La scuola: biglietto da visita di un paese democratico. Dal diritto all’istruzione al diritto all’Educazione

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Attraversiamo una fase della nostra storia che certamente resterà negli annali, anche ai maturandi, ai nati nel 2001, ai quali, quasi a confortarli, si dice che “entreranno nella storia”. Non c’è dubbio. Che cosa si scriverà? Che cosa si dirà di loro? Saranno considerati vittime oppure eroi di questo tempo? Chissà.

In questo periodo abbiamo vissuto di paure e di circolari, di regole e di provvedimenti ministeriali finalizzati a gestire un’emergenza sanitaria, abbiamo dovuto ri-conoscere anche l’ignoto e il mistero della vita e della morte, la solitudine. Che il virus permanga o no, è certo che si tratta di un evento che costringe l’uomo del terzo millennio a cambiare, a modificare i propri stili di vita, a individuare un altro e nuovo adattamento all’ambiente, naturale e sociale. Ma tutto ciò costringe inevitabilmente, e finalmente, a un altro pensiero. Pensare e ripensare il sociale: un’enorme opportunità da cogliere. Il pensiero nasce dalle e con le domande, proprio come fanno i bambini. Perché? Com’è? Dov’è? Ci si è evoluti grazie alle domande. Anche Ulisse iniziò il suo viaggio di conoscenza interiore e del mondo domandandosi che cosa ci fosse al di là del mare. Il pedagogista Paulo Freire invita alla domanda per scongiurare quella che lui definisce “cultura del silenzio” che innesca meccanismi di sottomissione e crea dipendenza e alienazione.

L’evento pandemico costringe a ritrovare il tempo per pensare. Perché è nata la scuola? A quale bisogno ha corrisposto la sua nascita? Chi è, che cos’è la Persona? Non è mia intenzione per ora riferirmi alla storia legislativa, pur essenziale, ma al significato di “scuola”, domanda essenziale e prioritaria in questo tempo in cui da ogni parte giunge l’auspicio di una sua radicale trasformazione. Vale la pena ricordare che le domande autentiche devono essere quelle legittime, ovvero le domande che non hanno una risposta consueta o scontata.

Che cos’è la scuola? D’impulso mi torna in mente il modello greco di scholé, che “[…] per gli antichi era educazione allo stare insieme e il Maestro non era soltanto colui che veicolava il sapere, ma un facilitatore che attraverso la parola educava al logos, al ragionamento, al pensiero. Nella scholé si praticavano la scrittura, la lettura, la musica, il movimento attraverso la ginnastica e poi si esercitava la memorizzazione. Attività eccellenti. Recitare i versi dei cantori, interpretarli con il corpo e con il suono rappresentava il meglio. Il filosofo Protagora sosteneva che attraverso la musica si educavano lo spirito e l’anima perché tutta la vita dell’uomo ha bisogno di equilibrio e di armonia”.

Ebbene, questa è la trasformazione di pensiero, l’idea di scuola che auspico.

La scuola italiana ha l’opportunità di intraprendere un viaggio completamente nuovo dopo che la pandemia ha scoperchiato il vaso di Pandora evidenziando tutte le lacune, le debolezze, le problematiche, gli irrisolti decennali del nostro sistema scolastico. È ora di prenderne coscienza. Albert Einstein sosteneva che “la crisi è una benedizione” volendo dire che nella sofferenza e nelle difficoltà, l’essere umano è capace di individuare le soluzioni, i cambiamenti migliorativi. È l’istinto di sopravvivenza. L’importante è che alle soluzioni si giunga attraverso il dialogo proficuo, l’ascolto, l’apertura di pensiero e la concretezza di un agire che sia educativo e responsabile.

