“Introduciamo materie opzionali e aumentiamo il tempo scuola”, risolviamo il “disastro della scuola italiana”: INTERVISTA ad Andrea Gavosto

“Sarebbe ingiusto non riconoscere che, dal Dopoguerra a oggi, l’istruzione italiana ha compiuto passi da gigante nel raggiungere fasce sempre più ampie della popolazione: ma non basta”
“Se, infatti, non ci limitiamo a osservare la media degli anni di istruzione o i titoli di studio ottenuti, ma consideriamo anche la qualità dell’istruzione ricevuta dagli studenti e dalle studentesse, la situazione italiana appare tutt’altro che rosea. Da quando, dall’inizio del millennio, si sono diffusi strumenti oggettivi per misurare quello che gli studenti conoscono e comprendono, simili in tutti i paesi, si è scoperto che, dietro la facciata dei titoli di studio, in Italia vi è spesso una drammatica carenza di competenze. Il dato che meglio di tutti la sintetizza è che, alla vigilia della maturità, ovvero al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, uno studente su due non raggiunge un livello accettabile di apprendimenti in matematica; e la quota supera addirittura il 70% in alcune regioni del Sud. Simili sono i risultati in italiano”.
Se questa è la premessa al libro “La scuola bloccata”, scritto da Andrea Gavosto (Ed Laterza, pagg. 208), appena uscito nelle librerie, allora ci sono tutte le condizioni perché chi ama la scuola e il suo futuro possa trovare nella lettura di questo volume – appassionante e coinvolgente, che non fa sconti a nessuno ma che non fa perdere la speranza in nessuna delle sue pagine – uno strumento di analisi accurata sul sistema scolastico attuale e di riflessione profonda sulla scuola e sul suo futuro.
Specie se il contenuto della premessa, tanto disarmante quanto suffragata da dati, documenti e ricerche, è affiancato non solo dall’elenco delle cose che non vanno bene, e che secondo l’autore sono alla base della debacle dell’istruzione, ma anche da alcune idee costruttive per il rilancio della scuola nell’interesse dei nostri giovani e del Paese intero. Alcune idee di Gavosto – che è direttore della Fondazione Giovanni Agnelli e che per questo ha usato le ricerche condotte dalla Fga ma che tiene a precisare che scrive a titolo personale – sono concrete, di facile trasformazione in azioni pratiche, a patto che ci sia la volontà politica di procedere, altre sono un po’ più difficili da realizzare, almeno nel breve periodo.
Ma torniamo ai dati del denunciato disastro. “Si potrebbe ritenere che questi dati siano legati alla contingenza e dipendano dall’enorme perdita di apprendimenti causata dalle chiusure scolastiche dovute al Covid-19 e al conseguente ricorso alla didattica a distanza. In realtà non è così”, prosegue Gavosto nella premessa al suo libro,
E vediamo perché non sarebbe così: “La scuola italiana, come ogni altra in tutto il mondo – vi si legge – ha vissuto un passaggio drammatico: ad aprile del 2020 1,3 miliardi di allievi, pari al 75,4% del totale mondiale, sono rimasti a casa e, da allora, hanno conosciuto una stagione scolastica molto frastagliata. Nemmeno durante i due conflitti mondiali il sistema di istruzione ha subìto una battuta d’arresto di questa portata: le conseguenze sugli apprendimenti non potevano essere lievi e non lo sono state. Ma anche se il prezzo pagato dalla scuola alla pandemia è stato altissimo, la situazione in Italia era già drammatica in precedenza: nel 2019 le percentuali di studenti che non raggiungevano una soglia adeguata di competenze erano altissime. Da anni ormai, le prove di apprendimento sono il termometro di una profonda crisi della nostra scuola: molti studenti, soprattutto quelli che provengono da ambienti sociali svantaggiati, non possiedono un bagaglio di conoscenze e competenze che consenta loro non solo di trovare un lavoro soddisfacente, ma di essere cittadini in grado di partecipare pienamente alla vita della comunità. Siamo dunque di fronte al rischio di un fallimento senza appello della scuola italiana. Oggi la nostra scuola non garantisce efficacia ed equità nell’apprendimento. Ma l’istruzione è un processo cumulativo: se gli studenti e le studentesse manifestano lacune in una determinata fase del loro percorso, questo renderà più difficile la prosecuzione degli studi e l’entrata nel mondo del lavoro. Si corre quindi il pericolo di accentuare, a tutti i livelli, la deriva rispetto agli standard scolastici degli altri paesi europei, proprio nel momento in cui il nostro paese