La storia di Gabriel, 13 anni, che sniffa benzina: fare scuola nei luoghi al margine. Il libro di Antonella Di Bartolo “Domani c’è scuola”. [INTERVISTA]

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Cosa vuol dire fare scuola nei luoghi al margine? Come vivono i bambini nelle periferie umane e geografiche delle nostre città? Nel libro della dirigente scolastica pubblicato da Mondadori, il racconto per episodi di dieci anni da preside nel quartiere Sperone di Palermo (vi proponiamo qui due estratti), dove le altre Istituzioni latitano e tanti genitori non sono consapevoli del loro ruolo. Eppure, nel buio fitto tutto intorno, per le bambine e i bambini la scuola è luce, e non solo metaforicamente.

Si è appena concluso l’anno scolastico. Il titolo del primo libro della preside Antonella Di Bartolo “Domani c’è scuola”, pubblicato da Mondadori, ci riporta alla semplicità e all’ovvietà che “domani ci sia scuola”. Chi non se l’è mai sentito dire dai genitori quand’era bambino? È giugno, la scuola è finita e ho chiesto alla preside del quartiere Sperone: “Cosa faranno i bambini quando domani non ci sarà scuola?”.

“Domani c’è scuola” allo Sperone come in tutte le periferie umane del mondo è una rassicurazione e una certezza. In un contesto gravemente deprivato e tutt’altro che rassicurante, con la criminalità mafiosa che recluta anche i bambini con lo spaccio di stupefacenti, domani c’è scuola è una salvezza. È uno slancio verso nuovi orizzonti diversi e possibili”.

“La scuola c’è sempre, ogni giorno, anche laddove tutto manca. È una certezza non solo per i bambini e le bambine ma anche per le famiglie che si è resa evidente anche durante il Covid, in cui la didattica a distanza è stata l’occasione per tenere vivi i contatti umani, per abbracci a distanza. Anche a fine giugno “domani c’è scuola” allo Sperone. Dov’è impossibile un tempo d’estate a pagamento la scuola assicura la sua presenza a lezioni concluse. In questo momento le nostre aule sono piene di mamme e nonne, bambine e bambini con un laboratorio di sartoria, di ragazze e ragazzi dalla quarta elementare alla terza media con delle attività sportive e artistiche. Abbiamo preso accordi per un campus estivo, nel mese di luglio, per i ragazzi e le ragazze di scuola media. La scuola non sempre può assicurare un tempo d’estate ai bambini con risorse professionali interne, ma in qualche modo si adopera per cogliere tutte le  opportunità da offrire gratuitamente. ‘Domani c’è scuola’ per noi ha un senso più ampio, perché undici anni fa, con un 27,3% di dispersione scolastica, più di 1 un bambino su 4 non veniva a scuola. Il diritto all’istruzione, non “l’obbligo”, non era nemmeno compreso dalle famiglie e ancora oggi non è scontato. Aver assicurato il diritto alla scuola a tantissimi è già per noi è una soddisfazione immensa”.

Il titolo “Domani c’è scuola” nasce da una voglia di normalità. Undici anni fa allo Sperone non era normale frequentare la scuola. “Se confrontiamo, nel nostro Istituto, il 27,3% di dispersione scolastica di undici anni fa con l’1% dello scorso anno sembra un enorme risultato, ma su 1200 alunni questo equivale a 12 tra bambini e bambine che ancora non frequentano adeguatamente la nostra scuola. E non va bene. È un risultato non solo da mantenere, piuttosto da migliorare. La dispersione è un campanello d’allarme che non ci deve far dormire la notte e ci deve impegnare tutti, uomini e donne di scuola e no; se un bambino non frequenta la scuola è fuori dallo Stato, fuori da percorsi di consapevolezza, libertà e autonomia. Bambini che saranno schiavi delle sollecitazioni di chi vuole approfittare di loro. Non è un problema scolastico, è un problema sociale, ne va dello sviluppo del Paese. Non esistono format, né ricette, per combattere la dispersione scolastica. Dietro la dispersione ci sono vite umane. Bisogna rendere la scuola un luogo di benessere, dove vuoi tornare il giorno dopo e il giorno dopo ancora, dove i bambini si sentono accolti, amati e non sbagliati. Ecco il senso di ‘Domani c’è scuola’.

