“Le graduatorie? Non verificano le competenze. Una carriera dei docenti riscatterebbe l’umiliante egualitarismo tra i docenti”, il punto di vista

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Riceviamo e pubblichiamo il punto di vista su un tema molto dibattuto in relazione alla riforma del reclutamento dei docenti e della loro carriera, che è quello della meritocrazia a scuola, inviatoci dal Vicepresidente nazionale ANP, Alessandro Artini.

La questione meritocratica muove gli animi, perché ha a che fare con la politica scolastica e indirettamente con la politica tout court. Le polveri del dibattito italiano sono state accese dalla pubblicazione di un saggio del filosofo americano Michael Sandel, lo scorso anno, contro la “tirannia del merito”, che, unitamente ad altri lavori, ha posto il focus sul tema. Il resto lo sta facendo l’attualità, che in tempi elettorali produce un tripudio di promesse (aumenti stipendiali per tutti gli insegnanti e immancabili immissioni in ruolo senza concorso, più collaboratori scolastici e applicati di segreteria, maggiori finanziamenti alla scuola, ecc.).

Consentitemi di affrontare la questione muovendo dal suo lato pratico e raccontando un’esperienza personale. Agli inizi della mia carriera da docente, quando insegnavo in un liceo aretino, il “Redi”, vi erano due corsi appartenenti alla “Sperimentazione Brocca”, uno Linguistico e l’altro Scientifico. Godevano di un’ottima reputazione e si diceva che i migliori insegnanti di quella scuola fossero confluiti proprio in quei corsi, stimolati dalla novità di quella sperimentazione (che di “sperimentale”, in realtà, aveva ben poco, considerato il “disinteresse” ministeriale per i risultati della stessa), nata ad opera dell’onorevole democristiano Beniamino Brocca. Dopo qualche anno di esperienza, visto il prestigio dei due corsi, le richieste di iscrizione aumentarono in maniera consistente, senza che tuttavia crescessero in maniera proporzionale le sezioni della sperimentazione. In sostanza, tali richieste sovrastavano la capienza numerica delle classi. A quel punto il Collegio dei docenti si riunì per definire le regole di iscrizione, dovendo escludere una parte di domande. Ricordo che si trattò di una discussione difficile, perché i criteri meritocratici (l’ipotesi di valutare un certo livello di partenza nelle competenze linguistiche o scientifiche) si opponevano a quelli di impronta egualitaria, che invece affermavano il diritto a iscriversi di chiunque disponesse del diploma di scuola media. La seconda prospettiva che potremmo definire egualitaria e, ante litteram, sandeliana, che si concretizzò nell’estrazione a sorte, fu approvata, non senza polemiche. Alcuni docenti, infatti, pur comprendendo l’esigenza di una soglia paritetica all’accesso (i nominativi sarebbero stati estratti a sorte, avendo ciascuno la stessa probabilità degli altri di essere sorteggiato), ritenevano che la scuola fosse rinunciataria rispetto a un compito essenziale: quello di selezionare gli alunni in funzione del merito. La scelta del sorteggio fu una decisione saggia, perché in quel tempo adottare dei test d’ingresso avrebbe indubbiamente comportato contestazioni da parte degli esclusi e anche dei sindacati (forse quelli come me, che hanno vissuto la scuola negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, possono capire a cosa mi riferisca). Ma anche con il sorteggio, le cose non filarono lisce. Infatti gli esclusi, nonostante l’“imparzialità” dell’estrazione casuale, non acconsentirono di buon grado al loro destino e le proteste si fecero davvero aggressive. Cosa sostenevano i genitori degli esclusi? Propugnavano la tesi dell’ingiustizia del sorteggio, perché la scuola avrebbe dovuto adottare ben altri criteri di selezione…

A questo punto è bene far presente che una osservazione di Sandel, originariamente presentata come una considerazione di ordine psicologico, ma che, reiterata e articolata nel prosieguo del saggio, assume poi la valenza di una tesi fondamentale, è che, mentre si seleziona meritocraticamente un “vincitore”, nello stesso tempo si stigmatizzano degli “sconfitti”. Segue, da ciò, una frattura: “tra i vincitori si produce tracotanza; tra i perdenti, umiliazione e risentimento” (p. 31). La questione della meritocrazia, poi, nella prospettiva di Sandel assume una valenza di narrazione sociale a carattere generale, rispetto al risentimento che connota il “sentire” di una parte della popolazione. La vacuità del criterio meritocratico, infatti, produrrebbe due tipi di malcontento: la frustrazione e la disperazione (cfr. p. 78). La faglia sociale, che determina il distacco dei “perdenti” dalla restante società, sulla quale ha proficuamente lavorato Trump per la sua elezione del 2016, sarebbe nata in questi termini.

