La contro-valutazione preventiva
Emanuele Rainone – Nel 1781 viene pubblicata a Riga un’opera destinata a cambiare il corso del pensiero occidentale, la Critica della Ragion Pura, autore Immanuel Kant. Uno dei problemi fondamentali di questa famosa opera era quello di dare una giustificazione dei cosiddetti giudizi sintetici a priori. Il giudizio sintetico a priori per antonomasia – a detta di Kant – era il giudizio matematico: ‘5+7=12’. In altre parole e molto alla buona: l’intento era fondare la matematica come scienza indipendente dall’esperienza.
Emanuele Rainone – Nel 1781 viene pubblicata a Riga un’opera destinata a cambiare il corso del pensiero occidentale, la Critica della Ragion Pura, autore Immanuel Kant. Uno dei problemi fondamentali di questa famosa opera era quello di dare una giustificazione dei cosiddetti giudizi sintetici a priori. Il giudizio sintetico a priori per antonomasia – a detta di Kant – era il giudizio matematico: ‘5+7=12’. In altre parole e molto alla buona: l’intento era fondare la matematica come scienza indipendente dall’esperienza.
Poco più di un secolo dopo, agli inizi del Novecento, altri filosofi delusi dalla proposta kantiana, ci riprovarono – questa volta cercando di dimostrare che l’intera matematica era fondata niente meno che sulla logica – ma si incagliarono in un ginepraio di paradossi. Non risolsero il problema ma nacque una nuova disciplina destinata a rivoluzionare gli studi della logica e della matematica moderna: la Logica Matematica. Il problema era sempre lo stesso: vengono prima i numeri o l’esperienza? Il giudizio che 5 sommato a 7 darà sempre 12 è qualcosa di vero in ogni mondo possibile, in ogni situazione possibile? Può sembrare strano o un po’ tirato per i capelli, ma un problema analogo lo si ha con la valutazione in ambito scolastico e universitario, ovviamente là dove si utilizzano i numeri: tranne le primarie, ovunque.
I numeri sono una rete che imbriglia l’esperienza e per avvicinarci al senso della valutazione nel campo dei processi educativi potrebbe essere utile adottare uno sguardo estraniato. Mettiamola così: dopo le geometrie non-euclidee, dopo i numeri immaginari e l’aritmetica transfinita, esiste anche una matematica molto più umile ma speciale: l’aritmetica della valutazione scolastica. È un sistema assai originale, con un dominio numerico limitato, di diritto dall’1 al 10, di fatto, a seconda del docente e della situazione, la gamma dei numeri utilizzabili si può anche restringere, per esempio dal 3 al 9. Esistono poi delle alterazioni, molto più simili a dei cromatismi musicali che ad una vera e propria traduzione in termini decimali: 6 e mezzo, dal 6 al 7, 6 +, 6 – .
Sono possibili inoltre due sole operazioni fondamentali: la media e lo scrutinio. Anche se di fatto la prima implica due operazioni della matematica tradizionale, in realtà nell’aritmetica della valutazione scolastica essa viene pensata come operazione unica, perché la semplice somma dei voti, in questo sistema, non avrebbe alcun senso.
La seconda operazione è quella dello scrutinio, per la quale i numeri possono addirittura cambiare valore: un 5 può trasformarsi in un 6, un 8 in un 7 e così via. In questa operazione c’è anche un caso specifico in cui un singolo voto, quello di condotta, in determinate circostanze può annullare tutti gli altri.
Rispetto all’aritmetica che ci insegnano a scuola, questa sembra un sistema assai arbitrario. Ma non c’è affatto nulla di strano: così come nell’aritmetica transfinita se sommiamo due infiniti di stessa cardinalità otteniamo ancora lo stesso infinito, nell’aritmetica della valutazione scolastica un 5 può diventare un 6 e un 6 e mezzo può prestare il suo mezzo punto ad un 5 e mezzo per farlo diventare 6.
Sia Kant che i logicisti di inizio Novecento sarebbero stati in serio imbarazzo nel cercare di dedurre dai loro sistemi la coerenza e il rigore dell’aritmetica della valutazione scolastica. Perché una coerenza e un rigore ci sono. I numeri sono una rete che imbriglia l’esperienza: l’obiettivo della valutazione è non rimanere intrappolati nella rete. Sublime aritmetica quella della valutazione, che si muove sempre sul filo del paradosso in un continuo rimando tra numeri e vita scolastica, senza rinunciare ai primi ma mantenendosi sempre fedele alla seconda.
Ma perché proprio i numeri? Perché esprimere dei giudizi? Se avessimo un solo studente, avrebbe forse senso dare dei voti? Non credo: avremmo come unico obiettivo quello di insegnargli varie cose e trovare il modo giusto per fargliele capire. Tuttavia l’utopia pedagogica del piano educativo individualizzato per tutti, dall’Emilio di Rousseau ai software personalizzati con cui migliaia di studenti americani già oggi portano a compimento con buoni profitti i loro studi nel chiuso di una stanza, ha sempre un’ombra totalizzante, per non dire totalitaria. Dobbiamo valutare perché abbiamo a che fare con una classe, una molteplicità di studenti. E con le molteplicità i numeri vanno sempre a nozze.
L’aritmetica della valutazione scolastica, abbiamo visto, è un sistema elastico ma molto rigoroso e molto ben congegnato per non soffocare la vita scolastica o il cosiddetto processo educativo. Insomma, il suo scopo non è quello di ‘dare i numeri’.
Quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni invece, dalla riforma Berlinguer del sistema universitario (sistema 3+2 e crediti formativi) fino agli ultimi provvedimenti dell’era Gelmini (voto in condotta, sufficienza in tutte le materie per ammissione agli esami di maturità, proposta di premiare in denaro le scuole con i migliori test Invalsi e altre amenità), è invece un tentativo di alterare profondamente la sottile alchimia di quel sistema di valutazione che abbiamo cercato di descrivere. Ossia, fissare una griglia rigida alla quale l’esperienza scolastica e universitaria si deve adattare.
