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L’ABC della matematica, un approccio nuovo all’insegnamento nella primaria [INTERVISTA]

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“Si apprende matematica a scuola da piccoli per un motivo utilitaristico e anche per un motivo umanistico”. Se l’assunto vi lascia attoniti, allora è giunto il momento di immergervi nella lettura de “L’ABC della Matematica. Insegnare numeri e forme in prima e seconda”, piccolo volume che Anna Mazzitelli, docente di Scuola Primaria, e Ana Millàn Gasca, Ordinaria di Matematiche complementari a Roma Tre, hanno appena licenziato con Carocci.

“Cercavo un percorso per dare ai miei alunni «le basi per far loro acquisire una relazione di intimità con i numeri, una familiarità con il loro uso concreto e una conoscenza delle idee fondamentali della geometria solida e piana»” scrive Mazzitelli, citando le parole del grande matematico Giorgio Israel, in un vero e proprio diario pedagogico maturato anche nel solco dei tanti studi dedicati da Millàn Gasca alla storia della matematica e alla sintonia tra numeri e pensiero infantile (“Pensare in matematica”, Zanichelli 2012, “Il mondo come gioco matematico. La vita e le idee di John von Neumann”, Bollati Boringhieri 2008, entrambi con Giorgio Israel, “Numeri e forme”, Zanichelli 2016).

Sulle basi teoriche e sperimentali di questa proposta didattica abbiamo sentito direttamente le Autrici.

“Andare oltre la ruggine della consuetudine”. Perché è importante introdurre decine e centinaia già dalla prima elementare?

“I bambini arrivano in prima elementare sapendo che il loro papà ha 48 anni e la nonna ne ha 67 anni, che siamo nel 2021 e loro sono nati nel 2014, e che nella loro collezione hanno 134 carte dei calciatori… e si trovano improvvisamente in un’aula in cui da settembre a giugno, per lunghi mesi, la maestra spiega uno a uno i numeri da 1 a 20, trattandoli come se ciascuno di essi fosse un universo a sé stante, quasi come se non ci fossero legami tra loro e consequenzialità. Questo può far credere ad alcuni alunni l’idea che si trovano davanti a qualcosa di molto complicato, che va trattato con le pinze, se c’è bisogno di un intero anno scolastico per imparare i numeri fino a 20…; qualcun altro, invece, matura l’idea che a scuola si fanno cose inspiegabili (tacere su un sacco di numeri!) e che andare a scuola è scoprire ciò che i grandi vogliono che faccia…

Se si adotta il punto di vista del bambino, la prima cosa fondamentale è ricordare che i numeri sono ascoltati come parole e visti come “scarabocchi” (dapprima le singole cifre e poi composti da due e via via più cifre). Sembra un rompicapo eppure i bambini imparano in modo strabiliante ad associare parole a cifre, soprattutto se permettiamo loro di avere un bel catalogo di esempi.

I vocaboli da “uno” a “venti” non permettono ancora di rendersi conto del modo semplice e sempre uguale in cui si compongono le parole numerali (duecento-venti-due ad esempio).

Contando sempre solo fino a venti non si apprende quel meccanismo che permetterà ai bambini di comprendere che non devono imparare infiniti nomi per infiniti numeri, anzi: il nome di un numero si costruisce sempre con le stesse regole.

Come per la composizione delle parole, anche la formazione della numerazione scritta segue delle regole. Il nostro sistema di numerazione è particolarmente facile da usare perché è ricorsivo, si arriva a 10 e si ricomincia. Dopo il 21 viene il 22, poi il 23, il 24, il 25 e così per tutte le volte che si raggiunge la decina, dopo il 31 il 32, 33, 34, 35, dopo il 41 il 42, 43, 44, 45… una stessa cifra rappresenta un numero 10 volte più grande, se è posta nella seconda colonna verso sinistra, piuttosto che se è nella colonna delle unità; 10 volte più grande ancora, se è posta nella terza colonna e via di seguito. Questo si vede molto bene nella tavola dei primi cento numeri scritti in cifre”.

È questa la “canzone dei numeri”?

“La ripetizione e l’esercizio di conteggio con numeri anche grandi, che arrivano almeno a qualche centinaia, aiuta il bambino a prendere coscienza di questo continuo ripetersi nella struttura delle parole e del fluire delle cifre nelle posizioni decimali. E la ripetizione è qualcosa che piace ai bambini, che fa parte dei loro giochi, anzi, che vivono come gioco. Il fluire, il susseguirsi incessante dei numeri è ciò che i numeri sono (al di là dei vocaboli che cambiano da lingua a lingua e dei simboli scritti che li rappresentano, che sono anche un fatto storico-culturale: in Europa per secoli si è scritto 5 con una V).

