Jona Londo, di origini albanese oggi insegna lingue in Italia: “Voglio essere una figura di riferimento per studenti immigrati o che vivono in contesti svantaggiati”. Vi spiego cosa faccio

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“Nell’insegnamento dell’inglese – racconta Jona – ho puntato sull’insegnare loro bene la lingua ma anche sul farli sentire a proprio agio con la classe e con gli insegnanti. Ho insegnato loro ad avere fiducia in sé e questo nell’insegnamento della lingua è cruciale: i ragazzi dicevano non sono capace di parlare in inglese e quindi non lo parlo. Io cercavo di valorizzare ogni piccolo tentativo, anche se su dieci parole nove erano sbagliate io mi focalizzavo sulla parola giusta per far capire che riuscivano anche loro bene, così pian piano sono cresciuti in loro la fiducia e l’amore per questa materia. Mi hanno detto: questo è il primo anno in cui capisco l’inglese. Abbiamo lavorato anche sulla riflessione su di sé, sul porsi degli obiettivi, nell’arco dell’anno ogni studente era spronato a proporsi degli obiettivi diversi. Magari per qualcuno l’obiettivo era quello di alzare la mano perché si sentiva incapace di rispondere a una domanda o di formularla, per altri era parlare inglese davanti alla classe”.

La professoressa Jona Londo pensa ai tanti alunni delle scuole italiane che partono da contesti di svantaggio sociale, contesti che le ricordano i problemi con i quali aveva dovuto fare i conti lei quando arrivò dall’Albania, con la seconda ondata migratoria

“Io voglio essere una figura di riferimento per ragazzi che arrivano dallo stesso contesto da cui arrivavo io o da contesti svantaggiati e far capire loro l’importanza della scuola nel dare a queste persone gli strumenti per scoprire le loro passioni, per costruirsi il percorso scolastico che desiderano”, aggiunge Jona, intanto diventata Programme Manager presso Teach For Italy, l’organizzazione no profit che combatte da anni le diseguaglianze educative presente nelle nostre scuole . “Questa consapevolezza l’ho maturata mentre ero a Cambridge. Quando l’ho capito mi sono iscritta a una magistrale in didattica delle lingue e durante la magistrale ho svolto quante più esperienze possibile per conoscere tanti contesti educativi diversi e varie tecniche e metodologie didattiche. Ho svolto un tirocinio in un istituto professionale statale sempre in Veneto in cui i ragazzi erano demotivati verso lo studio perché le scuole li avevano convinti che non erano capaci. Molto spesso questi studenti arrivavano da contesti familiari di svantaggio. Non avevano potuto usufruire delle opportunità che hanno altri, la scuola in quei contesti familiari e sociali non era mai messa al primo posto. Ho compreso quanto il contesto familiare influisca sul percorso di un ragazzo o di una ragazza e ho capito l’importanza di lavorare sulla motivazione degli studenti e sulla fiducia in sé e sulla propria capacità”.

In Italia “il contesto in cui nasci e cresci decide il successo scolastico e professionale. Noi invece vorremmo fare qualcosa per garantire a tutti le stesse opportunità a prescindere dal contesto di partenza”. Così ci aveva detto Amir Mohamed nella precedente intervista dedicata all’organizzazione no profit “Teach for Italy”.

“Fino a quel momento – ci aveva spiegato la professoressa Maya Coianiz – non avevo ricevuto alcuna formazione come docente e questo è un problema. Un problema che non è solo mio. Il problema dei supplenti è che ci si sente soli. Teach for Italy mi ha aiutata ad avere un network su cui poter contare. Mi sento più sicura come docente di fare le cose giuste”. La professoressa Maya insegna da alcuni anni. Ha scelto di insegnare in contesti svantaggiati, come gli istituti professionali e in carcere, ma non solo. Qui il metodo tradizionale di insegnamento basato sulla classica lezione frontale si rivela spesso fallimentare, l’attenzione degli alunni, più portati per il lavoro che non per lo studio, svanisce dopo dieci minuti. A un certo punto della propria vita professionale la docente ha deciso di avvicinarsi all’Organizzazione no profit Teach for Italy, di cui ci siamo occupati nei giorni scorsi con un’intervista, e che le ha offerto una nuova e più efficace visione dell’insegnamento nei contesti difficili. “E’ ovvio – spiega oggi Maya – che gli studenti al liceo studino tutto quel che gli proponi, hanno più passione e maggior predisposizione per lo studio”. Al professionale le cose cambiano.