è impegnato a riacquisire un ruolo centrale, economico e politico, in Europa. Portare all’attenzione dei lettori le fragilità del nostro sistema educativo e le possibili misure per porvi rimedio è l’obiettivo di questo libro”. La principale argomentazione del volume, scrive Andrea Gavosto, è infatti “che, alla luce del fallimento dei numerosi tentativi di riforma, solo se famiglie e opinione pubblica sono pienamente informate dei risultati della singola scuola e dell’intero sistema si può realizzare un miglioramento. Senza una pressione mirata da parte delle famiglie e dell’opinione pubblica sugli aspetti meno soddisfacenti, i decisori politici non dispongono di chiare indicazioni su che cosa fare e finiscono per intervenire più per assecondare gli interessi del loro elettorato che per risollevare il sistema. Naturalmente, lo sforzo per migliorare la scuola non può esaurirsi nello spazio di un singolo governo (soprattutto in Italia!): la strategia di intervento deve essere lungimirante, sapendo che la modifica di un piccolo ingranaggio condurrà a cambiarne un altro e così via, superando le molteplici resistenze che hanno finora impedito una profonda revisione del sistema scolastico”.
Dottor Andrea Gavosto, diciamolo subito, da premessa a premessa: molti docenti non apprezzano le sue analisi sulla scuola e più volte sui social sono apparsi indispettiti per le sue dichiarazioni pubbliche, sempre scomode, e per le sue proposte. Dal libro traspare invece un grande amore per la scuola pubblica italiana e per il futuro del nostro Paese. Perché allora, secondo lei, c’è tutta questa acredine nei suoi confronti e anche verso le ricerche della Fondazione Agnelli?
“Perché si fa una facile associazione. E cioè: La Fondazione Agnelli, di cui sono direttore, per sua natura si occupa di scuole private e vuole condizionare la scuola pubblica italiana alle esigenze produttive”.
E non è cosi?
“No, non è così. Sono false entrambe le affermazioni. Quando ci si occupa di scuola ci si deve occupare delle scuole dello Stato e a noi interessa che la scuola dia agli studenti strumenti che formano i cittadini. Lo scopo di questo libro è essenzialmente che la scuola è al servizio degli studenti e non viceversa. Però capisco che sia molto facile non mettersi in discussione. Come Fondazione Agnelli siamo al servizio del Paese”.
Posso domandarle se i suoi figli hanno frequentato la scuola privata oppure la scuola pubblica?
“Certo che può domandarlo. I miei tre figli hanno frequentato la scuola pubblica: il maschio ha frequentato il liceo scientifico, le femmine il liceo classico. E hanno fatto tutti e tre il percorso pubblico, dal nido alla scuola dell’infanzia, dalla primaria alla secondaria: tutte statali, tranne che per un anno il nido di una delle bambine, perché in quell’anno non c’era posto per lei. Io credo che la scuola insegni a diventare cittadini. E siccome i miei figli provenivano da ambienti privilegiati, io volevo che si rendessero conto che la società non è fatta da persone come loro e che dunque bisogna essere aperti. La generazione dei miei figli è per fortuna multietnica e loro sono stati abituati fin da subito a stare con gli altri, grazie alla scuola pubblica che abbiamo scelto per loro”.
E il quadro che lei ha tracciato della scuola pubblica italiana lascia senza parole. Scrive che sono state perse tante occasioni.
“La situazione è preoccupante. E io mi sono sempre chiesto perché siamo in questa situazione. Se ci sono delle cose da fare, dico io, perché non si è riusciti a farle finora? Con le graduatorie e le assunzioni era chiaro che si sarebbe creata un’ingiustizia, abbiamo scoperto che nelle Gae c’erano persone che da tempo non erano a scuola. Di fronte al posto fisso non si dice di no ma non è quello che il sistema scolastico vuole. C’è stato un errore di analisi. S’è pensato che il problema del precariato fosse tutto nelle Gae e non è vero. Gli appartenenti alle graduatorie peraltro non sono sottoposti ad alcuna verifica delle competenze didattiche. Le loro competenze disciplinari sono state esaminate solo per i pochi abilitati, mentre per i tantissimi non abilitati che ogni anno accedono all’insegnamento fa fede solamente il percorso di studi. Di fatto, di un’ampia percentuale di docenti – le seconde fasce delle Gps e le terze delle graduatorie di istituto – ignoriamo le qualità professionali, anche se trascorrono molte ore in aula: questa è una grande differenza rispetto al resto dell’Europa”.