Come si combatte (concretamente) la dispersione scolastica?

“Bisogna intraprendere un percorso di consapevolezza con i genitori, con un atteggiamento di accoglienza delle difficoltà, perché dietro un bambino che non viene a scuola ci sono una mamma o un papà che interpretano con fatica la responsabilità genitoriale, continua la dirigente Di Bartolo. D’altro canto, bisogna essere fermi nel fatto che non è consentita alcuna ‘distrazione’ da parte loro, nel loro dovere in quanto genitori. Molto semplicemente, far loro comprendere che non basta nutrire e vestire i propri figli per farli crescere bene. Spesso questi genitori sono i primi ad essere stati deprivati di opportunità. Nella maggior parte dei casi vogliono il bene dei propri figli, non sono genitori cattivi nel senso più comune del termine, ma non si rendono conto delle opportunità uniche che rischiano di far perdere ai loro figli e anche delle conseguenze legali che incombono su di loro come genitori inadempienti. L’obiettivo è in qualche modo far crescere anche i genitori, affinché si convincano che è giusto e bello accompagnare i figli in un percorso di istruzione che li renda consapevoli della propria vita e delle proprie idee, del proprio futuro sapendo usare la testa, facendo scelte consapevoli che non devono necessariamente rispecchiare quelle dei propri familiari. Sono genitori non consapevoli di un grandissimo torto, quello di negare il diritto allo studio ai propri figli. Mi è capitato tante volte guardandoci con questi genitori negli occhi di condividere enormi difficoltà che tuttavia insieme potevamo affrontare e superare. Non dobbiamo fare un braccio di ferro con loro dove non vince nessuno e ci si fa male a vicenda. È piuttosto un’alleanza. C’è poi un altro aspetto per cui è irrinunciabile la scuola e per cui la frase ‘domani c’è scuola’ dovrebbe essere un mantra: l’alternativa alla scuola è la strada, e le strade dello Sperone sono molto distanti, e non parlo dal punto di vista geografico, dal centro città”.

“La strada e il corteo” – Capitolo 13, pagine 79-83

A fine agosto Vincenzo iniziò il pressing: «Mamma, me l’hai promesso. Mi sono fatto grande, ho pure il telefonino».

Sua madre prendeva tempo: «Facciamo l’anno prossimo, quando andrai alla media? Mi pari nicu ancora». E, più lei evitava il discorso o provava a rimandare, più Vincenzo si ostinava.

«Beddamatri, Vincenzo. Io non è che sono tranquilla. Anche se ti seguo dalla finestra che puozzu fari se ti succede qualcosa?»

«Mamma, la finisci? E che mi deve capitare? Ma poi la strada non è quella che facciamo sempre, di lato al tram?»

«Tu unnu capisci: altro è se ti vedono che ci sono io con te, altro è camminare da soli. Tu unn’hai a taliari nienti, mi capisci? Cammini e guardi a terra. No di lato. A terra. Unn’hai a staccàri l’uocchi rin tierra. E se ti inquietano tu fai finta ’run sientiri a nuddu e cammini più veloce ancora.» (…)

Vincenzo aveva imparato la lezione della strada, di via Di Vittorio. Eppure, in cuor suo non riusciva a mandarla giù. E, mentre ogni mattina i muscoli delle gambe si allungavano, le mani si contraevano in un pugno. Pugni di rabbia, ogni giorno, dal mattino del 24 maggio dell’anno della sua prima media.

La data non poteva scordarsela, e sapeva perché: era la mattina successiva al corteo del 23 maggio. (…) Da scuola, insieme ad alcuni compagni e genitori, aveva prima preso il tram fino alla stazione centrale, e poi aveva fatto altri quindici minuti in metropolitana.