Troppo spesso, aggiunge l’organizzazione di cui fanno parte Amir e Maya, “il quartiere, la famiglia e le circostanze socio-economiche da cui provieni determinano il tuo livello d’istruzione e le tue future opportunità di vita. Purtroppo, anche in Italia questa è una realtà per un numero sempre maggiore di giovani”. Teach For Italy fa parte a propria volta dell’organizzazione internazionale Teach for all, che lavora per contrastare le disuguaglianze educative e rafforzare la scuola pubblica nei contesti più difficili, portando giovani talenti e nuove energie nelle scuole più svantaggiate. Nel lungo periodo, spiegano gli organizzatori, opera per costruire un movimento dedicato al contrasto delle crescenti disuguaglianze educative in Italia: “Contribuisce a costruire un Paese in cui il luogo in cui vivi non sia il solo parametro che determina il tuo livello di istruzione e le tue opportunità future”.

Secondo i dati elaborati rispettivamente da World Economic Forum 2020, INVALSI 2023 ed EUROSTAT, 2021, e rilanciati da Teach for Italy, in Italia solo il 6 per cento dei bambini i cui genitori non hanno terminato le scuole superiori otterrà la laurea. Il 65 per cento resterà allo stesso livello di istruzione. Un giovane ogni 8 non finisce le scuole superiori, una quota tra le più alte in Europa. La quota di giovani che non finisce le scuole superiori in Italia è tra le più alte in Europa (12,5 per cento). Nelle regioni del Sud la media si alza al 17 per cento, con un picco del 21,1 per cento in Sicilia. Degli studenti che hanno affrontato la maturità nel 2023, 34.850 sono usciti dal nostro sistema formativo senza aver raggiunto il livello minimo di competenze in italiano, matematica e inglese. I tassi più elevati sono in Campania e Sardegna, sopra il 15 per cento, seguiti da Sicilia, Calabria e Basilicata. A questi dati si aggiungono 3 milioni di NEET (Not [engaged] in Education, Employment or Training), ovvero il 23 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni. La quota è 10 punti percentuali superiore a quella europea (13,1 per cento). La media si alza nel Sud e nelle Isole, con percentuali di NEET che toccano punte del 40 per cento in alcune regioni.

“Crescenti disuguaglianze socio-economiche, caos amministrativo, e mancanza di una visione per il futuro – prosegue l’analisi di Teach for Italy – fanno sì che la scuola pubblica non riesca più ad essere un efficace ascensore sociale, specialmente nelle comunità più svantaggiate del Paese.

Emorragia di talenti: la scuola italiana soffre uno dei livelli più alti di abbandono scolastico in Europa, con un giovane ogni cinque che non finisce le scuole superiori. La bassa crescita economica e l’alta disoccupazione fa sì che l’Italia abbia anche uno dei tassi più alti di giovani che una volta lasciata la scuola non studiano, non lavorano e non si formano (NEET). Questo enorme spreco di talenti ed energie che dovrebbero contribuire alla crescita economica e culturale del nostro Paese, rafforza un ciclo di marginalità sociale e povertà che la scuola stessa dovrebbe contrastare.

Povertà educativa: in Italia un quindicenne su cinque non raggiunge le competenze minime in matematica, uno su quattro non le raggiunge in italiano. I ragazzi che vivono in contesti di disagio e povertà hanno 5 volte di più il rischio di non raggiungere queste competenze”.

Gli Alumni di Teach for Italy lavorano molto con gli istituti professionali e con i Cfp, i centri di formazione professionale, che sono considerati l’ultima rete prima dell’abbandono scolastico. I ragazzi e le ragazze non ce l’hanno fatta nelle scuole tecnico professionali e vanno nei centri di formazione professionale. L’utenza qui è particolarmente svantaggiata, ma non necessariamente meno dotata rispetto a quella dei licei. Sono semplicemente studenti che provengono da contesti socio culturali marginalizzati che li portano all’insuccesso scolastico. I centri di formazione professionale lavorano benissimo ed è un peccato che vengano considerati come l’ultima spiaggia.