Come si fa a capire questo andamento regolare e a “nuotare” in questa bellezza dei numeri se ci si limita ai numeri a due cifre? Figuriamoci poi se si arriva solo fino al 20, come propongono molti o quasi tutti i sussidiari.

Forse il fraintendimento deriva dal fatto che, nella tavola delle addizioni (le somme di numeri a una cifra) ci sono effettivamente solo numeri entro il 20. Compilare questa tavola è divertente ed efficace, perché rivela molte meraviglie dei numeri. Ma è solo una parte della prima esperienza numerica”.

Perché non limitarsi ai numeri piccoli contribuisce alla padronanza dell’addizione in colonna e alla capacità di calcolo mentale?

“Se non ci si pongono limiti, se si ha meno paura di sbagliare (di questo si tratta in fondo), ci si trova di fronte a molti esempi dove il calcolo mentale – che poi è calcolare con le parole! – è veloce, comodo, divertente: 3000 + 4000; 100 + 50; 35 + 15.

Il “gioco” del calcolo mentale è un continuo scoprire e sfruttare informazioni segrete sui numeri: ad esempio in 35 si nasconde un 5 mi permette di arrotondare e arrivare al risultato.

Poi scopro che la mia compagna ha visto altri numeri nascosti e ha fatto a modo suo e siamo arrivati allo stesso risultato per vie diverse: siamo in pieno nella bellezza della matematica. Questi “numeri nascosti”, queste scomposizioni, sono l’idea cruciale per capire tranquillamente le addizioni in colonna, invece di cercare di automatizzare procedure che non si sa perché funzionino.

Nel libro spieghiamo come fare con molti esempi.

I calcoli con numeri maggiori di 20 permettono di vedere molti esempi di addizioni: «facciamo il viaggio in montagna in macchina in due tappe. Il primo giorno 300 km e il secondo 400 km; quanto è lontana la località dove stiamo andando?». Ai bambini di classe prima vengono proposti invece esempi noiosi e stereotipati di macchinine o vasi con i fiori con numeri a una cifra.

Un approccio concettuale alla matematica è proprio questo: capire in cosa consiste l’addizione, capire anche che ci riguarda! … e poi i calcoli si faranno volta per volta a mente, in colonna o con la calcolatrice”.

Veniamo al quaderno come ‘palestra di pensiero’ più che come ‘vetrina’.

“C’è un bambino della classe di cui si narra in “L’ABC della matematica” che, ancora adesso, in quinta elementare, quando Anna propone di creare una tabella, di tracciare un segmento,
di disegnare un rettangolo o un quadrato per illustrare un problema di geometria, chiede: “Maestra, di quanti quadretti?”.

L’intera classe gli risponde in coro come Anna aveva risposto, a lui e ad altri, dal primo giorno di prima elementare: “Quanti te ne servono!”

Questo bambino ha piacere che il suo quaderno sia ordinato, non ama le cancellature e si impegna per consegnare compiti puliti e precisi nella forma, e questo è un bene. Il quaderno di matematica, tuttavia, deve essere uno strumento di lavoro, un posto in cui si segnano le idee che passano in testa, in cui si prendono appunti per costruire un ragionamento, in cui si fissa un concetto a cui si è giunti per poi passare al successivo, spezzettando la risoluzione di un problema in più passaggi, o in problemi più semplici.

L’ordine sul quaderno talvolta aiuta l’ordine mentale, eppure non sempre il disordine sul quaderno è indice di un ragionamento disordinato.

Un quaderno a sé, poi, andrebbe dedicato all’esplorazione del mondo geometrico di punti, linee, poligoni …

È evidente che a casa i genitori, sfogliando il quaderno dei propri figli, si compiacciano di vedere pagine pulite e ordinate, senza cancellature, ma è altrettanto evidente che pagine di questo tipo sono il risultato di due processi: copiatura dalla lavagna, oppure risoluzione di problemi che non sono problemi, cioè che non costituiscono una sfida per il bambino, problemi già risolti in precedenza, problemi la cui soluzione è già stata trovata e va solo scritta nuovamente, problemi troppo semplici che non stimolano il tentativo di scoperta”.