Erano strafelici, finalmente si tornava in corteo dopo due anni di fermo per il Covid. A Giachery si sarebbero ritrovati sotto lo striscione della loro scuola, l’I.C.S. “Sperone-Pertini”. Dopo essere uscito dalla metro, Vincenzo camminò per qualche centinaio di metri, alzò istintivamente lo sguardo verso il cielo e rimase immobile, tanto che fu spintonato dalle persone dietro di lui. Gli occhi fissi in alto, folgorati dai volti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ritratti da Andrea Buglisi sulle pareti opposte di due palazzoni, proprio sopra di lui. (…) Il sorriso enigmatico di Giovanni e lo sguardo teso e preoccupato di Paolo, con l’immancabile sigaretta. (…)

Vincenzo staccò gli occhi da loro e si guardò intorno, in via Duca della Verdura. Lo fece di continuo quel pomeriggio, anche in via Notarbartolo, verso l’albero Falcone: c’erano negozi di abbigliamento, di computer, bar; aveva contato due farmacie, qualche panificio, un megastore di articoli sportivi. Non come allo Sperone, lungo via Di Vittorio, dove lui, andando a scuola o tornando a casa, passava davanti ai pusher invece che di fronte alle vetrine di qualche negozio, o semplicemente a un supermercato, un ufficio, una farmacia, o a una qualsiasi normale scena di strada di una città normale. (…) «Palermo è nostra, e non di Cosa nostra» gridava in maniera quasi compulsiva unendosi al coro dei manifestanti, e intonava il ritornello di I cento passi, la canzone su Peppino Impastato che gli piaceva tanto.

Eppure – per la prima volta in vita sua – non riusciva a non pensare che poi, lontano da quel corteo festante, tornando a casa allo Sperone e facendosi strada fra degrado e immondizia, sarebbe passato davanti al padre del suo compagno Mario e a chi come lui, ogni giorno, spavaldo, faceva affari nella totale negazione dei valori in nome dei quali lui stesso stava manifestando.

Si immaginò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per un attimo scesi dai murales, con le loro sigarette tra le dita, fermi in un angolo, a osservare quella scena, la sua scena. E provò vergogna. Rabbia. E pianse, stringendo forte i pugni.

© 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano

L’impegno della Procura per i minorenni di Palermo

L’esperienza in “Domani c’è scuola” descritta dalla preside Di Bartolo è lo specchio di un quartiere a Palermo dove vige la criminalità organizzata di tipo mafioso, che coinvolge i bambini come autori di reato, come vittime di un contesto dov’è difficile distinguere il confine tra l’agire lecito e illecito e che non tutela il loro diritto primario alla salute. A questo punto ho intervistato la procuratrice del Tribunale per i minorenni di Palermo, Claudia Caramanna, per comprendere meglio le dinamiche del quartiere in cui ci troviamo.

“È vero che nonostante tutti gli interventi repressivi che ci sono stati negli anni, purtroppo, l’organizzazione mafiosa esiste, sfrutta in particolare il traffico delle sostanze stupefacenti, così come quello delle estorsioni, e continua la sua attività capillare influenzando il territorio e soprattutto alcuni quartieri più disagiati di Palermo. Quello su cui ho prestato attenzione è un aspetto di queste organizzazioni criminali, che è quello del vincolo familiare. Ci sono famiglie in cui è come se si tramandasse di padre in figlio questa attività di partecipazione a Cosa Nostra e poi lo spaccio delle sostanze stupefacenti. Tutto questo coinvolge i minori, o come autori di reato; abbiamo avuto casi di minori non imputabili, a 10-12 anni, e minori utilizzati come pusher da strada, nell’assoluta inconsapevolezza, perché sono bambini che nascendo e vivendo in questi contesti difficilmente riescono a trovare una linea di confine netta tra quello che è l’agire lecito e illecito. Abbiamo trovato nel quartiere Sperone due nuclei familiari in cui la sostanza stupefacente veniva occultata all’interno della stanza dei bambini, nella cassapanca dei giocattoli c’erano le bustine di cocaina occultate. Abbiamo registrato tantissimi casi, sul territorio di Palermo, di bambini molto piccoli che assumono accidentalmente sostanza stupefacente e poi vanno in coma perché la trovano in casa. Soprattutto negli anni della pandemia molti nuclei familiari preparavano le dosi a casa, le vendevano a casa perché non si poteva uscire, per cui i bambini avevano questo contatto diretto e immediato con le sostanze; a quell’età portano tutto alla bocca e quando entravano in coma, i genitori erano costretti a portarli al Pronto Soccorso. Abbiamo avuto un caso di questo tipo allo Sperone, di un padre agli arresti domiciliari per spaccio di sostanze stupefacenti, che continuava a consumare a casa tanto che il neonato è finito in coma per aver inalato queste sostanze che il padre non solo spacciava ma consumava davanti al bambino. In questi casi devi allontanare il bambino e la mamma da quel contesto, che non protegge il bambino nemmeno nel suo minimo diritto alla salute. Abbiamo poi bambini che vivono in questi contesti in cui hanno padri arrestati e detenuti per anni, che vivono in contesti in cui si respira un’aria che non è quella della legalità e del rispetto delle regole”.

