“La crescita deve essere trasformarsi da pensiero pensato a pensiero pensante”, ne parliamo con Alberto Pellai

È iniziato il nuovo anno scolastico, ma ci sono ancora molti nodi da risolvere tra cui, il più importante, è su come ripartire. Ne parliamo con il dott. Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, esperto di prevenzione in età evolutiva ed è autore di molti volumi per bambini, genitori e insegnanti.
Dottor Pellai, con “Sta passando la tempesta”, volume edito dalla Erickson, lei propone un percorso agli educatori, siano essi insegnanti che genitori, per accompagnare i bambini dell’infanzia e dei primi anni della primaria a far fronte alle difficoltà facendo ricorso alle risorse interiori. Ci aiuta a capire meglio questo aspetto?
L’idea è che tutti noi, quando dobbiamo incontrare nella vita difficoltà, ostacoli e imprevisti, dobbiamo trovare dentro di noi le risorse per affrontarli. Quando sei un bambino in realtà la tua risorsa principale è l’adulto che si prende cura di te, che funziona come base sicura per la tua vita. Quell’adulto, però, dentro ad una difficoltà non può farsi carico al 100% della sopravvivenza del bambino, della sua capacità di attraversare le difficoltà, ma, mentre lo tiene per mano, deve essere in grado di attivare le risorse che il bambino ha a disposizione. È così che ci si allena alla vita, quindi il progetto legato a questo libro è quello di permettere ai bambini di sperimentarsi nella relazione con l’adulto educatore, sia esso genitore od insegnante, mediante attività ed esperienze condivise con l’adulto da cui apprende, e comprende, che nel proprio mondo interno ci sono molte risorse che aiutano a fronteggiare le varie difficoltà.
Un’attenzione particolare viene rivolta ad educare i vari domini della nostra intelligenza, partendo dalla teoria delle intelligenze multiple di Gardner. Quanto è importante per un educatore avere chiara questa visione e saper lavorare correttamente in ogni dominio?
È molto importante. Quando Gardner ci ha presentato la sua teoria delle intelligenze multiple era davvero consapevole che avrebbe messo a disposizione uno strumento di grandissima importanza per tutti gli educatori. Fondamentalmente ci ha fornito un modello di una mente unica che però è composta da un puzzle di menti. Il nostro funzionamento mentale è il risultato di ciò che facciamo di tutte le nostre menti ed ognuna di queste menti va un po’ considerata come un giardino di cui l’educatore deve avere cura, che deve essere coltivato e nutrito. Per cui è bellissimo vedere come nel modello delle intelligenze multiple ci siano tutte quelle aree di lavoro su cui poi noi condividiamo esperienze di apprendimento con i bambini. Abbiamo la mente letteraria, logico-matematica, artistica, musicale, cinestesica-corporea, poi ci sono le due menti intrapersonale e interpersonale che sono quelle più legate all’intelligenza emotiva, che per i bambini rappresenta la capacità di saper acquisire un valido saper essere. Successivamente, rispetto a questo modello originale, Howard Gardner ha aggiunto anche la mente naturalistica e la mente spirituale. Ognuna di queste menti, come affermavo precedentemente, per noi educatori è come un giardino, che deve essere conosciuto, coltivato e nutrito, per poi essere in grado di trasformare le potenzialità insite in ogni bambino in reale competenza di vita. Dentro il libro abbiamo fatto attenzione affinché ognuna delle attività proposte e che vengono presentate ai bambini in questo percorso, che è un percorso di fronteggiamento delle difficoltà, fosse in grado di rivolgersi e attivare ciascuna di queste menti. Quindi seguire il percorso del libro vuol dire fare un percorso che stimoli ognuna delle molteplici menti dei bambini.
Ritornando sui destinatari di questo volume, i bambini dell’infanzia e dei primi anni della primaria, quanto è importante instaurare fin da piccoli una buona e corretta prassi educativa e quali benefici potremmo raccogliere in futuro.