A questo proposito lei affronta più volte nel suo libro il tema delle mismatch
“Si tratta del disallineamento fra le caratteristiche delle cattedre e quelle dei candidati. Ed è ormai diventato un fenomeno strutturale. Mentre le scuole del Nord hanno bisogno di insegnanti di matematica, fra i potenziali candidati che posseggono i requisiti per assumere un posto di ruolo si trovano prevalentemente soggetti specializzati in discipline umanistiche, che risiedono al Sud. Il fenomeno non riguarda soltanto le cattedre di materie scientifiche. Già oggi e ancora di più prossimamente, al Nord sarà sempre più difficile individuare docenti abilitati al posto di ruolo in tutte le discipline, al Sud si libereranno sempre meno posti di ruolo, praticamente solo per effetto dei pensionamenti, con code di attesa sempre più lunghe.Come è possibile che così tante cattedre rimangano vuote, pur essendovi moltissimi supplenti in attesa da tempo di un posto di ruolo? La risposta è perché i docenti in lista di attesa non hanno le caratteristiche, di residenza o di competenza disciplinare che rispondano alle necessità delle istituzioni scolastiche. Tornando alle Gae, le scuole chiedevano matematica, le Gae offrivano insegnanti di musica non musica. E’ stata assunta tanta gente ma era questo che si doveva fare per il bene della scuola?”
Le ricordo che a novembre 2014 una sentenza comunitaria della Corte di Lussemburgo ha fatto giustizia dello sfruttamento del precariato scolastico nella scuola pubblica italiana. Quelle assunzioni erano obbligate.
“La sentenza dice che la prassi era incivile. Licenziare migliaia di insegnanti a giugno di ogni anno per riassumerli a settembre è prassi ingiusta: dopo tre anni, dice la Corte di Gustizia, dovete assumere oppure niente proroga a tempo determinato. Era dunque giusto che si procedesse con le assunzioni, ma è stato meno giusto fare una sanatoria senza verificare le competenze degli insegnanti assunti. Sono stati imbarcati tutti a scapito delle graduatorie di istituto. La Buona scuola era partita in maniera concettualmente sbagliata. Abbiamo superato la supplentite, si disse. In realtà non è stato superato un bel nulla. E poi quella riforma fu comunicata in maniera pessima. Ci ricordiamo della lezione di Renzi alla lavagna. Si pensi poi all’obbligo della formazione per i docenti o all’Alternanza scuola e lavoro, imposta in modo repentino”.
Torniamo agli studenti. Lei scrive nel libro che sarebbe ingiusto non riconoscere che, dal Dopoguerra a oggi, l’istruzione italiana ha compiuto passi da gigante nel raggiungere fasce sempre più ampie della popolazione: ma non basta.
“Contrariamente alla visione di Mastrocola e Ricolfi, per cui saremmo peggiorati, in realtà io penso che se guardiamo i dati dell’Ocse possiamo vedere che c’è stato un progresso, generazione dopo generazione: le persone sanno di più. Dopo la guerra si è passati, in 20 anni. all’istruzione di massa, abbiamo vissuto decenni d’oro, si sono ridotte le disuguaglianze. Poi l’ascensore sociale s’è inceppato. E questo ha molto a che fare l’organizzazione dei cicli. Da noi dopo la terza media, a 14 anni, si è obbligati a scegliere l’indirizzo degli studi superiori. E la scelta dipende dalle condizioni delle famiglie. Questo fa sì che si concentrino gli studenti più svantaggiati nelle stesse scuole, dove gioca molto il ruolo dei compagni che non stimolano. La cosa importante sarebbe che ciascuno facesse le scelte secondo le proprie aspirazioni. Fin quando non si rompe lo schema, famiglie di operai manderanno i figli negli istituti professionali, le famiglie non svantaggiate iscriveranno i figli nei licei”.
Lei insiste molto sul fatto che non si riesca proprio a ridurre l’iniquità del sistema scolastico.
