Le lamentele della pittrice finlandese conservano inquietanti elementi di verità. Lettera

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Inviata da Pietro Podolak -Da quando insegno, cioè ormai praticamente da più di un decennio (inutile tracciare un bilancio delle sorti della scuola pubblica in questo frattempo, sarebbe solo una geremiade…) c’è un aggettivo geo-etnografico che mi suscita, fra le altre emozioni, grande perplessità: “finlandese” (e questo è per colpa della scuola italiana, beninteso, non della Finlandia).

Già prima dei tempi dell’immissione in ruolo, i colleghi che frequentavano i temibili corsi abilitanti, avevano la testa
imbottita del “modello finlandese”, “la scuola finlandese”, e ogni altra iunctura baltica, salvo forse la sauna (che poi era il sostantivo cui, nelle mie meningi, questo aggettivo era tradizionalmente associato fino dai tempi dell’infanzia).

Veder pubblicata la lettera di una madre e pittrice finlandese che si trasferisce con la famiglia in Spagna per sottrarre la prole alle grinfie della scuola italiana mi spinge a leggerne il testo (scritto in italiano? tradotto da chi?). Già altri hanno replicato, sostenendo che nel quadro educativo del nostro paese ci sono anche lodevoli eccezioni, confermando quindi (forse senza
volere) che la situazione deprecata è in realtà pressoché la norma.

Vorrei rispondere sommessamente, non tanto alla signora quanto a certi opinion makers peninsulari che vorrebbero
cavalcare la tigre dell’indignazione finnica per propinare ulteriori, magiche pozioni a questo nostro sventurato sistema educativo. Prima di tutto cerchiamo di capire. I figli della signora hanno 3, 6 e 14 anni, suppongo quindi che siano stati inseriti rispettivamente alla scuola dell’infanzia, in prima elementare e in prima superiore (ma quale istituto? perché, in Italia, c’è
un forte divario fra superiore e superiore…), e sono rimasti per due mesi nelle classi di assegnazione, fino al trasferimento ai lidi esperidi più confacenti. Quindi, diciamo la verità, della didattica in quanto tale può essersi fatta un’idea solo superficiale, e solo nel caso del figlio più grande. Approccio solo alcuni dei punti a parer mio fondamentali. Inizio con l’osservazione
che ritengo più ingenua, dal momento che non è affatto legata alle decisioni delle scuole (che infatti subiscono con dolore un provvedimento di questo tipo…): “In Finlandia i bambini (7-12 anni) vanno a scuola da soli”… In Italia no, perché… proibito dalla legge, almeno fino a tutto il ciclo della primaria. Dopo diverse cause contro la scuola da parte di famiglie i cui figli avevano subito infortuni dopo la campana di uscita, la Cassazione ha pure sentenziato l’illiceità per i docenti di far uscire dall’Edificio i ragazzi della secondaria di primo grado (11-14 anni!) se non accompagnati dai genitori o dai loro delegati (con tanto di modulistica e fototessere depositate in doppia copia in segreteria e presso i docenti), o esplicitamente autorizzati dalle famiglie (con relativi onnipresenti documenti in doppia copia).

“L’importanza dell’aria fresca e delle pause.. Le pause all’aperto sono un must!”. Vero. Qui la signora mette il dito in una piaga reale. Ma prima di deplorare, anche adesso cerchiamo di capire. Prima di tutto la situazione infrastrutturale dell’educazione italica. Non ricordiamo ancora una volta l’esigua percentuale degli edifici scolastici a norma di legge, no; pensiamo a
giardini inesistenti; quando presenti torridi e riarsi, fangosi in inverno, spesso pieni di siringhe (perché i resede scolastici, col tramonto del sole, vedono avvicendarsi ospiti di diverso tipo). La lettera denuncia alcuni tratti punitivi e vessatori della nostra educazione, e su questo ha dei quarti di ragione. Solo che anche in questo caso l’origine del male è profonda e grave. Dopo i
disagi logistici dell’edilizia scolastica si giunge quelli psicologici e formativi che la classe docente si vede inflitti. Troppo spesso la scuola è concepita, anche per gli alunni, alla stregua di un purgatorio, di un luogo di sofferenza espiativa. E qui si tocca un altro dei punti, reali e dolorosi sollevati dalla lettera. “Qual è la pedagogia degli insegnanti? La studiano nella loro formazione?”. Oserei dire che, ignara di come si è diventati in passato e come si sta di nuovo diventando insegnanti in Italia, la signora abbia preso lucciole per lanterne, o, eziologicamente parlando, confuso il rimedio con la causa del male. Chi scrive – per sua fortuna! – non ha frequentato quelle colonie penali che erano i vari cicli della SSIS, ma ha conosciuto la sofferenza
di molte persone passate attraverso quelle maglie, ed invita chi legge ad immaginare.

