Invalsi, Gissi (CISL): banalizzando, risultati migliori dove ci sono più supplenti. Ma occorre seria riflessione
comunicato Cisl – Il quadro che l’Invalsi anche quest’anno ci consegna è molto chiaro: una situazione di gravi insufficienze e fortissimi squilibri, una spaccatura del Paese in un contesto generale non esaltante per quanto riguarda i risultati scolastici.
Una situazione preoccupante, di fronte alla quale porsi con atteggiamenti di onestà intellettuale, affrontandola nella sua complessità, evitando giudizi sommari e interrogandosi, tutti e ciascuno, sulla parte di responsabilità di cui farsi carico in una situazione come questa. La scuola non è un sistema avulso dal contesto in cui opera, né può bastare da sola a fronteggiare efficacemente emergenze educative e formative che investono in generale la nostra società.
E se certamente occorre preoccuparsi di non peggiorare, in prospettiva, i mali che vengono evidenziati, con scelte di regionalizzazione che potrebbero acuire le differenze fra aree territoriali anziché attutirle, resta l’immediata urgenza di capire come si possa intervenire in modo più incisivo per affrontare e risolvere le criticità evidenziate dall’Invalsi, criticità che sono dell’oggi, e non del domani.
Lo stato di salute non può essere migliorato evitando o ignorando le analisi, ma individuando il più prontamente possibile interventi e percorsi necessari a risolvere le patologie. Compito che spetta anzitutto a ogni scuola, da qui l’utilità di ogni dato che aiuti ad avere della propria situazione un quadro quanto più possibile preciso e dettagliato.
Poi occorre che la scuola non sia lasciata sola a gestire un’autonomia organizzativa e didattica che deve poter far conto, per esprimere tutte le sue potenzialità, su validi supporti nella messa a punto delle necessarie strategie di miglioramento, per le quali andrebbero anzitutto garantiti risorse e strumenti.
Su questo sono evidenti le responsabilità della politica e dell’amministrazione; a quest’ultima in particolare si richiede di fare un passo in avanti rispetto all’elaborazione di modelli comunque “centralizzati”, ma di calarsi nelle specificità territoriali, di supportare le scuole sul terreno in cui realmente si confrontano, non imbottendole di modelli astratti.
E se è vero che alla scuola serve un’elevata qualità del corpo docente, si affronti il problema non in modo ideologico, concentrati quasi esclusivamente sui meccanismi di reclutamento, ma impegnando risorse e intelligenza per rendere strutturale un sistema di formazione in servizio per tutto il personale, di ruolo e precario.
L’abbiamo già detto e lo ripetiamo: suona paradossale, e anche un po’ ipocrita, scoprire che serve verificare la preparazione del docente quando entra in ruolo, magari dopo dieci anni che quell’insegnante ha lavorato da precario. Si faccia piuttosto qualcosa perché quella fase di precarietà sia assistita e arricchita anche da adeguati supporti formativi.
Evidenziamo infine un aspetto che forse ci può aiutare a far giustizia su ricorrenti banalizzazioni: le aree territoriali per le quali l’Invalsi attesta risultati scolastici migliori sono anche quelle nelle quali è molto più alta la percentuale di supplenze. Dovremmo dedurne che i precari sono più bravi dei docenti di ruolo? Ecco a cosa si può arrivare sostituendo le banalizzazioni alle argomentazioni serie.
Facciamo allora ciò che davvero serve, uno sforzo collettivo di ragionamento, e un’altrettanto collettiva assunzione di responsabilità. Se ci interessa risolvere i problemi della scuola, non semplicemente usarli per alimentare polemiche di corto respiro