La DaD ha rappresentato un’esperienza didattica e metodologica completamente nuova ma non innovativa. Essa è stata già sperimentata con i bambini e i giovani a lungo ospedalizzati, per esempio. Si tratta di situazioni estreme e contingenti nelle quali la didattica a distanza si rivela senz’altro utile. Durante il lockdown si è espressa come l’unica risorsa possibile e lo “scenario docente” è stato variegato: chi si è ben adeguato, chi ha provato soddisfazione nel praticarla, chi l’ha rifiutata, chi non ha imparato ad attuarla nel migliore dei modi, chi ne vuole fare una prassi per il futuro, chi si è convinto che la didattica non può che passare dalla relazione educativa. Tra incertezze, domande, dubbi, timori, generalmente tutti i docenti si sono prodigati nel “fare scuola” e, in alcuni casi, la creatività individuale ha reso piacevole la DaD, in particolar modo quando l’obiettivo didattico è diventato un obiettivo educativo, teso a tutelare il benEssere affettivo- emotivo degli alunni. Al di là delle ormai consuete critiche negative e umilianti rivolte ai docenti, sta di fatto che la scuola è andata avanti. A volte la collaborazione scuola-famiglia è stata serena e comprensiva, altre volte distaccata e ostile. Ma una pandemia è una pandemia! non ti dà tempo, le soluzioni sono necessariamente emergenziali.

Ora l’anno si è concluso, viviamo una fase di sospensione, si attende il destino del nuovo anno scolastico. Chi attende senza porsi domande, chi propone soluzioni, chi scrive manifesti, chi fibrilla e nell’attesa chiede ascolto, chi propone petizioni, chi riferisce voci di quel che si prospetta. Ed è giusto! Chi vive la scuola, ama la scuola e ha a cuore il suo destino. La scuola è comunità educante e ha bisogno di una voce corale e se la crisi è opportunità, possiamo trasformarla in meglio questa nostra cara scuola! Intanto il tempo passa. I grandi problemi che la investono richiedono azioni pensate, sostenute soprattutto dagli studi e dalle ricerche di esperti dell’educazione e della formazione e di e psicologi dell’educazione, che soli potrebbero garantire proposte efficaci, ecologiche e davvero sostenibili per una scuola del terzo millennio. L’adeguamento alle nuove tecnologie non può più rappresentare lo scopo prioritario del “fare scuola” ma deve andare di pari passo con una riforma del pensiero che implichi una efficace comunicazione e un’ermeneutica dei significati. Domande: chi sono gli studenti che abitano la scuola di oggi? Dove vivono? Con chi? Qual è la loro vita fuori dalla scuola? Stanno bene o stanno male? Sono felici? Dentro-fuori: c’è contatto? C’è continuità?

Bisogna partire dal presupposto che il compito della scuola non è solo più istruire, anche perché non si può istruire senza motivazione, senza reale interesse, senza coinvolgimento emotivo, senza pensiero, senza talenti. I problemi sono tanti: il bullismo, il cyberbullismo, l’aumento di forme depressive e ansiogene, la dispersione scolastica, il fenomeno dell’abbandono che coinvolge ancor più le cosiddette fasce deboli della popolazione, l’invasiva corrente medicalizzante, il sistema di valutazione in bilico… Inoltre, la povertà educativa non riguarda solo i poveri, purtroppo in aumento con la pandemia, ma anche le fasce medio alte della popolazione. Siamo dentro un’altra idea di “povertà”. Quindi è chiaro che il cambiamento auspicabile non riguarda solo gli interventi strutturali degli edifici scolastici, pur indispensabili. Cominciamo a considerare almeno le semplici soluzioni! Non riesco a pensare che siano ingenue le proposte di eliminare le “classi pollaio”, prevedere un massimo di 15 alunni per classe, di dieci quando in presenza di alunni diversabili (domanda: “Che cosa intendiamo per inclusione scolastica?”), di assumere e formare più docenti. Mi domando ancora: perché tutto ciò non è possibile? La scuola determina l’identità culturale e sociale di un Paese che si definisca democratico, è il suo biglietto da visita!

Incalzano lessici tecnici, tecnologici, medici, psichiatrici, mentre è sparuta la presenza di voci esperte di educazione. Perché? Evidentemente manca un forte e convinto pensiero pedagogico di base.