Come funziona nella pratica? La fellowship di Teach For Italy prevede un impegno di due anni a tempo pieno come insegnante di scuola primaria o secondaria preceduto da un corso di formazione intensivo prima dell’ingresso in classe. Il programma include un percorso di formazione e supporto personale e professionale volto a sviluppare le capacità di impatto in classe, a scuola e nel sistema educativo italiano. Al termine dei due anni di programma, i Fellow entrano nella Comunità di Alumni Teach For Italy. “La nostra visione per gli Alumni – spiegano i responsabili – li vede come futuri leader collettivi e facilitatori del cambiamento in tutti gli ambiti di impatto maggiormente strategici dell’ecosistema educativo italiano. L’obiettivo è che rimangano connessi tra di loro, con il territorio e con la missione di Teach For Italy e che possano formare reti con i vari attori necessari per facilitare iniziative intersettoriali orientate al cambiamento della scuola. In qualsiasi settore i nostri Alumni scelgano di operare, come insegnanti, dirigenti scolastici, rappresentanti istituzionali, policy makers, imprenditori, innovatori sociali o ricercatori, noi crediamo che possano contribuire a praticare, studiare e promuovere approcci in ambito educativo inclusivi e a favorire scelte politiche incentrate sull’equità educativa”. Gli Alumni di Teach for Italy operano anche nelle sezioni scolastiche istituite nelle carceri, come nel caso di Maya.

Jona Londo ha 28 anni, è nata in Albania ma è cresciuta in Italia, a San Donà di Piave, in provincia di Venezia e poi a Torino. Il suo interesse per l’impatto sociale scaturisce dal suo background migratorio, dall’esempio coraggioso dei suoi genitori, e dallo scoutismo. Si è laureata in Lingue e poi in Didattica delle Lingue all’Università Ca’ Foscari, frequentando il relativo Collegio Internazionale. Ha studiato presso l’Università di Cambridge, svolgendo tirocini e lavori in diversi contesti educativi tra la periferia di Venezia, la multiculturale Bruxelles e una scuola in India fondata sui principi della mindfulness. Neolaureata, ha trovato nel programma di Teach for Italy l’occasione di tramutarsi in impegno concreto come Fellow nel biennio 2020-2022. Durante la Fellowship ha insegnato nella periferia di Torino presso un Centro di formazione rofessionale. Ha collaborato come Junior Project Manager con la Fondazione Agnelli al progetto FUtuRI per costruire un percorso di orientamento in grado di contrastare la dispersione scolastica. Ora è Programme Manager presso Teach For Italy. Superato il concorso per diventare insegnante di ruolo, intraprenderà probabilmente il percorso per diventare dirigente scolastica.

Lei è nata in Albania, a Valona. Come è iniziata la sua storia?

“E’ stata la mia esperienza personale a motivarmi sui temi della giustizia sociale e della riduzione delle diseguaglianze educative. Tutto nasce dalla mia esperienza personale. Entrambi i miei genitori hanno avuto modo di studiare. Mio padre, ingegnere civile, era occupato nell’esercito a Valona. Mia mamma è laureata in economia. Nel 1998, con il secondo esodo del popolo albanese verso l’Italia e dopo gli scontri civili ci siamo spostati in Italia, io e loro due, e mio fratello. Un altro fratello è nato successivamente, in Italia. Anche se quella di venire in Italia è stata una scelta, in realtà sono stati costretti a lasciare la nostra terra poiché hanno riconosciuto che in Albania non ci sarebbe stato un futuro per noi figli e ci hanno portati in Italia a me e mio fratello, per costruire qualcosa di stabile per tutti noi. Un terzo fratello è poi nato in Italia. Il titolo di studio che avevano mamma e papà non era però riconosciuto per cui hanno potuto svolgere qui in Italia il lavoro che hanno trovato. Hanno messo in primo piano la volontà di garantire a noi il desiderio di emanciparci tramite lo studio. Ci hanno detto chiaramente che la scuola sarebbe stata l’unica possibilità che avevamo nelle nostre mani per costruirci il futuro che desideravamo. E io ho sempre preso seriamente questo aspetto. Fin da quando ero bambina sentivo la grande volontà di impegnarmi nello studio. Sapevo che tramite il supporto dei miei genitori e solo tramite la scuola avrei potuto realizzare quello che volevo”.