Purtroppo, in base ai miei ricordi, il malanimo, atto ad aggravarsi e dar luogo alla sofferenza personale, non segue solamente l’esclusione conseguente alla meritocrazia, ma riguarda anche, ad altro titolo, chiunque sia stato deluso in qualche sua aspettativa. Si hanno cioè altre chiavi di lettura, oltre o a lato di quella meritocratica, che possono spiegare il significato delle ferite profonde conseguenti alla frustrazione. Vorrei far presente, ad esempio, come Francis Fukuyama, nelle sue analisi, concentri l’attenzione sull’enfasi, socialmente diffusa, che si attribuisce all’autonomia individuale. Egli scrive, in un saggio in difesa del pensiero liberale, che viviamo in una società celebrante l’io, il quale non tollera alcun tipo di limite. Il principio di realizzazione individuale (teorizzato in psicologia da Abraham Maslow) pretende una assoluta libertà sia a livello individuale che a livello di gruppo, ponendo in dubbio la valenza universalistica della vita umana e la tolleranza verso la diversità. Forse il fatto di presumere il possesso di un “io sovrano” (cfr. p. 57), più che le ferite dovute alla meritocrazia, rappresenta la causa principale della frustrazione e della disperazione sopra indicate.

Sandel ritiene che la tirannia del merito si sia affermata con il passaggio dalla riserva di posti universitari per i rampolli della tradizionale aristocrazia, espressione del lignaggio, all’assegnazione meritocratica di quegli stessi posti a un’élite borghese, detentrice di ricchezza. Ciò avvenne nel secolo scorso, nel mondo delle università della cosiddetta Ivy League (quelle più prestigiose), grazie al tentativo illuminato di un riformatore, James Bryant Conant, che, introducendo un test di ammissione oggettivo (o ritenuto tale), credeva fosse possibile consentire ai giovani meritevoli, indipendentemente dalle condizioni ascritte e cioè dal prestigio e dalla ricchezza familiare, di accedere a quelle università.
Questa libertà di accesso o, se vogliamo, di pari opportunità è stata effettivamente realizzata? Sì, almeno in parte, perché – come ammette lo stesso Sandel – quelle università si sono aperte a persone appartenenti a strati sociali disagiati e a minoranze, fino a qualche tempo prima rigorosamente escluse. Il sociologo Steven Brint, in un testo pubblicato alla fine degli anni ’90, pur riconoscendo l’elevato tasso di “riproduzione sociale” (cioè la trasmissione delle condizioni familiari e culturali dai genitori ai figli), constatava come, grazie al test di Conant, “molte migliaia di persone rompono le loro barriere ogni anno” (p. 217) e si affermano negli studi e nel lavoro.
Ovviamente il percorso meritocratico è ben lungi dall’essere giunto a compimento e si sono registrati casi di corruzione che hanno consentito l’accesso a giovani privi dei requisiti. Mettendo da parte il tema degli imbrogli, c’è comunque molto da fare, perché anche coloro che fanno donazioni del tutto legittime alle università (i cosiddetti donors) ottengono poi, per i propri figli, dei lasciapassare tutt’altro che coerenti con i principi del merito. Ma Sandel, pur ritenendo che questi ultimi aspetti problematici siano emendabili, con la sua analisi colpisce alla radice il sistema meritocratico stesso, affermando che esso è sbagliato in quanto tale. È cioè irreparabile, come sistema. E la radice di ciò risiede in quel meccanismo per il quale chi supera il vaglio meritocratico diventa arrogante e non considera le fortune avute in sorte (talenti naturali, sostegno negli studi dovuto alla nascita in una famiglia attenta e facoltosa, ecc.), mentre lo sconfitto si deprime e si dispera.