Anna Mazzitelli aggiunge: “Mi accorgo che molto spesso noi insegnanti di scuola primaria ci sentiamo sottoposti al giudizio dei genitori e dei colleghi, e talvolta facciamo coincidere il successo del nostro operato con l’ordine e la precisione raggiunta dai nostri alunni. Ma sono fermamente convinta che il nostro vero scopo sia insegnare ai nostri alunni a ragionare, e valorizzare i diversi processi mentali che portano alla risoluzione di un problema, di un calcolo, di un’operazione, anziché pretendere che tutti i bambini abbiano un quaderno perfetto con su scritte le stesse cose e gli stessi passaggi. Il nostro pensare implica disegni e rappresentazioni e simboli, ancora più se si tratta di matematica”.

Cosa, nelle pratiche didattiche maggiormente diffuse, rischia a vostro avviso di appannare la bellezza della matematica?

“La ripetizione estenuante di procedure sempre uguali, l’esercizio ripetuto e monotono, la monotonia di problemi tutti dello stesso tipo, in cui cambiano i numeri ma non lo “scenario”, e che oltretutto si risolvono sempre seguendo uno schema identico sul quaderno. L’esclusione quasi totale della geometria. Le lezioni che si susseguono sempre con lo stesso schema: si “spiega” alla lavagna, con tanto di termini da imparare (un giorno è decina e centinaio, un altro è numeratore e denominatore, un altro ancora angolo retto acuto e ottuso), poi si fanno esercizi. Ci si guarda sgomenti: ma perché tutto questo? Questa delusione avviene non di rado nei primi mesi della classe prima.

Una cosa che invece rende viva la matematica è la conversazione collettiva in classe. Porre una questione e far discutere i bambini, ascoltare la loro reazione spesso imprevedibile e ricca di spunti, invitarli a presentare al gruppo le loro ipotesi, a descrivere i ragionamenti che hanno seguito per formulare una stima o una risposta. La matematica diventa così un cammino insieme, nel quale si è certi di apprendere cose utili e sorprendenti; e si è pronti a mettersi in gioco, perché c’è davvero tanto da scoprire. Un’altra cosa decisiva in classe è valorizzare gli errori: quando un bambino commette un errore che lo porta alla soluzione sbagliata, cercare sempre di comprendere – tutti insieme, maestra, alunno o alunna e compagni – il ragionamento che ha portato a
quell’errore. Ci si rende conto in questo modo che alcuni bambini a volte fanno dei calcoli mentali utilizzando originali e particolari sistemi di scomposizione dei numeri, che a magari all’insegnante non sarebbero mai venuti in mente. Talvolte fanno errori di calcolo, o perdono qualche passaggio. Facendo però spiegare loro il personale ragionamento che hanno fatto, si riesce a individuare l’errore e indicare il punto in cui è stato commesso. A volte ci sono errori che fanno davvero sorridere. In definitiva, si permette loro di acquisire consapevolezza e si valorizza il ragionamento nella prospettiva di affinarlo e migliorarlo. Ci si sente grandi, si apprende quanto vale la pena comprendere il modo di vedere dell’altro, si coltiva il coraggio
di fronte agli ostacoli”.

La classe come “officina di conteggio con i sassi”, un’espressione da voi usata nel libro che è più di una semplice suggestione.

“Per tutta la prima elementare, la classe di cui si racconta in “L’ABC della matematica” ha realmente contato e “movimentato” dei sassi. Erano sassi molto belli, di tre grandezze diverse: abbiamo usato i più piccoli per indicare le unità, i mediani per le decine e i più grandi per le centinaia.

Tutti questi mucchi di sassi rendevano i conteggi molto concreti, c’era davvero l’atmosfera di un’officina artigianale dove un po’si fa e un po’ si inventa. Si poteva sempre ricominciare a contare se ci si distraeva. Anna accompagnava questo impegno con racconti sulla raccolta e il trasporto dei sassi, che avvolgevano il lavoro svolto in classe dall’intimità del compito condiviso, dalla magia della ripetizione, dal sentimento caloroso di mani che spostano e il tatto delle pietre. L’ambiente da officina, dove l’operosità è anche divertimento, poi può impregnare ogni cosa, anche un’addizione in colonna individuale fatta sul quaderno.