Lei si occupa tra l’altro dell’impatto che il background migratorio ha sulle opportunità e sulle diseguaglianze formative. Com’è stata la sua accoglienza a scuola quando siete arrivati dall’Albania?

“Io sono stata sempre la classica studentessa modello. Mi permetto di dire che ho sempre percepito, nelle persone intorno a me, il fatto che io avrei sempre dovuto mostrarmi al meglio per essere accettata da loro. E questo anche per il razzismo che avvertivo”

Era un razzismo esplicito oppure lo avvertiva lei?

“Era un implicito che avvertivo, c’era un pregiudizio che portava le persone ad avere un giudizio negativo nei miei confronti. Ma mi è stato anche detto esplicitamente…”

Anche dagli insegnanti, pare di capire… E’ così?

“Nei primi due anni della primaria andavo bene a scuola. In terza ho cambiato scuola. Quando abbiamo incontrato le maestre della terza primaria le maestre hanno detto a mia madre: questi voti se li può scordare perché i voti sono non veritieri”.

Lei era presente al colloquio, ha sentito anche lei queste parole?

“Ero presente”.

Che cosa ha pensato ascoltando quelle parole?

“In quel momento sei bambina e ci credi. Credi a quello che gli adulti ti dicono, e crescendo il messaggio che avevo introiettato era: io sono albanese e quindi valgo di meno rispetto agli altri, dunque devo farmi vedere sempre perfetta e al meglio per compensare questa visione negativa che io avevo. Mi sentivo da meno rispetto agli altri. Da bambino credi a quello che ti viene detto. Più volte in classe l’insegnante, indicando me, diceva ad alcuni compagni: lei è albanese ma vedete come è brava? Come se essere albanesi fosse un deficit. Quello è sempre stato un divario da colmare. Anche alle medie. Alle medie ero la classica ragazzina sempre brava, ma dal punto di vista dei miei insegnanti c’era costantemente questa visione: è albanese però è brava”.

Insomma, nonostante fosse albanese lei era brava a scuola…

“Sì, è così”. (Ride)

Lei aveva un’educazione umanistica, perché ha poi scelto il liceo scientifico?

“Perché pensavo di fare l’architetto. Come succede a scuola nell’orientamento, a me era stato detto va bene a scuola e quindi vai al liceo. Io avevo un’educazione umanistica e dunque ho faticato emotivamente, ho vissuto male perché le materie non mi appassionavano, e perché nel liceo che ho frequentato c’era uno spirito molto competitivo e performativo con grande orientamento al risultato e ai voti alti e uno sguardo assente allo sviluppo della persona. Quelli sono gli anni in cui ho iniziato a voler diventare un’insegnante. Io sono stata male a scuola e come me tanti altri ragazzi. Meritiamo tutti di avere degli adulti che ci insegnino le materie ma che ci permettano di svilupparci negli adulti che vogliamo essere. Io in questo ho avuto un’esperienza molto positiva nello scautismo. Lì ho percepito molto il senso di comunità non competitiva e di dedizione verso gli altri con adulti che tenevano al nostro sviluppo umano. Il mio percorso alle superiori non è stato felice ma orientato a fare il meglio possibile”.

Quale materia amato di più?

“L’inglese. Ho scelto di studiare linguistica proprio perché avevo in mente di insegnare a scuola. Mi sono iscritta a Ca’ Foscari, a Venezia e anche al Collegio di merito, un’istituzione universitaria dove selezionano gli studenti con i migliori risultati accademici. A questi studenti propongono un percorso formativo ulteriore per sviluppare ulteriormente le proprie competenze dal punto di vista accademico. C’è una selezione rigida, ma poi il percorso è gratuito: si vince una borsa di studio che copre le spese universitarie e l’alloggio. Al collegio, dove si vive tutti assieme, ero circondata da persone estremamente motivate e con delle esperienze di vita pazzesche, con tante esperienze e occasioni di conoscenza del mondo che io non ho avuto. Mi sono sentita con meno esperienza e meno cittadina del mondo e solo a posteriori ho letto questo aspetto. La maggior parte degli studenti proveniva da contesti familiari e sociali caratterizzati da un benessere socio culturale e quindi con molte possibilità stimolanti. Io non ho mai avuto tutto questo, dal punto di vista economico non avevo avuto queste possibilità”.