Essere genitori allo Sperone

“Abbiamo stipulato un protocollo d’intesa nel giugno 2023 con la Procura ordinaria e con la Procura generale”, continua la procuratrice Caramanna. La Procura ordinaria nel momento in cui effettua queste operazioni, arresti per associazione a delinquere di stampo mafioso, oppure, associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, quando i genitori hanno figli minori, ci trasmette gli atti, noi apriamo dei procedimenti e cerchiamo di verificare se questi minori vivono in un contesto sano o di pregiudizio. A quel punto ci attiviamo con ricorsi finalizzati o alla dichiarazione di decadenza della responsabilità genitoriale, o di allontanamento delle mamme con i propri bambini dal territorio (com’è accaduto spesso) quando le mamme capiscono che è meglio distaccarsi da un contesto di malavita per evitare che il figlio possa continuare a crescere in quei contesti”.

“L’attività del mio ufficio è anche di prevenzione, in cui credo molto, ci rechiamo nelle scuole, cerchiamo di essere vicini alle persone, perché quartieri come lo Sperone vivono una condizione di particolare criticità. Lo Sperone è un quartiere che era nato come una borgata marinara, poi negli anni ’70-80, col boom edilizio hanno costruito questi casermoni che sono diventati edifici di edilizia popolare; ci sono tante persone che vivono lì e sostanzialmente non hanno prospettive future. Sono quartieri dove non c’è una piazza in cui potersi riunire, in questi anni si sono molto attivate le Istituzioni scolastiche, la chiesa, il privato sociale. Il quartiere è densamente abitato e ci sono soltanto due assistenti sociali”.

“Non essendoci possibilità di sviluppo sembra quasi inevitabile dedicarsi ad attività illecite. Poi c’è un timore e pregiudizio verso le Istituzioni. Chiami la Procura per i minori e hai paura che ti tolgano il bambino. Il nostro obiettivo non è mai questo. Quella è l’estrema ratio. Si cerca di inserire sempre, se possibile, il bambino con le mamme, poi ci sono degli interventi a tempo finalizzati a far sì che i genitori si rendano conto che la genitorialità va gestita in modo responsabile e adeguato. Ci occupiamo di questi genitori, con dei percorsi finalizzati al recupero di queste competenze genitoriali, riunendo poi queste famiglie. Nelle scuole è importante far capire ai bambini e alle mamme chi siamo e cosa vogliamo fare, siamo persone in carne ed ossa. Sono decisioni che non si prendono a cuor leggero o in modo semplicistico”.

L’operazione “Nemesi” che ha coinvolto i bambini

“Nel 2022 abbiamo aperto circa 48 provvedimenti quando c’è stata l’operazione Nemesi, una grossa operazione per sgominare una delle più importanti piazze di spaccio del Sud Italia, che è lo Sperone, che ha visto coinvolti diversi bambini. Il 22 maggio, quest’anno, c’è stata un’altra grossa operazione allo Sperone condotta dalla Squadra Mobile di Palermo, che ha portato a diversi arresti, di misure di custodia cautelare in carcere, altri di arresti domiciliari, altri denunciati a piede libero; altri nuclei familiari che adesso sono oggetto della nostra attenzione, dovremo verificare caso per caso quali interventi adottare per tutelare questi minori. Il nostro obiettivo è sempre la tutela del minore. Accade anche che un provvedimento duro come l’allontanamento del minore dalla famiglia induce i genitori a cambiare stile di vita. È un provvedimento che può sempre essere revocato. Un genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale può chiedere al Tribunale di essere reintegrato nella responsabilità genitoriale. Si fa un’istruttoria, se realmente la sua condotta è cambiata, si procede con la revoca”.