All’inizio dell’anno Anna aveva regalato a ciascuno di loro un braccialetto realizzato con un sasso bucato e infilato in un elastico, dicendo loro che ‘calcolo’ vuol dire ‘sasso’ e che quel sassolino sarebbe stato segno del fatto che non avrebbero mai dovuto temere i calcoli matematici, nemmeno quelli difficili… alcuni bambini hanno ancora quel braccialetto ora che sono arrivati in quinta, e ogni tanto lo indossano, ricordando quanto erano piccoli, e quanta strada hanno percorso, accanto alla matematica…”.

Come e quando introdurre la geometria?

“Si pensa spesso che la geometria è cosa dei ragazzi più grandi, quando invece essa è presente fin dal primo giorno di scuola, anche se spesso non la si riconosce. E si fa geometria solo di corsa alla fine dell’anno scolastico, ridotta a poche definizioni e classificazioni e alle formule di aree e perimetri. Ha davvero del paradossale. Quando i bambini della classe di cui si narra nel nostro libro hanno capito che vi erano sassi di tre grandezze, stavano facendo un confronto geometrico. Uguaglianza geometrica, linee e punti, allineamento e distanza sono presenti nell’apprendere a scrivere (nei suoi aspetti grafici e motori), attività centrale nei primi due anni di scuola.

La geometria si presta ancora di più dell’aritmetica a mettere in piede una officina con forme solide e piane: cubi, cordicelle, bastoncini, matita, righello. Gli esempi di attività sono tanti: uguaglianze, confronti, scomposizioni, rapporti. Tutte questioni che hanno anche un risvolto nel mondo dell’arte e un altro nel mondo scientifico. Nel libro spieghiamo paradossi che avvengono di fronte alle quantità misurabili (ad esempio i liquidi) che sono uno spunto per discutere in classe, avviandosi così all’atteggiamento scientifico”.

Sono molto gustose le pagine in cui si racconta di bambini alle prese con problemi assurdi, la cui illogicità, tuttavia, è ben lungi dall’essere riconosciuta. Come mai accade questo?

AM: “Durante 17 anni di insegnamento, ho spesso incontrato bambini che, posti davanti al testo di un problema, erano stati addestrati a rintracciare i dati numerici, a riscriverli e tentare
di spiegarli, a cercare nel testo parole chiave che indicassero loro senza possibilità di sbagliare quale operazione dovessero eseguire per ottenere il risultato (ho spesso sentito dire: “C’è scritto in tutto, vuol dire che bisogna fare l’addizione!”). Pochi erano i bambini che, leggendo il testo, provavano a immaginare la situazione descritta, a immedesimarsi nei personaggi e a ragionare su quello che il problema raccontava.

Quando 5 anni fa mi fu affidata una nuova classe prima, ho tentato di aggirare il problema dei problemi, facendo inventare il testo ai bambini. Per lunghe ore ho ascoltato testi semplici, testi complicati, anche testi che non avevano senso, e abbiamo condotto in classe conversazioni “matematiche” su come formulare un testo, una domanda corretta, e su come rispondere. Questo approccio tenuto fin dall’inizio ha prevenuto quella situazione per cui i bambini, posti davanti a un problema, sono convinti che la maestra si aspetti da loro una risposta di tipo numerico e quindi, pur non avendo idea di cosa voglia dire il problema, mescolano tra loro i dati con una o più operazioni per dare alla maestra ciò che vuole.

Un’altra consuetudine che impedisce ai bambini di emanciparsi da questo ‘contratto didattico’ in cui si sentono in dovere di fornire all’insegnante esattamente quello che lei vuole da loro, è quella suggerita dai sussidiari, nei quali non di rado si trovano gli argomenti trattati in un certo ordine, e seguiti da pagine di esercizi e poi di problemi, con tanto di titoli, come ad esempio: “problemi con l’addizione”, “problemi con la divisione”, “problemi con due operazioni”… Mi è capitato, in una quinta elementare, di proporre una verifica di fine primo quadrimestre che prevedeva la risoluzione di un problema, e di sentirmi chiedere da una bambina: “Maestra, per risolvere questo problema devo fare una o due operazioni?” È evidente che una domanda come questa prescinde da qualunque tentativo di ragionamento sul testo e di risoluzione autonoma. Il confronto con tante colleghe, nel corso degli anni, mi ha confermato che situazioni del genere sono molto diffuse. Al termine di questi cinque anni, non posso dire che tutti i miei 22 alunni risolvano senza problemi tutti i quesiti che sottopongo loro, posso dire però che nessuno mi chiede mai “Con che operazione lo devo risolvere?”, nessuno mi chiede se il problema richiede più di una operazione, spesso i procedimenti per risolvere lo stesso problema sono diversi tra loro,
alcuni ricorrono a disegni e schemi, ognuno cerca la sua strategia per poter arrivare alla soluzione”.