E queste difficoltà avrebbero inciso nel futuro che aveva in mente…

“Rileggendo a posteriori questa esperienza, nei modi in cui ho approfondito gli studi, io penso che quando parliamo di ricchezza c’è certo quella economica, quella sociale e quella culturale, e da questo punto di vista i miei genitori avevano una grande ricchezza culturale alle spalle, però non avevano la possibilità di garantirmi il corso di violino né quello di spagnolo o le vacanze studio all’estero. Così durante il collegio mi sono resa conto di come l’eccellenza accademica, nella gran maggioranza dei casi, va di pari passo con una crescita in un ambiente socio economico stimolante: sicuramente la volontà e la motivazione del singolo fanno tanto ma l’aspetto determinante è il contesto in cui una persona cresce. Durante questa esperienza io ero molto motivata a dare del mio meglio ma sentivo una forte pressione a dovere dimostrare sempre tanto e talvolta è mancato lo sguardo allo sviluppo della persona. Avevo molta ansia poiché a borsa veniva riconfermata di anno in anno e io dovevo vincerla per forza altrimenti non avrei potuto continuare. Non era per un vanto, quella borsa era l’unica possibilità che avevo per poter continuare e sentivo che questa ansia di dover sempre rendere al meglio non era riconosciuta dalle persone che gestivano il collegio. E’ come se tutto fosse dovuto sempre, vedevo sempre il focus sul risultato ma meno sul processo di apprendimento. C’erano tanti studenti che erano eccellenti sul piano accademico ma dal punto di vista personale pativano questa eccellenza perché si identificavano con essa: è come se, prendendo un voto in meno, anche la persona fosse da meno”.

Quest’ansia era percepita anche in precedenza, al liceo?

“Sì, anche lì. Anche al liceo il voto equivale alla persona”.

Quando ha capito che la sua vita stava per cambiare?

“Il punto di svolta arriva al terzo anno di università. Ero in Erasmus a Cambridge per un anno. E’ qui ho capito di volermi dedicare al tema delle diseguaglianze educative”.

Perché?

“L’università di Cambridge è di grande rigore accademico e di grande eccellenza ed era palese come quell’eccellenza fosse figlia di un contesto socio-economico favorevole: gli studenti che frequentavano l’università di Cambridge provenivano da un contesto di questo tipo e pativano anche l’ansia di dover performare al massimo. A Cambridge ho sentito parlare per la prima volta della cura della salute mentale. Allo stesso tempo riflettevo su quante persone non potessero nemmeno poter accedere a una università di questo tipo perché avevano le gambe tagliate dal punto di vista economico sociale, insomma dal contesto di provenienza. Nel Regno Unito se si frequentano certe scuole primarie c’è una divisione in classi anche se non si continuerà sull’eccellenza. Vedevo studenti i cui genitori e nonni avevano studiato a Cambridge e allo stesso tempo pensavo a quante persone nello stesso tempo non avrebbero potuto mai accedere a questo tipo di contesto universitario. Riflettendo oggi su questa esperienza di studentessa fino a quel punto, ho capito che quel che ha fatto la differenza è stato sì il mio impegno individuale ma soprattutto il fatto di avere due persone alle spalle, i miei genitori, che capivano l’importanza della scuola e mi hanno sempre spronata a dare il meglio nell’ambito scolastico”.

Da qui la decisione di insegnare?