È chiaro che il primo periodo della nostra vita è un tempo di straordinaria importanza, perché ciò che viene seminato in quel frangente viene poi raccolto nel resto della nostra vita. Fondamentalmente noi parliamo di età evolutiva proprio perché nei primi vent’anni della nostra vita noi dobbiamo evolvere e l’evoluzione avviene attraverso la costruzione di reti neuronali dentro al nostro cervello. Le neuroscienze ci danno proprio l’immagine di un cervello che viene scolpito con cesello e scalpello dall’esperienza educativa all’interno della quale i bambini vengono coinvolti. Offrire un buon progetto educativo a chi cresce, conoscendo il funzionamento della mente del bambino, significa mettere a sua disposizione, in un contesto relazionale supportivo, adeguato e affettivamente competente, quelle esperienze che vanno proprio ad attivare e ad integrare tra di loro reti neuronali che, una volta attivate e integrate nel cervello del bambino, restano con lui tutta la vita. Questo significa che quello che noi facciamo fare ai bambini, nel loro percorso di crescita, costruisce delle competenze interiori che poi rimangono con loro tutta la vita. Ma potremmo dire, per la legge del contrappasso, che anche tutto quello che non facciamo fare ai bambini non permetterà loro di acquisire quelle competenze che sono invece fondamentali per l’adultità. In fondo è questa la responsabilità dell’educatore, decidere quali sono le esperienze migliori da proporre ai bambini ed eventualmente tenere i bambini lontani da esperienze, verso le quali magari sono molto attratti, che però hanno pochissimo impatto sulla costruzione delle loro competenze per la vita. Penso che questo sia un po’ il dilemma che in questo momento insegnanti e genitori stanno affrontato con le nuove generazioni, perché vorremmo educarle ed allenarle alle competenze che sono necessarie per la vita reale, ma molta della loro vita si è spostata nella vita virtuale dove acquisiscono altre competenze che però non necessariamente saranno risorse per la loro vita adulta.
Soffermiamoci un attimo sull’aspetto dell’educatore e delle azioni da mettere in atto. Questo comporta che non si educa più basandosi sulla tradizione educativa, ma è necessaria una formazione per gli educatori in considerazione delle nuove problematicità, come ad esempio il mondo virtuale, che sono caratteristiche nuove della nostra società. Lei che ha pubblicato diversi libri di supporto per insegnanti e genitori, ci aiuta a descrivere brevemente un percorso utile per tutti per essere più competenti nella nostra azione educativa?
Direi che le cose che ci servono di più, o almeno quelle che più mi sono servite sia per fare il mio mestiere che per essere padre di quattro figli, sono fondamentalmente due: la prima è quella di farsi aiutare da tutto ciò che le neuroscienze hanno scoperto negli ultimi 20/30 anni rispetto al funzionamento ed allo sviluppo della mente in età evolutiva, informazioni che non esistevano nei decenni passati e che ora sono disponibili e di straordinaria importanza e credo che questo aspetto rappresenti una base perché fornisce delle competenze oggettive e non delle opinioni o delle tendenze educative; la seconda, che ritengo importante soprattutto in questo momento, è quello di generare un dialogo innanzitutto tra famiglie e poi tra famiglia e scuola, che è uno degli aspetti che più si è perso. Ci sono tante proposte interessanti in tal senso, penso al format delle scuole per genitori, di cui molte istituzioni scolastiche si sono fatte carico con eventi formativi per genitori, oppure piccoli gruppi di genitori che approfondiscono specifici temi e parlano della loro personale esperienza confrontandosi con i modelli educativi delle altre famiglie. Ritengo che questa sia la direzione più che mai necessaria per poter ricostruire quella rete tra adulti che poi permette di avere una visione di una mente adulta comune e che sa guardare all’infanzia, alla preadolescenza ed alla adolescenza con una condivisione di obiettivi e di visioni.
Una parola molto abusata in questo periodo è la parola “resilienza”. Ci spiega cosa vuol dire e come deve agire un educatore per far crescere questa pratica nei bambini?