Si suggerisce anche di sostituire la parola ‘problema’ con ‘quesito’. Non sarebbe suggestivo forzare un po’ l’etimologia per vedere in un ‘pro-blema’ – dal greco antico ‘pro’, ‘davanti’, e ‘ballo’, ‘lanciare’ – qualcosa in grado di spingere noi in avanti, anziché ostacolarci?

AM: “L’idea di usare la parola ‘quesito’ anziché ‘problema’ mi è venuta qualche anno fa, in una classe in cui i bambini, al sentir nominare il problema, andavano letteralmente nel panico, e non provavano nemmeno a risolverlo. Ho quindi iniziato a dar loro giochi di logica, come quelli che poi ho messo assieme durante la seconda elementare di cui racconto nel libro, raccogliendoli nel ‘quaderno del volpacchiotto’, e li chiamavo quesiti. In quella classe una bambina in particolare cominciò a scivere la parola ‘quesito’ al posto di ‘problema’ anche quando proponevo loro dei classici problemi aritmetici, a volte presi dal loro libro di testo. Le chiesi come mai e lei mi rispose “Se scrivo così mi fa meno impressione, e mi sembra di più un gioco”

Problema, dal greco pro-ballo, vuol dire mettere davanti, indica un ostacolo da superare, un impedimento, qualcosa che è messo sulla nostra strada e impedisce il passaggio a meno di non essere risolto. Quesito, dal verbo latino “quaerere”, chiedere, interrogarsi, porsi una domanda, anche una domanda divertente, che mette in gioco, che crea una sfida con se stessi”.

È molto bello quello che dite sulla matematica e la verità…

“Questa frase, la matematica dice sempre la verità, è venuta fuori nei primi mesi della prima elementare, dopo la lettura in classe del racconto “Gatti neri, gatti bianchi” di Anna Cerasoli. La comprensione e il corretto uso delle parole che spesso troviamo nei testi dei problemi, ogni, alcuni, ciascuno, nessuno… sono fondamentali e fanno comprendere ai bambini che in un problema le informazioni hanno un significato univoco e preciso, che descrive una particolare situazione e non altre.

Ma è un’affermazione che ricorre nei bambini, che ad esempio quanto sentono un racconto alle volte chiedono: ma è veramente accaduto? I bambini che sentono il brivido di dire una piccola bugia, che – come è molto studiato negli ultimi anni – continuamente confrontano dentro di sé le idee che si sono fatti sulle cose con altre nuove informazioni o esperienze, fra cui quella scolastica.

L’esperienza su verità e conoscenza che offrono i concetti più elementari della matematica è una opportunità che i bambini colgono. A questo scopo, si tratta però di iniziare “alla grande” fin dalle classi prima e seconda. Speriamo di aver offerto con questo libro una guida per provare a farlo fino in fondo”.

Quasi 200 pagine ricche di esempi concreti su come spiegare l’aritmetica e la geometria nelle prime due classi della Primaria, come ci hanno lasciato ben intendere anche le Autrici, ma in cui è possibile trovare efficaci sintesi di storia culturale come a p. 41: “Nella prima metà del Novecento, la cultura europea era affondata sotto i totalitarismi e la Germania e l’Italia, paesi che avevano conservato, approfondito e promosso la tradizione della paideia greca – dell’umanesimo, in una parola – erano sprofondati in una spirale distruttiva e criminale. Gli Stati Uniti, che avevano permesso di sconfiggere il nazismo, si erano sforzati di proporre risposte pragmatiche, abbandonando i grandi ideali formativi eroici e riducendo l’apprendimento a un accurato calcolo di costi e benefici, a un procedimento ordinato e chiaro che non si lasciasse abbagliare da cose come il sentimento e l’eros della lezione. Oggi imperversa il termine “competenze”, che ripropone la questione della “misurazione” dell’apprendimento e affligge la scuola con il compito di preparare gli allievi come futura forza lavoro. Certo, tutto questo ha accentuato la paura di sbagliare, mentre faceva sfumare l’incanto e l’avventura dell’iniziazione dei bambini alla matematica”.

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