Per quanto mi riguarda, pur riconoscendo la plausibilità del dinamismo frustrazione e disperazione (John Dollard parlava di frustrazione e aggressività…), tuttavia, non ritengo che esso sia generalizzabile e che possa costituire il fondamento della critica alla meritocrazia. Nella mia esperienza di studente liceale (sebbene remota), i migliori compagni avevano generalmente un atteggiamento solidale verso i “meno bravi” e questi ultimi non maturavano alcun risentimento. La posizione ottimale dei “vincitori” in senso scolastico tendeva spesso a completarsi con doti sociali, sebbene mi sia anche imbattuto in alcuni “secchioni”, noti per l’antipatia. Anche nei concorsi pubblici, nonostante il numero limitato di posti e il fatto che non tutti potessero trovare soddisfazione, tra “vincitori” e “sconfitti” non si è mai creato un clima di rottura. Gli atleti olimpionici, che non vincono l’oro, non per questo finiscono per detestare il mondo. Insomma, la questione del risentimento mi pare molto debole, per poter costituire il fondamento teorico della critica alla meritocrazia. Certamente, in termini di metodo, opporre la mia esperienza alle tesi di Sandel non è sufficiente, ma osservo che neppure le affermazioni di quest’ultimo sono state sostenute da apposite ricerche sul campo. Inoltre, e questo è il mio punto di vista, in Italia, la meritocrazia è ben lungi dall’essere attuata. Se così stanno le cose, il populismo, molto diffuso nel nostro paese, che trova espressione nella faglia che separa una parte della popolazione dalla restante società, deve essere chiarito facendo ricorso ad altre motivazioni che non quella meritocratica.

Proverò adesso, rapidamente, a spiegare perché la meritocrazia è poco diffusa nel nostro paese.
Analizziamo il credenzialismo, che, come evidenzia Sandel, rappresenta un aspetto connesso indissolubilmente alla meritocrazia. Esso, secondo la definizione di Brint, indica “il monopolio dell’accesso alle professioni più remunerative e alle maggiori opportunità economiche da parte dei detentori di lauree e certificati di studio” (p. 200). Sandel precisa che nessun politico di rango, negli Stati Uniti, è privo di laurea. Anzi, dovremmo dire che quasi nessuno di loro è privo di una laurea conseguita presso una università “Ivy League”. Ciò vale anche in Italia? Non direi proprio. Non solo perché, tra i nostri parlamentari, i laureati rappresentano una minoranza (e decrescono pure, rispetto ad alcuni anni fa), ma anche per il fatto che neppure i ministri possiedono quel titolo. Rammento, a tale riguardo, la ministra dell’Istruzione Fedeli, che pare non esserne stata in possesso. Potrei andare avanti con un lungo elenco, ma, in tempi elettorali, la cosa potrebbe apparire come di parte e quindi evito. Dunque, sembrerebbe che la laurea, contraddicendo il credenzialismo, non sia affatto un titolo indispensabile per i politici italiani. Non lo è neppure nel mondo delle professioni e anche questa volta ciò potrebbe essere provato da una lunga rassegna di nomi importanti; essa, in Italia, non rappresenta una conditio sine qua non per l’accesso alle migliori e più appetibili occupazioni.

Se poi considerassimo il sistema economico, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in un saggio pubblicato nel 2014 (seconda edizione) e dedicato agli investimenti in conoscenza, osserva che nel nostro paese si assiste a “una combinazione di bassi rendimenti privati e basso stock di capitale umano”. Aggiunge che, in base a un semplice modello predittivo basato sulla legge della domanda e dell’offerta, nei paesi dove la disponibilità di elevato capitale umano è piuttosto bassa, come in Italia, la sua remunerazione dovrebbe essere elevata, perché “dove abbonda il capitale umano la sua remunerazione è bassa; il contrario accade nei paesi con pochi laureati” (p. 43). Ma le cose non stanno così e Visco osserva che l’Italia è un vero caso anomalo, perché si è creato un circolo vizioso dove “i bassi rendimenti dell’istruzione scoraggiano gli investimenti in capitale umano” (p. 44).
Conclude Visco che forse una maggiore attenzione al merito non sarebbe fuori luogo: “valorizzare il merito non vuol dire richiedere un’organizzazione sociale esasperatamente meritocratica, ma consente di avvicinarsi a un uso efficiente delle risorse produttive, senza nascondere i talenti” (p. 65). Insomma, siamo ben lontani dalla prospettiva credenzialistica tipica del mondo anglosassone.

