Lavoratore licenziato per abuso 104: non si reca dalla persona da assistere. Sentenza
Con sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019 la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un lavoratore che era stato licenziato per abuso del permesso ex art. 33 comma 3 della legge 104/1992.
La sentenza viene riportata dall’Aran, con la motivazione che la sentenza di riguarda un rapporto di lavoro tra privati, ma è applicabile anche a quello pubblico.
L’abuso da parte del lavoratore del permesso per assistere un familiare disabile è motivo di licenziamento.
I fatti
La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 79 depositata a gennaio 2018, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per aver abusato in due circostanze dell’art. 3 comma 3 della legge 104/1992.
L’agenzia investigativa, incaricata dal datore di lavoro, aveva dimostrato che in due giornate, per le quali aveva chiesto il permesso dal lavoro, non era mai uscito di casa e quindi non si era recato presso l’abitazione di residenza della zia che invece avrebbe dovuto assistere, fatto anche questo accertato dagli investigatori.
Il ricorso
Il ricorrente ha presentato ricorso per quattro motivi:
- ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 5 della legge n. 604 del 1966, 2119 e 2697 cod.civ., 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970, avendo, la Corte territoriale, illegittimamente invertito l’onere della prova in ordine alla sussistenza della condotta addebitata al lavoratore e ritenuto legittimo il licenziamento in considerazione della mancata prova, richiesta al ricorrente, di aver assistito la zia nelle date in cui aveva chiesto il permesso. Inoltre l’appostamento effettuato dagli investigatori non sarebbe corrisposto alla residenza della zia;
- gli investigatori non sarebbero stati a conoscenza del numero esatto dell’abitazione della zia del lavoratore;
- la mancata piena prova non può determinare l’abuso reale da parte del lavoratore e quindi il suo licenziamento;
- violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod.proc.civ, avendo, la
Corte territoriale, condannato al pagamento delle spese di lite il lavoratore
soccombente nonostante lo stesso rimanesse, privo di reddito perché licenziato.
La decisione della Corte
La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, per un totale di euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre alle spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.