Immaginare i sentimenti di chi ha già concluso con successo la formazione universitaria, magari a pieni voti, magari con le appendici prestigiose e dispendiose di master, dottorati e specializzazioni, e che si vede imporre sulle spalle il fardello farisaico di un tirocinio non retribuito con un monte ore favoloso da svolgersi nelle varie classi del regno; immaginiamo che
poi, nel pomeriggio seguente a siffatta mattina, questa persona sia costretta a salire in tradotta per frequentare “corsi” (che hanno sede in un paio, massimo tre capoluoghi per regione…) in cui è travolta da una potente marea di acqua calda, diluita, insipida e con ciò stessa indigeribile, e che va dogmaticamente ripetuta in sede di esame (guai a chi dissente da un pedagogista!).

Persone costrette a sottostare a umilianti interminabili lezioni in cui cattedratici riciclati ripetono, quando non scempiaggini (cit.), il più rifritto programma liceale. Immaginiamo anche che queste persone, dopo un ragionevole periodo di pendolarismo selvaggio (a loro spese) e precariato (lo chiamano gavetta) ottengano l’agognato “posto fisso” per la ghiotta cifra che
consiste in 13 mensilità da 1.200 euro ciasuna (full time, ça va sans dire). Salvo poi la dirigenza della scuola che le invita a svolgere ore di straordinari non retribuiti, spesso per riunioni inutili e professionalmente mortificanti, “perché tanto noi anche di pomeriggio dobbiamo stare qui”, mi diceva una collega ben addentro ad un cerchio magico. Non sarà ormai ovvio che nella mente degli insegnanti, dopo tanti anni, il concetto di formazione e quello di sofferenza siano ormai sovrapponibili con un movimento rigido? Gli psicologi non ci hanno insegnato che le vittime di violenza diventeranno inesorabilmente dei violenti a loro volta? Non converrebbe disaccoppiare, nell’ambito della formazione docenti, il concetto di sofferenza da quello di apprendimento?

Ciliegina sulla torta, l’aspetto disciplinare. “Il rumore delle classi era così forte che mi chiesi come diavolo fosse possibile concentrarsi con quel frastuono”. È stata fortunata che ci fosse solo rumore, la signora. Pensi che a Padova ad una docente in servizio gli alunni hanno sparato con una pistola ad aria compressa, per poi essere giustificati dai genitori. “Per le sanzioni
disciplinari ho stabilito un iter che ricalca quello della giustizia italiana”, citazione letterale degli ipsissima verba di un mio vecchio dirigente scolastico. C’è da meravigliarsi che nelle aule si abbia la stessa certezza dell’impunità che regna nella vita quotidiana?

Poi naturalmente la nostra scuola ha, ma non saprei ancora per quanto avrà, molti lati positivi dal punto di vista della trasmissione del sapere e delle capacità critiche che sviluppa negli alunni. Le lamentele della pittrice finlandese, pur con la loro ingenuità nell’analisi del contesto sociale e scolastico dello stivale, conservano inquietanti elementi di verità, ma che riguardano non solo e direi anche non tanto la scuola quanto la legislazione e la società italiana degli ultimi 20 anni, nel suo complesso: una società che, senza valori né idee di spessore, si avvita su se stessa nel vano tentativo di mettersi al passo coi tempi e fare come si fa “all’estero”.

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