L’esempio più grottesco ed emblematico è proprio il sistema dei crediti nelle università post-Berlinguer: viene fissato per regolamento il numero di pagine da studiare per ogni esame, non in base alla materia o al programma, ma al numero di crediti; il voto è espressione numerica dell’esame, ma il credito è sempre lo stesso e determinato a priori in modo da plasmare la programmazione.
Secondo questa logica, a voler essere rigorosi, se proprio non interessa cosa e come si studia, bisognerebbe almeno accertarsi del carattere o delle dimensioni delle pagine. Discorso analogo per i provvedimenti Gelmini per le scuole superiori in cui le griglie numeriche, dal voto di condotta alla necessità di tutte le sufficienze per l’ammissione agli esami di maturità, sono finalizzate a rendere impossibile o alterare profondamente una valutazione che tenga conto dell’intero percorso educativo del singolo studente. Un sovvertimento del rapporto tra numeri ed esperienza nel sublime calcolo dell’aritmetica della valutazione scolastica: una vera e propria contro-valutazione preventiva. Preventiva, perché affetta da un apriorismo di fondo in cui i numeri al posto di essere strumenti descrittivi e flessibili diventano normativi; ‘contro’ perché è il contrario della logica della valutazione come momento interno al processo educativo.
È interessante notare come questa contro-valutazione preventiva – altrimenti detta ‘ossessione da numeri con gravi scompensi da disturbi statistici’ – oltre ad alterare la vita scolastica, condiziona profondamente il dibattito pubblico sulle possibili vie per una riforma della scuola. Per anni ci hanno raccontato che la scuola e l’università pubblica italiane sono arretrate, fanalino di coda in Europa e nel mondo, quindi da riformare. Personalmente, da studente delle superiori, poi universitario e quindi da insegnante, mi sono sempre stupito di questi giudizi così categorici.
Solo pochi anni fa, quando nelle università italiane pre-Berlinguer, le pagine da studiare venivano stabilite in base alle materie e non ai crediti, gli studenti italiani che andavano a studiare all’estero con il progetto Erasmus, riuscivano a dare in media, in un anno, il doppio degli esami che normalmente davano in Italia. Con il sistema 3+2 e i crediti abbiamo portato le università italiane ai livelli europei e in pochi anni abbiamo aumentato di gran lunga rispetto al passato il numero dei laureati. Era evidentemente solo un problema di numeri (ma il Cepu farebbe questo mestiere meglio di qualsiasi altra università italiana). Quanto alla scuola pubblica, abbiamo da poco scoperto che forse quel giudizio così negativo sulla scuola italiana era da leggersi in modo un po’ più articolato, prendendo in considerazione anche gli standard delle scuole paritarie che abbassano di molto il ‘punteggio in classifica’. Gli stessi test Invalsi sono un altro esempio di contro-valutazione preventiva: al posto di essere pensati come possibile strumento di valutazione da utilizzare a discrezione del docente (libero anche, in piena autonomia, di non avvalersi di questo sussidio didattico), stanno assumendo un aspetto quasi militaresco e coercitivo. Insomma, come al solito siamo al grottesco.
Il problema di stilare delle classifiche internazionali sulla qualità dei sistemi scolastici, non sta tanto nell’uso delle statistiche in quanto tali, o nell’evidente paradosso che la qualità debba esprimersi in termini quantitativi – fin qui stiamo ancora in superficie – quanto in un acceccante pregiudizio di fondo secondo il quale qualcosa come ‘una classifica internazionale’ debba esistere di per sé e nostro compito è trovare un criterio per riempire delle caselle. Siamo talmente abituati a pensare in termini statistici che questa critica risulta alquanto difficile da digerire, quasi fosse un rigurgito tardoromantico o una nostalgia di qualche anima bella ferma a posizioni critiche anacronistiche.
Della valutazione in termini statistici come Il Fatto da cui partire per poter intavolare un qualsiasi discorso sulla scuola, si potrebbe dire ciò che tanti anni fa Hannah Arendt diceva delle moderne teorie del comportamento: il problema non è che siano sbagliate, ma che potrebbero diventare vere. Se riusciamo anche per un solo momento a dubitare di questo Fatto sarebbe, a mio parere, un gran progresso e una liberazione. Mi rendo conto che sia difficile, perché ci mancherebbe la terra sotto i piedi; proviamo ad esprimere la stessa cosa in altri termini, con una metafora: è come se un Ministro della Pubblica Istruzione che non abbia nessuna esperienza in campo pedagogico e non abbia mai messo piede in una scuola o università pubblica, si metta in testa di realizzare una ‘riforma epocale’ dell’ istruzione stando chiusa tutto il tempo in ufficio e, per farsi un’idea della realtà da riformare, non faccia altro che consultare schemi, numeri e statistiche. Penso che la prima cosa che gli/le possa venire in mente sia quella di licenziare un po’ di personale per far salire le quotazioni in borsa dell’azienda Istruzione.
Appunto: il problema non è che quel punto di vista sia sbagliato, ma che può diventare vero.
Infine. La passione per i numeri non ha risparmiato neppure il fiore all’occhiello del nostro sistema scolastico: la scuola primaria, da anni zona franca da qualsiasi ingerenza numerica. Il Ministro Gelmini prima ha tentato di tornare ai numeri poi, non contenta della presenza di un corpo così refrattario al delirio quantitativo ha pensato bene di entrare a gamba tesa e distruggere un modello di qualità invidiato in tutto il mondo: bisogna ‘dare i numeri’.