La scuola che cos’è? Che cosa rappresenta per un Paese che si definisca democratico? Chi sono i docenti? Chi sono i bambini, gli adolescenti? Chi sono le famiglie? A partire dalle domande si scopre la verità ed è nella verità la spinta rigeneratrice di un popolo. La scuola educa, istruisce e forma giovani menti. Rendiamoci finalmente conto di quanto sia enorme e delicato il compito affidato ai docenti! E quanto altrettanto delicatissima sia la formazione degli educatori! Naturale pensare per esempio a Sándor Ferenczi e ai suoi studi sulla relazione indissolubile tra pedagogia e psicoanalisi.

In questo periodo tanto si è fatto riferimento al maestro Alberto Manzi, grande ed eccellente figura della pedagogia. Manzi aveva un preciso obiettivo: l’alfabetizzazione di una buona parte della popolazione per garantire il diritto costituzionale all’istruzione. Oggi non basta più, si va oltre il significato pragmatico. Va garantito il diritto all’Educazione, cosicchè assumere la DaD quale prassi didattica normalizzata sarebbe un grosso errore, possiamo migliorarla, imparare a conoscere meglio le sue potenzialità, per servircene in occasioni emergenziali, contingenti, eccezionali, ma non assurgerla a metodo pedagogico. “Fare scuola” è tutta un’altra cosa. Essa è volto, sguardo, contatto, conflitto, sorriso, è il vociare dei bambini, è il loro movimento, sono i loro corpi nello spazio che abitano e vivono. La scuola deve insegnare a vivere (Morin) e non s’impara certo attraverso uno schermo. Dov’è il calore umano? dov’è il tendersi la mano? Come s’imparano la solidarietà e il fare comunità? Il lockdwon ha innescato la cosiddetta “sindrome della tana”, la DaD potrebbe innescare altrettante e preoccupanti forme di isolamento sociale nei nostri alunni. Ricordiamo ancora il fenomeno Hikikomori? Fino a ieri ce ne siamo occupati!

La scuola che attendiamo richiede una trasformazione dell’idea stessa di scuola, che supera la domanda: istruire o educare? Il terzo millennio richiede un’altra Educazione, un’impresa molto più complessa dell’istruire.

Il nostro caro e prezioso terzo millennio, per quanto tecnologico, non ha ancora risolto problemi secolari: ingiustizia sociale, differenze culturali, povertà educativa ed economica, disagio generalizzato. L’uomo è solo, i bambini fanno la guerra, altri migrano nell’illusione di trovare condizioni di vita migliori ma non sempre vengono accolti, come se il pianeta fosse proprietà di pochi, scordandoci che i confini sono stati creati dall’essere umano!

Le crisi, ripeto, sono sempre proficue sotto certi aspetti, pur nella sofferenza offrono l’opportunità di una trasformazione. Io voglio sperare in una metamorfosi. Auspico che le scelte dei variegati esperti che in queste ore decidono il destino della nostra scuola non siano “rattoppi” emergenziali. Caos e incertezza, sospensione e considerazioni solo emergenziali, sono condizione deleterie per coloro che amano e vivono la scuola, per la dinamicità dei processi di progettualità e di progettazione. L’attesa e la vaghezza agiscono negativamente sul piano psicologico e operativo. Non c’è più tempo.

Occorrono rinnovamento di pensiero, forza creatrice, analisi dei nuovi bisogni, ascolto di coloro che quotidianamente abitano lo spazio vivo della scuola, studio e ricerca.

Un’altra scuola, un’altra educazione: da questo bisogna ripartire, tenendo ben presente i fini, che non siano esclusivamente il mito del progresso tecnologico, le richieste del mercato, le risposte ai criteri di stampo aziendalistico- manageriale. La scuola è scholè e non un’azienda. Sarebbe un’ulteriore sconfitta, un ulteriore e grave impoverimento culturale e umanistico. Rimettiamo al centro i nostri bambini, occupiamoci “umanamente” dei nostri adolescenti, perché saranno loro, oggi dimenticati, a ri-scrivere un futuro che riguarderà il pianeta stesso. Se solo avessimo tenuto in debita considerazione il concetto di “educazione cosmica” di Maria Montessori, avremmo loro facilitato il compito.

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