“Le ricerche ci dicono che l’Italia non è il Paese con più diseguaglianze legate al background familiare ma lo diventa nel momento della scelta dell’indirizzo scolastico. C’è un’altra cosa che mi preoccupa: l’Italia è un Paese con meno studenti eccellenti, c’è un’equità al ribasso, siamo molto concentrati su livelli di apprendimenti modesti. Ci vorrebbe poca disuguaglianza ma un’elevata qualità media degli apprendimenti. E invece abbiamo relativamente poca diseguaglianza ma bassa efficacia”.
Questo da che cosa dipende? Lei vorrebbe l’introduzione delle materie opzionali nelle nostre scuole
“Questo dipende dalla scarsa preparazione della didattica. Abbiamo una didattica tradizionale che non arriva a tutti i ragazzi, ma il modo con cui il docente insegna è centrale. Si fa poco orientamento in entrata – e anche in uscita – e se io ho sbagliato scuola rischio di trovarmi in difficoltà e sono costretto a cambiare indirizzo. C’è anche un tema di eccessiva strutturazione dei curriculi: siamo l’ultimo Paese rimasto senza le materie opzionali. Si potrebbe iniziare alle medie definendo un gruppo di materie che tutti devono fare: ad esempio matematica, italiano, scienze, inglese. I francesi hanno uno zoccolo duro di discipline e poi gli studenti scelgono alcune materie. E questo intanto serve loro per sperimentarsi, per capire quali sono i propri interessi. E invece qui da noi non è possibile”.
Ma ciò richiederebbe una colossale riorganizzazione
“Chiaro, ma se pensiamo in termini di benessere degli studenti, questo sarebbe un enorme passo avanti”
Lei sostiene che il tempo scuola debba essere aumentato
“La scuola dev’essere estesa al pomeriggio per sviluppare competenze anche soft. Ogni ora passata a scuola si traduce in crescita degli apprendimenti, ce lo dicono le ricerche. Non si può certo pensare di fare alla coreana con solo studio e senza attività che siano capaci di sviluppare altre competenze. Ma molte cose si devono fare a scuola: musica, teatro, arte, lingua, sport. Invece si fanno fuori. Anche i laboratori si fanno fuori”.
Non pensa che su questo fronte ci sarebbero delle remore da parte docenti?
“Temo di sì. Ma diversamente dal numero di studenti in classe, il tempo dedicato all’istruzione può fare la differenza sugli apprendimenti: questa è una delle poche affermazioni su cui tutti gli studiosi di scuola concordano. L’Italia si colloca un po’ sotto la media Ocse per numero di ore complessive di istruzione all’anno nel primo ciclo, soprattutto nella scuola media, in cui il tempo pieno è raro, riguardando appena il 10% degli allievi. Anche in termini di giornate di frequenza il nostro Paese non è molto diverso dal resto di quelli avanzati. La principale differenza è data dalla distribuzione durante l’anno: mentre negli altri Paesi le vacanze sono sparse lungo tutto l’anno, da noi sono concentrate nei mesi estivi, creando un’interruzione di tre mesi nello studio, con effetti negativi sugli apprendimenti dei ragazzi”.
Qual è l’effetto di più ore di istruzione sugli apprendimenti? Lei diceva prima che ogni ora passata a scuola si traduce in crescita degli apprendimenti. Ma non dipende anche da come si occupa quel tempo?
“Le analisi nel tempo e fra Paesi mostrano che un’ora di scuola in più alla settimana migliora significativamente quanto gli studenti apprendono, anche se con una certa variabilità degli impatti. In generale, quasi tutti gli studi identificano un effetto particolarmente positivo per i ragazzi che provengono da ambienti svantaggiati. Se l’utilità di passare al tempo pieno anche alle medie e alle superiori trova conforto nei dati, meno scontato è che cosa fare in quelle ore. L’estensione del tempo scuola al pomeriggio ha numerosi vantaggi. In primo luogo, consente di affrontare le materie curricolari con modalità innovative e ritmi più distesi: ad esempio, questo è oggi cruciale per il recupero del terreno perso durante il Covid-19, che difficilmente potrà avvenire senza un allungamento delle ore dedicate alle discipline. In secondo luogo, le ore in più possono essere utilizzate per attività di orientamento durante la scuola media e negli ultimi anni delle superiori, ad esempio svolgendo compiti di realtà e altre forme di didattica orientativa o frequentando lezioni universitarie durante le superiori, in modo da verificare il proprio grado di interesse. Infine, il pomeriggio potrebbe essere dedicato, come dicevo prima, alla pratica di attività sportive, musicali e artistiche, oltre ai laboratori, capaci di sviluppare appunto competenze trasversali. Con più tempo a disposizione, anche l’orario del mattino potrebbe assumere funzioni diverse: oltre alle lezioni curricolari, diventerebbe il momento per lo studio personalizzato, sostegno e potenziamento, e il lavoro in gruppo”.