La Resilienza è la capacità che ciascuno di noi ha per affrontare eventi avversi, difficoltà, ostacoli e imprevisti senza venirne spezzato o frantumato. Questo significa riuscire a trovare un modo per gestire qualcosa che pensavamo di non saper gestire e che potrebbe anche farci molto male, ma alla fine di questa esperienza scopriamo di essere rimasti integri, interi, anzi che abbiamo messo via, nel nostro kit degli attrezzi, nuove risorse e nuove competenze che non pensavamo di avere e che invece erano dentro di noi. Fondamentalmente l’immagine potrebbe essere quella di un albero spazzato dalla tempesta che ha due alternative: rompersi e cadere al suolo, oppure piegarsi e rendersi flessibile, restando radicato e ancorato al terreno per tutta la tempesta, cambiando forma per tornare, al termine della tempesta, più o meno alla forma originaria, ma chiaramente non essendo più quello di prima, perché avrà perso foglie, avrà perso rami, ma allo stesso tempo perché avrà affrontato una situazione imprevista comprendendo che ce l’ha fatta. La resilienza fondamentalmente è questa cosa qua, cioè entrare dentro la vita, mentre la vita cade, sapendo che ciò può accadere anche mediante eventi inaspettati e avversi, e mentre si è lì dentro cercare dentro di sé le risorse per farcela. Se sei un minore, un bambino, tutto questo non puoi farlo da solo, diventa fondamentale avere a disposizione relazioni educative di sostegno, di guida, che funzionano per lui come base sicura, cioè che mentre ti danno protezione e sicurezza, ti indicano però una via per poter affrontare ed uscire dal momento di difficoltà. Spesso il rischio più grande nella costruzione del percorso alla resilienza dei minori è che questo venga interrotto dal fatto che l’adulto diventi iperprotettivo e quindi fa tutto lui per proteggere il minore e a volte nasconde l’evento avverso affinché il minore non lo sappia, così non dovrà soffrire e non lo dovrà gestire. Crescere vuol dire, in realtà, affrontare rischi progressivamente sempre maggiori, chiaramente non rimanendone danneggiati in modo indelebile. Non esiste una crescita a rischio zero, l’adulto deve imparare, a sua volta, a tollerare anche l’ansia che gli deriva dal fatto che il proprio figlio navighi in acque non proprio tranquille.
Un’ultima domanda. A scuola ci si sofferma spesso sull’acquisizione delle conoscenze e poco sulla crescita della persona, con particolare attenzione all’intelligenza emotiva. Ci troviamo ad avere ragazzi sempre più fragili e in difficoltà ad affrontare le varie problematiche che si presentano nel corso della vita. Quella appena rappresentata è corretta come lettura?
Credo che oggi la sfida educativa sia molto grande, perché offriamo un’infinità di sapere e saper fare a chi sta crescendo, ma poi questo genere di competenze va a depositarsi in un soggetto che ancora non ha appreso il saper essere. È chiaro che il saper essere è, invece, il prerequisito per affrontare la vita. Se sai essere poi quello che sai e quello che fai ti permettono di arrivare alla realizzazione piena di te. Ma se tu sai e fai tante cose, ma non sai essere, ecco che questa situazione diventa una sorta di contraddizione di termini. Potresti essere uno che sa tutto ma che poi nella vita non riesce a trovare la chiave d’accesso, la realizzazione personale alla felicità. Il saper essere non lo si può imparare dai libri, lo si deve imparare nei contesti relazionali avendo a disposizione educatori, guide, allenatori che hanno proprio in mente che l’obiettivo nella relazione educativa che instaurano con il minore è formarlo, cioè aiutarlo a prendersi per mano e vedersi crescere. Una volta un ragazzo mi ha detto che la crescita deve essere trasformarsi da pensiero pensato a pensiero pensante. La trovo una frase bellissima perché corrisponde concretamente a quello che succede nel cervello di chi cresce. Mentre sei bambino sei molti più dentro al copione dell’obbedienza, poi crescendo si diventa piano piano adulti che porta a scoprire l’autonomia e quindi a dover obbedire soprattutto a sé stessi e non alle prescrizioni che ci forniscono gli altri. Ritengo che in questo momento questo tipo di pensiero serva molto anche nel modo della scuola, dobbiamo sostenere la crescita del saper essere dei nostri studenti perché nella vita reale questa è una dimensione fortemente diminuita e quindi torniamo al tema dell’iperconnessione e della virtualizzazione della vita dei nostri figli, molto aggravata dalla pandemia da Covid-19. È un aspetto problematico quello di restare chiusi nella propria camera, per molte ore al giorno, mentre la nostra vita, il fuori, ci arriva dentro la stanza esclusivamente tramite i pixel del nostro schermo. Molto probabilmente le competenze che metti in gioco non sono le competenze utili a costruire un saper essere funzionale a generare la vita adulta verso cui si va incontro.