“Benzina” – Capitolo 19, pagine 119-122

“Maestra, mio padre a me questa cosa non me la doveva fare. Si è messo nei guai e a noi non c’ha pensato. Ci ha lasciato così, soli. Se n’è fregato. E i soldi che guadagnava lo sa quanto sono durati? Tre mesi, e poi mamma ha dovuto andare a fare la cameriera nelle altre case. Il lavoro le dura dieci giorni, due settimane: appena sentono che il marito è in gabbia la mandano via. Mia madre piccioli dagli zii, dai fratelli di mio padre, non se ne prende, non li vuole. E fa bene. Loro hanno messo nei guai a mio padre, e lui si è lasciato convincere da loro. Pure lui ha sbagliato, più di loro. Perché doveva dire no, se ci voleva bene. Bel regalo ci ha fatto mio padre”».

(La maestra Nunzia) riferiva le parole di Gabriel con trasporto, provando a replicare il tono disperato del bambino.

«Per questo sniffa benzina, preside. Per non pensare. Perché, se pensa sente troppo male. È un bambino devastato, ha un tale vuoto dentro… Gli è cambiato il presente e non riesce a immaginarsi nel futuro. È un condannato anche lui, povero figlio. Da un giorno all’altro si è svegliato e tutto intorno a lui era cambiato, le sue certezze, la sua famiglia. Il tutto aggravato dalla delusione, dal lutto non elaborato per un addio non vissuto. Sopra a ogni cosa, il senso di tradimento da parte della persona che più amava al mondo, suo padre.» (…)

Quell’anziana ex insegnante elementare, che aveva alle spalle quarant’anni di servizio, con il suo racconto tranquillo, eppure implacabile, mi portava sul ciglio dell’abisso.

La ascoltavo, ma non riuscivo a dire niente. Cosa puoi dire quando il dolore ha le sembianze di un ragazzino di tredici anni? Pensai all’inferno che Gabriel stava vivendo, a quanto tutto ciò fosse ingiusto, insostenibile. Troppo grande e davvero troppo doloroso per un bambino.

“Chissà se suo padre è al corrente. Se si rende conto di cosa ha fatto. Non contro la legge, ma contro suo figlio”. (…)

E poi? Una prescrizione farmacologica e l’invio a un percorso psicoterapeutico per tutto il tempo necessario.

Sulla carta suona convincente, e fattibile. Ma nella realtà? È possibile per un bambino dello Sperone fare psicoterapia in una struttura pubblica o convenzionata? No, non lo è. Esiste un ambulatorio o un consultorio territoriale in cui Gabriel possa fare questo percorso psicoterapeutico di cui ha bisogno? No, non c’è.

Non rimane che il privato, e per la sua famiglia è impossibile sostenerne i costi.

Risultato: Gabriel, tredici anni, una situazione familiare e psicologica segnata, un esordio di dipendenza da sostanze, al di fuori dell’ambito scolastico non viene preso in cura da nessuno.

Anche questo è essere bambini allo Sperone.

© 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano

La scuola è luce

“Chissà se, ripercorrendo quel pentimento di Gaspare Spatuzza che pensò al sorriso di Padre Puglisi dopo averlo ucciso, chissà se uno spacciatore, padre dei nostri bambini, non cambierebbe vita di fronte al racconto delle tante vite spezzate dalla droga o al racconto di altri padri che hanno perso i propri figli per lo stesso motivo?”, si interroga la preside Di Bartolo.

“La scuola è luce non è soltanto una frase simbolica, ma un’azione concreta che abbiamo messo in atto quando l’intera Seconda Circoscrizione è rimasta al buio per qualche mese, anni fa, a causa di un furto di rame nelle cabine elettriche; e noi come scuola abbiamo acceso tutti i plessi, ogni sera, sia all’interno che all’esterno, per illuminare gli attraversamenti pedonali e far sì che i cittadini avessero dei punti di riferimento per tornare a casa, rientrare in sicurezza, semplicemente buttare l’immondizia o passeggiare il cane. I nostri bambini e le nostre bambine ci hanno raccontato che, quando si affacciavano la sera alle finestre di casa, l’unica luce che vedevano era quella della loro scuola. Non è bellissimo? La scuola è un faro nel buio fisico e umano. E questo è simbolico rispetto alla posizione geografica in cui ci troviamo; alcuni nostri plessi si affacciano sulla costa, e da qui l’acqua del mare si vede dai corridoi della nostra scuola”.