Lei ammette che in questo caso occorra ripensare alle retribuzioni. Che sono peraltro il nervo perennemente scoperto della scuola
“L’allungamento dell’orario comporterebbe anche un ripensamento del contratto di lavoro del personale della scuola: è naturale che i docenti trascorrano più ore a scuola sia per le attività aggiuntive sia per svolgere quei lavori che oggi eseguono a casa, come la preparazione delle lezioni. Il contratto dovrebbe quindi prevedere come modalità normale un impegno di 40 ore, ovviamente con retribuzioni proporzionalmente più elevate, lasciando il part time come opzione per chi è in una fase della vita in cui ha bisogno di tempo per altri bisogni. Con l’allungamento dell’orario scolastico, si ricaverebbe più tempo per approfondire, per lo studio individuale, per la correzione dei compiti, la discussione della programmazione didattica, lo sport, l’arte. Rispetto all’attuale organizzazione, i docenti dovrebbero stare a scuola 36 ore invece che 18, per svolgere attività che invece svolgono a casa. Attività che unitamente alla formazione in un posto di lavoro normale sarebbero svolte sul posto di lavoro. E invece abbiamo un sistema che è sempre stato scellerato: ti pago poco e ti chiedo un impegno orario ridotto. Le cose le fai a casa e se non le fai io Stato non ti controllo”.
Le famiglie sanno come stiano davvero le cose nella scuola frequantata dai propri figli?
“No, non c’è trasparenza. Tutte le famiglie ritengono la scuola importante però non è poi a loro chiaro ciò che non funziona. Se le scuole accettassero di comunicare i dati ad esempio quelli dei test Invalsi sarebbe meglio. In Scuola in chiaro qualche scuola le mette. Abbiamo da decenni gli organi collegiali però c’è poco coinvolgimento delle famiglie nelle attività didattiche. Il dialogo scuola famiglia dovrebbe essere non un contrasto, non un motivo di ricorsi e lamentele, dovrebbe essere un dialogo continuo. Ma le famiglie e i cittadini devono sapere. Il registro elettronico ha fatto fare un passo avanti, ma non basta: altrimenti la scuola deve affrontare grossi problemi da sola. I genitori devono partecipare ai progetti. La scuola deve diventare il centro della vita delle famiglie e invece vengono tenute lontane”.
Perché è importante investire in istruzione? Lei dice che l’investimento è addirittura misurabile, quasi come lo è l’acquisto di un titolo di Stato.
