni grammaticali le si affrontano, per imparare anche a scrivere correttamente. Invece l’impostazione della scuola italiana parte dalla grammatica, e magari gli studenti sono pure bravi, ma poi hanno difficoltà nel comunicare”.

La sua scuola crede nella centralità della persona e nel rapporto positivo e sereno che si instaura tra i docenti e gli alunni. Quanto incide tutto questo sugli apprendimenti?

“Tantissimo. L’effetto pratico è immediato. Uno dei guai che ha uno studente in difficoltà è la percezione che non ce la farà mai, che è inadeguato che non imparerà. I giovani di oggi, non sono meno capaci dei giovani di un tempo, ma. sono più fragili per molti motivi su cui occorrerebbe un approfondimento sociologico. La relazione personale e educativa positiva tra studente e docente diventa, quindi, molto importante. L’insegnante è come un coach che insegna all’alunno a credere in sé stesso e che fa capire all’alunno che può arrivare anche grazie a lui. Che è lì, disponibile a aiutarlo per raggiungere quell’obiettivo. Se l’insegnante non ha questo approccio il ragazzo, spesso getta la spugna. È il potere di qualcuno che crede in te, questo è quello che chiedo ai miei docenti di dare ai loro ragazzi”.

E questo è proprio il periodo di fine anno scolastico in cui sono tanti a gettare la spugna a scuola

“Guardi, la mia scuola si è data un principio che è quasi uno slogan: ogni studente sa che ha la possibilità di recuperare le lacune fino all’ultimo minuto dell’ultimo giorno. A loro va data sempre una possibilità. Da anni e anni negli ultimi giorni di scuola nella nostra scuola si svolgono tante attività extrascolastiche: sport, ludiche, fine anno in festa, ma a scuola restano i docenti che fanno un’interrogazione in più per poter recuperare. Come criteri di promozione e/o non promozione non usiamo la media: un 6-5-4 non è la stessa cosa di un 4-5-6, l’impegno e il recupero di lacune vanno premiate, sono una motivazione e lo stesso docente dovrebbe essere felice di aver portato alla sufficienza uno studente che per mesi “sembrava perduto” Per ottenere tutto questo è indispensabile una relazione personale positiva”.

Si parla di felicità del bambino e del ragazzo. Dunque la felicità è qualcosa che può essere a portata di mano anche a scuola?

“Far felici i bambini è più semplice che non far felici i ragazzi adolescenti, ma l’importante è creare un clima in cui lo studente venga volentieri a scuola. Ma il primo giorno di scuola nelle superiori dico sempre a tutti che per prima cosa devono creare tra loro un gruppo di amici con cui parlare di tante cose, della partita del giorno prima, di andare a mangiare la pizza insieme e inoltre dico loro: create buoni rapporti con i vostri docenti magari sono severi ma sono pronti ad aiutarvi e quindi vi faranno venire a scuola sereni e non con il mal di pancia. Quest’anno l’ultimo giorno ho visto una ragazza che piangeva. Ecco, fin quando vedo ragazzi che piangono perché è finita la scuola vuol dire che abbiamo raggiunto un buon traguardo”.

In uno dei suoi libri, intitolato Emergenza educazione: una sfida per docenti, famiglie e mondo politico, lei aveva individuato il problema della crisi educativa. Che cosa ha fatto e che cosa non ha fatto la scuola italiana per gestire questa emergenza? Che cosa si potrebbe o si dovrebbe fare?

“Ho scritto questo libro nel 2010. Sono passati molti anni e l’emergenza educativa, migliorata o peggiorata, è ancora presente frutto soprattutto di una minor disponibilità a patti di corresponsabilità educativa da parte delle famiglie, anche nella scuola paritaria. A volte la scuola viene vista dai genitori come il sostituto delle famiglie, ma non può essere così! Occorre una corresponsabilità educativa e se le famiglie fanno un passo indietro l’emergenza educativa, se con questa accezione indichiamo le difficoltà che si pongono nel far crescere e diventare adulti i nostri ragazzi, sarà destinata ad aumentare. Insomma, o i famosi no li dicono sia la scuola sia le famiglie oppure la scuola diventa per i ragazzi insensibile e cattiva invece che comprensiva e educante anche se severa. Io non ho mai “perso” un ragazzo dove ho avuto una grande collaborazione della famiglia. Quei pochi che ho perso li ho persi perché è mancata la necessaria ed indispensabile collaborazione. Proprio perché, come dicevo, oggi i ragazzi sono più fragili, vanno aiutati e consigliati di più per la loro crescita personale. La scuola, purtroppo, non ha fatto grandi passi avanti nel ridurre la forbice tra la preparazione che offre e quello che la società pretende da loro dopo il diploma. Se si pensa al digitale o alla sfida dell’intelligenza artificiale, si capisce la grande responsabilità che ha la scuola. Se la scuola non diventa il luogo dove si educa a capire le innovazioni i giovani saranno abbandonati e lasciati soli con sé stessi, in balia e sfruttati da ogni innovazione. La scuola deve essere capace ed assumersi la responsabilità di educare all’uso consapevole delle tecnologie, non togliere le tecnologie”.

La grande lamentela dei docenti, su questo fronte, è che gli alunni siano distratti dallo smartphone durante le lezioni

“Vanno educati al rispetto delle regole: Il cellulare deve essere spento e non visibile e se io insegnante lo vedo te lo ritiro e te lo do alla fine della lezione. Se faccio il compito in classe tu il cellulare lo metti in uno scatolone. E se hai un secondo cellulare non è più un tentativo di copiatura, ma è ‘truffa’: il 6 in condotta, in questo caso, non te lo toglie nessuno”.

Lei ha detto che quella dell’insegnante è la professione più bella del mondo. E’ davvero ancora così?

“Insegnare significa creare un rapporto tale per cui il ragazzo deve avere una guida di cui fidarsi e vederlo crescere come persona è una soddisfazione impagabile”.Vivere in mezzo ai ragazzi, partecipare come mi è capitato di recente ad una rimpatriata di studenti di 30 anni fa, cenare con loro, vedere ragazzi che vengono a trovarti dopo 15 anni e che mi raccontano quello che stanno vivendo, il loro lavoro, la loro famiglia. Non c’è niente di più bello. Devi farlo con passione, questo dico sempre ai miei insegnanti. Non lo devi fare come mestiere: l’insegnamento o lo fai con passione o rischia di diventare un fastidio. Se fatto con passione non c’è niente di più appagante. E’ talmente bello come fare il padre: lo stesso vale per l’insegnamento. Ci saranno tribolazioni, conflitti, preoccupazioni, ma è talmente bello che queste cose diventano secondarie e funzionali al vederli crescere e credere in loro stessi”.

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