“Io voglio essere una figura di riferimento per ragazzi che arrivano dallo stesso contesto da cui arrivavo io o da contesti svantaggiati e far capire loro l’importanza della scuola nel dare a queste persone gli strumenti per scoprire le loro passioni, per costruirsi il percorso scolastico che desiderano. Questa consapevolezza l’ho maturata mentre ero a Cambridge. Quando l’ho capito mi sono iscritta a una magistrale in didattica delle lingue e durante la magistrale ho svolto quante più esperienze possibile per conoscere tanti contesti educativi diversi e varie tecniche e metodologie didattiche. Ho svolto un tirocinio in un istituto professionale statale sempre in Veneto in cui i ragazzi erano demotivati verso lo studio perché le scuole li avevano convinti che non erano capaci. Molto spesso questi studenti arrivavano da contesti familiari di svantaggio. Non avevano potuto usufruire delle opportunità che hanno altri, la scuola in quei contesti familiari e sociali non era mai messa al primo posto. Ho compreso quanto il contesto familiare influisca sul percorso di un ragazzo o di una ragazza e ho capito l’importanza di lavorare sulla motivazione degli studenti e sulla fiducia in sé e sulla propria capacità. Ho svolto un tirocinio in India di cui mi interessava molto il paradigma educativo perché era una scuola – la Alice Project – che metteva sullo stesso piano l’apprendimento didattico e lo sviluppo delle persone in cittadini responsabili, in persone che pensano alla propria responsabilità verso sé stessi, gli altri e verso il mondo”.

Quando ha compreso che avrebbe voluto insegnare in contesti caratterizzati da svantaggio e diseguaglianza sociale?

“Mentre studiavo a Bruxelles, insegnavo a bambini l’inglese e lì ho visto quanto fosse e quanto sia importante creare opportunità culturali a bambini già dalla tenera età. Lì ho visto che queste opportunità erano appannaggio di classi sociali elevate. Sapevo di voler diventare insegnante non solo per insegnare la materia ma soprattutto per poter supportare gli studenti nella loro crescita umana. Così, nel corso di alcune esperienze svolte durante la magistrale, ho capito che volevo lavorare in contesti di maggiore marginalità sociale. In questo frangente ho conosciuto Teach for Italy e la loro missione e ho capito che era quello che volevo fare. Quindi mi sono candidata per questo programma. Eravamo in quindici, allora. Mi sono trasferita a Torino dove ho svolto la mia fellowship per due anni in un centro di formazione professionale”.

Che rappresentano spesso l’ultima spiaggia per molti studenti a rischio dispersione dopo l’abbandono scolastico. Con quale animo, con quale psicologia questi ragazzi arrivano nei centri di formazione professionale?

“Vi giungono sentendosi completamente demotivati verso la scuola, convinti che la scuola non faccia per loro. Alcuni di loro sono interessati al lavoro che vanno a imparare, però la maggior parte è interessata a concludere gli studi. In questi centri c’è una duplice missione: quella di consentire loro di assolvere l’obbligo scolastico e quella di fornire loro una formazione. Questi due obiettivi spesso cozzano perché se uno studente non è motivato e non studia e inoltre non è appassionato al lavoro che sta imparando, ma lo si ferma e lo si boccia, questo studente diventerà un NEET. E’ un dramma. Ho capito che i centri di formazione professionale sono dei contesti molto accoglienti, puntano molto allo sviluppo umano di questi ragazzi molti dei quali dopo il fallimento connesso a un abbandono scolastico riacquisiscono la fiducia in sé grazie ai formatori. Formatori che spesso vengono pagati meno rispetto alla qualità del lavoro che svolgono”.

Quanto incide in tutto questo il contesto migratorio?

“Molte persone con background migratorio, specie quando arrivano in Italia a percorso scolastico avviato, fanno fatica a recuperare lingua e apprendimenti. Spesso non sono supportate in modo sufficiente per mettersi in pari con i propri compagni e questo fa sì che restino indietro e che prendano in considerazione la via della formazione professionale per concludere il proprio percorso”.

Quanto la sua formazione acquisita secondo la filosofia di Teach for Italy ha fatto la differenza sul successo di questi ragazzi o sul miglioramento della loro situazione personale e scolastica?