“L’investimento è importantissimo intanto sul piano individuale, sia per la maggiore probabilità di trovare lavoro sia per la maggiore retribuzione, all’ingresso e lungo tutto l’arco della carriera, che un titolo di studio elevato garantisce: il tasso di rendimento di un anno di istruzione è infatti intorno al 10 per cento, ben superiore a quanto potrebbe fruttare un investimento immobiliare o finanziario, pensi all’acquisto di un Bot, appunto. I vantaggi economici garantiti da un titolo di studio sono quindi ragguardevoli. Ma dall’investimento in istruzione trae profitto ovviamente l’intera economia nazionale, il tasso di crescita è infatti condizionato dall’investimento in istruzione. Un Paese che ha maggiori competenze cresce di più perché produce meglio: pensi all’importanza della conoscenza della lingua inglese nei paesi del Nord Europa o alle conoscenze scientifiche che aprono possibilità e mercati. Molte multinazionali in Olanda possono lavorare con l’estero meglio che qui da noi. Banalmente, avere studiato agraria, per uno che abbia un’azienda agricola, significa poter realizzare prodotti, ad esempio vinicoli, di eccellenza. Una volta, anche qui da noi ad Alba, il nostro vino era considerato di serie B, oggi grazie all’istruzione il vino ha fatto dei salti di qualità, ed è solo un esempio. Far studiare conviene all’economia. Le ricerche mostrano una forte correlazione fra il tasso di crescita medio dell’economia su un arco di tempo prolungato e il livello degli apprendimenti nei paesi dell’Ocse, misurati attraverso test standardizzati, uguali in tutti i paesi: essi concludono che un ragionevole aumento degli apprendimenti conduce a circa 5 decimi di maggior crescita del Pil. Se si pensa che il mondo politico si sofferma in genere di fronte a variazioni di uno o due decimi della crescita del Pil, si possono facilmente cogliere i benefici che un maggiore investimbbe ottenere un allungamento dell’istruzione, una migliore edilizia scolastica e altro, insomma con i pochi bambini che ci restano investiamo nella loro istruzione. Con le tendenze attuali, la scuola italiana passerà infatti da essere una scuola per ‘tanti’, come è attualmente, a una per ‘pochi’: la scommessa, tutta da vincere, è che questi pochi possano godere di una formazione di altissimo livello. Sarebbe questa la via preferibile: in pratica, però, occorre valutare se l’attuale struttura della scuola e la preparazione degli insegnanti lo consentano”.ento in capitale umano a livello nazionale potrebbe comportare”.
L’istruzione fa bene all’economia ma anche alla salute
“Dai dati Istat sappiamo che gli istruiti mangiano e si curano meglio, che sono interessati alla vita politica del Paese, che fanno più attività di volontariato, che si occupano dell’interesse collettivo. Con l’istruzione si è migliori cittadini”.
Pensando a questo capitale umano, non si può non considerare l’inarrestabile denatalità in atto nel nostro Paese, destinata a impattare molto presto sulla scuola italiana. Che cosa succederà?
“Perderemo nell’arco di dieci anni un milione di studenti e tra l’altro le notizie legate al periodo della pandemia sono peggiori. Speriamo che sia un peggioramento solo temporaneo, altrimenti perderemmo altro che un milione. Nei prossimi anni la riduzione degli studenti potrebbe essere quindi accompagnata da un calo più che proporzionale degli insegnanti, favorito dall’età media elevata e dal flusso di pensionamenti. Il fenomeno comporterà meccanicamente un minore fabbisogno di docenti, serviranno infatti 65.000 cattedre in meno nei prossimi dieci anni. Saranno interessate per prime le scuole dell’infanzia e primaria, poi le medie e le superiori. Si può stimare che il risparmio in stipendi dei docenti sarebbe di oltre 2 miliardi di euro all’anno. Il Paese dunque deve fare delle scelte: o si rinuncia ai soldi risparmiati e si mettono da un’altra parte, oppure si continua a investire in istruzione, e quei soldi potrebbero essere a questo punto utilizzati in altre politiche pubbliche. Avendo meno bambini, si potre
In attesa del crollo della popolazione studentesca, resta attuale però il tema delle classi pollaio. Ma lei sostiene che trattasi di una grande mistificazione. E’ così?
“Sì, il problema delle cosiddette classi pollaio è ampiamente sopravalutato. La questione è stata montata ad arte per il mantenimento delle cattedre ma non è la priorità della scuola italiana”
Guardi che il numero degli alunni nelle classi è talvolta davvero alto.
“Secondo me non è alto, io non riesco a vedere un problema drammatico. Ci saranno delle situazioni particolari, certo, ma a fronte di queste poche situazioni non si può pretendere di modificare la normativa nazionale. Ci sono paesi come il Giappone dove i risultati sono buoni nonostante tutto. Con la denatalità si arriverà a meno dei 27 alunni previsti dalla normativa, tuttavia non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino che con meno alunni in classe gli apprendimenti migliorino, visto che la didattica è sostanzialmente trasmissiva”.
La scuola va spesso in vacanza e anche questo le fa storcere il naso.
“L’Italia non fa più giorni rispetto a quanto succede in altri Paesi. Il fatto è che sono concentrati, mentre altrove sono distribuiti nell’arco dell’anno. Tre mesi di stop completo della scuola, oltre a procurare problemi alle famiglie, sappiamo che produce un peggioramento delle conoscenze: se uno volesse misurarle a giugno e a settembre noterebbe un calo”.