“Scegli ogni giorno da che parte stare” (Padre P. Puglisi)

“La nostra scuola si è sempre schierata apertamente verso percorsi di affrancamento e di libertà dalle zone grigie”, continua la preside Di Bartolo, che alle spalle della propria scrivania tiene affissi i calendari della Polizia e dei Carabinieri, della Guardia di Finanzia, le foto dei giudici Falcone e Borsellino e di Padre Puglisi. “Perché nell’accoglienza dei genitori con le storie più disparate, spesso difficili – la mia stanza è aperta per tutti ogni giorno – voglio segnare bene il confine in cui stare ma tendendo la mano a questi genitori. È una missione laica, quella della nostra scuola.

“Quando ho scelto di fare la preside allo Sperone, undici anni fa, è stata un’assunzione di responsabilità e forse anche un po’ di rischio. Una scelta totalizzante che non ha incontrato la comprensione della mia famiglia. Racconto anche questo nel libro: di quanto possa essere difficile eppure irrinunciabile, cambiare e crescere, e quale alto costo possa avere vivere appieno la propria maturità personale e professionale. Sono cambiati i ritmi a casa, mio marito mi ha fatto pesare moltissimo la mia assenza, già al momento del concorso per la dirigenza scolastica; mostrando distacco e silenzio, talvolta ostilità, nonostante facessi i salti mortali per conciliare la vita familiare con l’accudimento dei nostri figli e il lavoro. Quasi una negazione delle pari opportunità, nella mia scelta di avanzare a livello professionale. I miei figli inizialmente hanno sicuramente accusato il colpo della mia assenza fisica da casa, ma sono certa che hanno elaborato insegnamenti profondi, di vita, che sono un loro patrimonio. Adesso hanno 23 e 20 anni; e sono cresciuti vedendo una madre che studia per superare un concorso quando ha già un posto di lavoro, che cerca di realizzare le proprie ambizioni rinunciando al tempo libero, una madre che cerca di testimoniare con i fatti i valori in cui crede”.

La scuola come impegno civile

A pochi passi dallo Sperone, nel quartiere di Acqua dei Corsari, c’è il Parco Libero Grassi, con un anfiteatro sul mare, dedicati all’imprenditore siciliano ucciso dalla mafia nel 2011. “Un personaggio al margine e un po’ sepolto nell’oblio, Libero Grassi, rispetto alle donne e agli uomini colpiti dalla mafia che commemoriamo tutti gli anni. Un uomo ucciso da Cosa Nostra, Grassi, perché si rifiutava di pagare il pizzo. Spesso si parla di testimoni di legalità ma bisognerebbe parlare anche di testimoni di dignità. Grassi lucidamente pose l’accento sul rapporto tra la qualità del consenso e la qualità della democrazia: a una cattiva raccolta di consenso fatta con logiche clientelari corrisponde una cattiva democrazia, corrispondono cattive leggi. Il modo di fare politica è fondamentale, perché si riverbera sulle vite di tutte e tutti noi, sui servizi, sulle scelte strategiche del Paese, sicuramente sulla scuola”.

“Io ho fatto il concorso per dirigente scolastico perché in 17 anni di insegnamento avevo cambiato 11 dirigenti scolastici conclude Di Bartolo -, e osservando il loro modo di essere presidi, non sempre riconoscevo in loro il ruolo di leader educativo. Avevo capito che, se un preside vuole, può incidere moltissimo non solo sulla scuola, ma anche sulla vita del quartiere in cui opera. Quando ho saputo che il Ministero aveva fissato la data del 23 maggio, quest’anno, per la prova preselettiva del concorso per dirigenti scolastici, mi sono emozionata. Sono certa che questi futuri dirigenti non dimenticheranno che il giorno d’avvio della loro nuova vita professionale coincide con l’anniversario della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Quale migliore auspicio per raccogliere il loro testimone e portarlo con spirito di servizio attraverso la scuola per le strade, per i quartieri, soprattutto quelli più martoriati. Noi educatori, pur nella fatica quotidiana, siamo dei privilegiati: costruttori di futuro, portatori di luce e di fiducia nel domani, e nella scuola. Che per fortuna c’è, c’è sempre”.

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