“Sui ragazzi molto. Nell’insegnamento dell’inglese ho puntato sull’insegnare loro bene la lingua ma anche sul farli sentire a proprio agio con la classe e con gli insegnanti. Ho insegnato loro ad avere fiducia in sé e questo nell’insegnamento della lingua è cruciale: i ragazzi dicevano non sono capace di parlare in inglese e quindi non lo parlo. Io cercavo di valorizzare ogni piccolo tentativo, anche se su dieci parole nove erano sbagliate io mi focalizzavo sulla parola giusta per far capire che riuscivano anche loro bene, così pian piano sono cresciuti in loro la fiducia e l’amore per questa materia. Mi hanno detto: questo è il primo anno in cui capisco l’inglese. Abbiamo lavorato anche sulla riflessione su di sé, sul porsi degli obiettivi, nell’arco dell’anno ogni studente era spronato a proporsi degli obiettivi diversi. Magari per qualcuno l’obiettivo era quello di alzare la mano perché si sentiva incapace di rispondere a una domanda o di formularla, per altri era parlare inglese davanti alla classe”.

Quanto è importante per il successo scolastico tutta questa impostazione, secondo lei?

“E’ cruciale. E’ l’aspetto importante perché crea la capacità di imparare a imparare, che non si ferma quando finisce la scuola ma continua per tutto l’arco della vita. A scuola si dice spesso che la scuola è la vita, non si può scindere la scuola dalla vita”.

E tutto questo alla scuola italiana sfugge?

“Sfugge. Sfugge perché vengono messi in primo piano gli aspetti accademici e didattici, diventa più importante il voto invece che l’impegno, le emozioni e la consapevolezza che ci sono dietro quello studio. In Teach for Italy noi puntiamo sullo sviluppo dello studente su cinque aree: una è la padronanza didattica, cioè la capacità di imparare in maniera efficace le materie scolastiche, però è solo una. Poi c’è il benessere: i ragazzi devono stare bene e, ancora più importante, devono sapere come stare bene, perché i momenti difficili della vita arrivano e anche la scuola deve insegnare come affrontarli, puntiamo sullo spirito di iniziativa degli studenti, sul senso di appartenenza con il contesto per non sentirsi soli ma per sentirsi parte di qualcosa di più grande e infine puntiamo sulla consapevolezza di sé e delle dinamiche intorno a sé. I ragazzi che vengono da contesti di marginalità sociale sentono il peso della propria esperienza sulle spalle. Si sentono come unici responsabili della situazione di svantaggio che vivono, quando invece quella situazione di svantaggio è frutto di problemi sistemici”.

Nei suoi progetti di vita c’è anche un futuro da dirigente scolastica… E’ così?

“Sì. Il dirigente scolastico da quel che ho capito da Teach for Italy svolge un ruolo cruciale da due punti di vista. Il primo è che un dirigente può coordinare il lavoro di tutti i docenti affinché vadano nella stessa direzione. Un singolo docente, per quanto possa essere illuminato, se è l’unico a svolgere una didattica trasformativa mentre gli altri non vanno nella stessa direzione, potrà cambiare la vita dei propri studenti fino a un certo punto. Le cose cambiano invece se gli insegnanti sono inseriti in un contesto scolastico in una visione collettiva su come si supportano gli studenti. Per questo mi piace dire che il ruolo del dirigente scolastico è come quello di un direttore d’orchestra. Questo ruolo è sempre più complesso a causa di mansioni sempre più burocratiche e che mettono in secondo piano la sua funzione pedagogica. Secondo me il dirigente scolastico dev’essere un ponte tra la scuola e il territorio, fatto di comunità, di imprese, di associazioni e questo aspetto è importante per le scuole che si trovano in contesti di marginalità perché garantiscono agli studenti quelle opportunità culturali e quelle possibilità sociali, anche lavorative, a cui non avrebbero normalmente accesso e che invece possono cambiare la vita delle persone. Un Dirigente scolastico può dare tante opportunità. Tanti di loro aderiscono alle nostre iniziative ed è anche a loro che possiamo portare la nostra formazione”.

Torniamo ai docenti, di ruolo e non di ruolo e non di ruolo. Consiglia loro di prendere in considerazione la formazione presso la vostra Teach for Italy, che, ricordiamo, è gratuita?

“Lo consiglio ai docenti che credono che tramite la scuola si possa dare a tutti gli studenti accesso alle stesse possibilità. Teachfor Italy non è solo un programma di formazione di insegnanti, è una rete di persone che mettono insieme le loro forze per supportare la scuola affinché dia a tutti gli studenti le stesse opportunità”

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