Qual è la sintesi della denunciata debacle della scuola?
“Parliamo di persone che hanno fatto 13 anni di scuola, stanno per fare la maturità e che la passeranno, eppure non arrivano a un livello minimo di competenze necessarie per capire cosa ci sia scritto in un testo, per fare un minimo di conti. Non ci arrivano”.
Questi dati sono tratti dal risultati delle prove Invalsi. Abbiamo letto qualcuno dei quesiti delle prove: non è che siano poi così facili, anzi.
“Non credo che siano difficili, secondo me gli studenti sono ormai abituati alle prove Invalsi. Il meccanismo prevede domande volutamente facili e domande volutamente difficili, proprio per tracciare i vari livelli di apprendimento. Il fatto è che gli studenti non rispondono neppure a quelle facili”.
Perché succede questo?
“Perché la nostra è una scuola dove non vengono sviluppate le competenze. La scuola delle competenze non è la scuola che vuol far diventare tutti dei lavoratori, come spesso si sente dire. Non è l’asservimento della scuola al sistema produttivo, come si contesta, ma è la capacità di applicare le conoscenze, che gli studenti devono comunque acquisire, ai problemi della vita reale. Superata la scuola primaria si tende a fare poco sul piano delle competenze. Si studia il libro di testo. Ma non si può pensare ancora di avere una scuola elitaria, dobbiamo dare a tutti una scuola con un certo numero di competenze minime, perché osserviamo una grave difficoltà nel ragionamento che vada oltre all’acquisizione mnemonica delle conoscenze”.
I risultati dei test Invalsi restituiscono una situazione non omogenea tra le varie aree del Paese. I peggiori risultati sono al Sud. I docenti meridionali sono la maggioranza nelle scuole del Nord, lei lo sottolinea, dunque non è un problema di docenti. Allora dove s’inceppa il meccanismo?
“I docenti del Sud che lavorano al Nord sono bravi come gli altri. Sostanzialmente le indicazioni nazionali sono uguali, non sono dunque i curriculi a fare la differenza. Peraltro i docenti sono pagati allo stesso modo e sono selezionati secondo le stesse regole, usano gli stessi libri di testo. Dunque capire non è semplice, ma ci sono motivi oggettivi: c’è la questione dei nidi dell’infanzia, che al Sud mancano, c’è il tema del tempo pieno, che al Sud è carente. Ma al di là di questi rilievi, importanti, il grosso tema è che le famiglie al Sud sono meno preoccupate della qualità di che cosa imparano i figli e pensano di più al diploma, che garantisce l’accesso alla pubblica amministrazione”.
Dai contesti regionali agli orizzonti europei il passo è breve, almeno si fa per dire. Secondo la normativa comunitaria, la scuola non è materia di pertinenza della Ue, ma dei singoli Stati. Lei scrive che “con il senno del poi, possiamo dire che fu uno sbaglio dei padri costituenti, che sottovalutarono l’importanza che una scuola comune ha nel forgiare l’identità continentale. È arrivato il tempo di porre rimedio a questa lacuna, avviando anche in Italia la costruzione di una scuola moderna ed europea, in un quadro di regole comunitarie”
“Io sono un europeista convinto. Se vogliamo creare un’identità europea bisogna cambiare le cose. Io vedo una convergenza europea sulla scuola e l’istruzione. La Francia aveva un modello come il nostro basato su indirizzi: classico, tecnologico, scientifico. Ora la Francia va verso il modello scandinavo, basato su un gruppo di materie comuni a tutti gli indirizzi e su materie opzionali. Alla fine si arriverà a un modello comune. Auspico quindi che la scuola e l’istruzione diventino una materia europea. Questo permetterebbe ai nostri studenti anche di frequentare un anno in un altro Paese. Ogni Paese racconta la propria storia. Sarebbe bello a questo propositito poter insegnare le guerre europee e così non avremmo la guerra vista dall’Italia. Se uno va a vedere gli stessi episodi sui libri di storia, sono raccontati in modi diversi. Pensiamo alla letteratura: Hugo è un autore europeo, ma a scuola lo studia solo chi fa lingua francese. Goethe a sua volta è curato solo da chi fa tedesco e così via. Ma secondo me, onestamente, un europeo dovrebbe assolutamente conoscere Dante, Shakespeare, Tolstoy, Dostoevskij…”.