A questo punto, tuttavia, abbandono le riflessioni generali sul sistema economico-politico, per passare a quelle sulla scuola, affrontando un tema specifico, quello della selezione dei docenti. Su questo punto anche coloro che sono i più scettici verso la meritocrazia dovrebbero convenire. Tutti sanno, infatti, che la scuola è “fatta dai docenti” e, se essi sono bravi, possono incidere profondamente e favorevolmente nella vita degli alunni. Nella vita, ripeto, non solo negli studi. Ma quali sono i criteri di immissione in ruolo dei docenti, in Italia? Sono assunti i migliori?
La risposta è articolata e, pur prendendo atto dei concorsi che in questi giorni hanno luogo, dobbiamo convenire con Andrea Gavosto, in un libro recentemente pubblicato, che in Italia il principale metodo di assunzione è piuttosto anomalo. In Europa, infatti, si hanno due modalità di assunzione: la prima è affidata alle scuole e alle autorità locali (che è la più diffusa), mentre la seconda è svolta direttamente dagli stati. L’Italia rientrerebbe nel secondo modello, ma praticamente le immissioni in ruolo seguono altre strade: “ormai gran parte degli ingressi avvengono fuori dai concorsi e riguardano persone le cui competenze, in particolare quelle di natura didattica, non sono mai state davvero certificate” (p. 60). Sarebbe un discorso troppo lungo, in questa sede, spiegare il rapporto tra precariato e sanatorie, ma sono sicuro che non sfugga a nessuno il nesso di causa ed effetto che intercorre tra i due elementi. A questo punto, c’è da chiedersi se tutto questo abbia a che fare qualcosa con il merito. La risposta, ovviamente, è negativa.

Forse vale la pena spendere alcune parole su questo totem, tipico della scuola italiana, che sono le graduatorie. In questi ultimi anni, sono entrati nelle graduatorie dei candidati supplenti che, fino a qualche tempo prima, si dedicavano ad altre attività. In certi casi, si tratta di persone con alte professionalità, come avvocati e ingegneri. Nessuno chiede loro di dimostrare che sappiano insegnare. Ciò che conta, particolarmente nel ciclo delle superiori, è che conoscano le loro discipline. Se poi padroneggiano le tecniche didattiche, sanno coinvolgere i ragazzi in una lezione o dispongono delle doti empatiche per spiegare e dialogare, poco interessa. Purtroppo le conseguenze di questa “disattenzione” alla capacità d’insegnamento sono evidenti e si riscontrano nello scarso rendimento degli alunni (si pensi a quanto documentano le prove Invalsi). Le graduatorie, in sostanza, non servono a verificare le competenze d’insegnamento.
Ma non accade solo questo. Ad esempio, gli insegnanti tecnico-pratici possano essere nominati docenti di sostegno. Chi sono i docenti tecnico-pratici ovvero i cosiddetti ITP? Essi sono diplomati di scuola superiore in indirizzi professionalizzanti o tecnici, non necessariamente laureati, che si occupano della didattica pratica dell’insegnamento, particolarmente nei laboratori a fianco di altri professori. Gli ITP, una volta inseriti nelle graduatorie, possono essere chiamati anche a occuparsi di ragazzi con handicap, talvolta molto gravi. In altri termini, un insegnante che ha un diploma agrotecnico o di geometra, che è un perito nautico oppure possiede la qualifica di liutaio può diventare docente di sostegno, nelle scuole in cui si hanno quegli insegnamenti. Quelle persone, alcune delle quali fino a ieri facevano altro rispetto all’insegnamento, improvvisamente si trovano a ricoprire un ruolo molto delicato e difficile come quello di docente di sostegno.
C’è chi sostiene che la meritocrazia si opponga all’inclusione: molto più spesso avviene che sia la sua totale assenza a nuocere all’inclusione.

Non vado oltre, ma credo che sia agevolmente dimostrabile come la meritocrazia sia in gran parte estranea alla scuola. Dunque, che senso ha la critica ad alcune norme appena varate, come il DL. 79, che parrebbero prospettare una carriera per i docenti? Se le cose stessero così (ma non ne sono affatto convinto), per la prima volta nel nostro paese si realizzerebbe quanto accade in molte altre nazioni europee, che cioè si definisca una carriera per i docenti in grado di riscattare l’umiliante egualitarismo che equipara coloro che si dedicano con abnegazione alla scuola ad altri che invece realizzano solo il “minimo sindacale”. La carriera non può essere solamente una mera successione di scatti di anzianità, ma deve implicare lo svolgimento di particolari attività di natura organizzativa e didattica. Ovviamente una tale riforma non risolverebbe il malfunzionamento complessivo del sistema educativo italiano, ma sarebbe un primo passo, poiché – come suggerisce Gavosto – potrebbe “attrarre nella scuola persone motivate, ambiziose e con qualità organizzative” (p. 76). Vorrei ricordare che, secondo la teoria ralwsiana, le differenze di trattamento, come quelle relativa alla carriera, non sono di per sé inique, ma prima di qualsiasi riforma occorrerebbe considerare i parametri di uguaglianza o disuguaglianza, i quali entrambi, di volta in volta, dovrebbero trovare una loro misura di realizzazione.

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