La scuola in tempi di pandemia. Lettera
Inviato da Ferdinando Goglia – Di fronte al proliferare di dichiarazioni tutte allineate nella stessa direzione, di politici, opinionisti, rappresentanti di associazioni e fondazioni, dirigenti scolastici, in nessun settore quanto nella scuola si consolida l’impressione che la pandemia in atto sia stata assunta a pretesto per imprimere un’accelerazione violenta a processi di trasformazione, per lo più a matrice eteronima, pianificati da tempo, che in condizioni di normalità incontrano le legittime resistenze sia di forma, nel quadro normativo e contrattuale, che di sostanza, nelle obiezioni di chi la scuola ogni giorno la fa, ossia i docenti.
Non credo d’altronde si possa ignorare la dimensione degli interessi in gioco quando si parla di sistema scolastico, il cui “prodotto”, rappresentato dall’apprendimento, dai saperi e dalle celebrate competenze, oltre a costituire il connettivo del tessuto democratico di un paese, se sottratto alla gratuità pubblica è – al pari dell’assistenza sanitaria – una merce a domanda continua ed inesauribile, fonte potenziale di altrettanto inesauribili profitti, diretti ed indiretti.
Così peccherebbe davvero di ingenuità chiunque non riconoscesse, nell’auspicata conversione digitale della didattica, lo spalancarsi di vastissime opportunità di mercato per tutti gli operatori di settore che forniscono: connessione, interfacce e applicativi, pacchetti di formazione, piattaforme di valutazione standardizzata, sistemi operativi, device. E per quanti, anche all’interno delle strutture pubbliche, confidano nel relativo know-how come opportunità di collocamento e di carriera.
Per contro, non possono che suscitare perplessità alcune particolari scelte dei decisori politici, foriere – se non altro sul piano simbolico – di sicure ricadute di lungo termine ma le cui motivazioni dichiarate non sembrano reggere al vaglio della ragione. Mi riferisco, ad esempio, all’idea di sopprimere l’esame di terza media conclusivo del I ciclo di istruzione. A cui, almeno nella forma ridotta al solo colloquio, non sembrano ostare le misure di cautela contro il contagio.
Tenendo conto che le prove si effettuano normalmente nella seconda metà di giugno, quando con ogni probabilità il “lockdown” sarà terminato da tempo, e che ogni istituto scolastico dispone di almeno un’aula “magna” e/o di una palestra, di dimensioni tali da poter accogliere in tutta sicurezza la commissione, composta al massimo da una dozzina di persone tra docenti e presidente, e un ridotto numero di alunni – da sempre non più di 6 o 7 per turno -, si fa molta fatica a non leggere tra le righe della previsione normativa quantomeno una considerazione veramente scarsa del valore pedagogico dell’esame stesso e del percorso di studi di cui rappresenta il coronamento, quando non l’esistenza di motivazioni recondite. Altrettanto dicasi per l’assai triste modalità telematica ipotizzata per lo svolgimento del colloquio della maturità.
Date tali premesse, nel malaugurato caso in cui a settembre l’epidemia impedisse ancora la ripresa regolare delle lezioni e di fronte al prevedibile tentativo di strumentalizzare le circostanze per trasformare la “didattica a distanza” da infelice espediente di emergenza utile a mantenere un minimo di comunicazione con gli alunni in elemento strutturale dei percorsi di apprendimento conferendole così piena dignità didattica ed equipollenza alla didattica in aula, da docente mi permetto di suggerire che una soluzione alternativa ragionevole, che preservi almeno in parte il rispetto del diritto degli alunni all’istruzione (quella autentica) e la qualità dell’insegnamento, esiste:
– dimezzare o ridurre il monte ore settimanale;
– organizzare le lezioni in tre o quattro turni giornalieri: 8-11, 11-14, 14-17, 17-20;
– formare le nuove classi prime con un numero di alunni non superiore a 18 o anche meno.
Gli ingressi e le uscite distribuite nell’arco della giornata, insieme al rispetto di quelle regole di prevenzione che ormai siamo tutti indotti a seguire sempre, eviterebbero le principali occasioni di assembramento dentro e fuori i locali della scuola e ridurrebbero il rischio di intasare in orari di punta il trasporto pubblico (da potenziare in modo rilevante a prescindere) e privato.
Il necessario distanziamento sociale potrebbe essere garantito all’interno riservando alle poche classi presenti di volta in volta nella scuola le aule più spaziose di cui ciascun edificio scolastico dispone. Nei casi, che ritengo eccezioni, in cui proprio non ci fossero aule in grado di ospitare in sicurezza le classi, occorrerebbe comunque provvedervi a prescindere dall’emergenza, reperendo locali idonei e programmando gli opportuni interventi di edilizia scolastica.
Si scongiurerebbe, con questa ipotesi di soluzione, l’antimetodico e antipedagogico smembramento dei gruppi classe. Le lezioni sarebbero ridotte, ma qualitativamente eguali – se non migliori – di quanto consentito dall’organizzazione ordinaria, in certi casi troppo gravosa per gli alunni, esposti a 6 e anche più ore continuative di lezione.
Se penso poi alle tante attività che si apprestano a riprendere e ai tanti lavoratori che torneranno a riempire fabbriche e locali commerciali, mi chiedo anzi perché la scuola debba costituire un’anomalia e persino già da ora, con le medesime precauzioni, non possa riaprire.
Sono consapevole che quanto propongo potrebbe non piacere a nessuno, non a chi dirige il MIUR e agli “stakeholder” interessati alla digitalizzazione, non ai tanti genitori ormai abituati a concepire la scuola come un servizio di intrattenimento on demand, non ai sindacati interessati ad incrementi di organico che in questo caso non ci sarebbero, non ai troppi docenti poco preoccupati della dignità propria e di quella del loro lavoro; solo forse a chi tiene, in primo luogo, alla sopravvivenza dell’insegnamento.